Siamo in guerra da anni. Soldati italiani, mercenari in divisa
pagati da noi tutti, sono in Afganistan a fare la guerra in nostro
nome. Soldati italiani sono o sono stati sui fronti di guerra in Iraq,
in Kosovo, in Serbia, in Somalia. A seconda delle circostanze queste
guerre sono state chiamate "operazioni di polizia internazionale",
"missioni umanitarie", "operazioni di peacekeeping".
L'apparato propagandistico cambia ma sempre di guerra si tratta. Case
bombardate, gente ammazzata, occupazione militare, tortura questa
è la realtà nei paesi dove interviene l'esercito italiano
a fianco dell'alleato statunitense.
Nel nostro paese ci sono caserme, aeroporti, basi navali, radar,
depositi di munizioni, carburante, bombe dell'esercito, della marina e
dell'aeronautica italiane, USA e NATO. Il nostro paese è una
gigantesca piattaforma bellica allungata al centro del Mediterraneo.
Il movimento contro la guerra in Italia, nonostante in alcuni momenti
abbia raccolto adesioni di massa con centinaia di migliaia di persone
che scendevano in piazza non è quasi mai andato oltre la
testimonianza, il mero rifiuto morale, senza riuscire a mettere sabbia
nell'ingranaggio ben oliato del militarismo.
Opporsi alla guerra senza opporsi agli eserciti che la fanno, alle armi
che la combattono, alle basi da cui partono truppe e mezzi è una
lotta contro i mulini a vento, patetica ed ineffettuale. Un pacifismo
che non inserisca nel proprio DNA i geni dell'antimilitarismo radicale
è votato alla testimonianza, alla marginalità o, peggio,
al ruolo di imbiancatore di sepolcri. La sinistra, tutta la sinistra,
compresa quella che oggi si ammanta dell'arcobaleno della pace, ha
cavalcato il movimento contro la guerra a fini elettorali ma, appena
tornata al potere, è tornata a fare la guerra. Per chi lo avesse
dimenticato nel 1999 il nostro paese è stato la portaerei dalla
quale sono partiti i bombardieri USA e quelli tricolori che hanno
martellato la Serbia e il Kosovo, ammazzando e distruggendo. A capo del
governo era Massimo D'Alema, oggi ministro degli esteri.
Il governo Prodi ha mantenuto e rafforzato la missione militare in
Afganistan e ha dato il via alla costruzione a Vicenza della base
operativa USA più grande d'Europa. Gli arcobaleni della
cosiddetta sinistra radicale hanno votato, votato e votato ancora a
favore dell'invio di truppe. In quanto al Dal Molin, non sono andati
oltre le chiacchiere, segnalando tuttavia a gran voce di avere un gran
mal di pancia. Sarebbe tempo che si decidessero a vivere tranquilli la
propria scelta guerrafondaia, smettendola di ammorbarci con il lezzo
insopportabile della loro ipocrisia.
Ma è anche tempo per i movimenti contro la guerra di emanciparsi
dalla dipendenza da un quadro politico istituzionale, in cui cambiano
gli attori sul palcoscenico, ma non mutano le scelte di guerra.
Il primo passo, concreto ma dalla forte valenza simbolica, consiste
nell'opporsi alla basi militari, nell'impedire che ne vangano fatte di
nuove e nel chiudere quelle esistenti.
Il movimento vicentino, che nelle sue diverse componenti, si batte
contro il Dal Molin, la Caserma Ederle e contro le numerose altre
installazioni militari sul territorio, ha raccolto il favore di tanti,
che dalla manifestazione del 1 dicembre 2006 a quella del 17 febbraio
di quest'anno sono accorsi a Vicenza per dare sostegno ad una lotta, la
cui valenza va ben oltre Vicenza. Sta crescendo la consapevolezza che
l'opposizione alla guerra si fa sui nostri territori, lottando per
affrancarli dalle installazioni e dalla servitù militari,
tagliando concretamente le basi alla guerra. Tra quanti si battono
contro le opere inutili, nocive, devastanti, che un'idea distorta di
progresso cerca di imporre, vi è stato negli ultimi due anni un
agire solidale, che, dopo la rivolta della Val Susa dell'inverno 2005,
ha portato alla nascita del Patto di Mutuo Soccorso, ossia all'impegno
al sostegno reciproco di fronte alle lotte e alla repressione dello
Stato. Pur con le inevitabili difficoltà di un percorso che si
scontra spesso contro la smania dei vari politicanti di movimento di
mettere il cappello al Patto, tuttavia l'esperienza è stata
sinora sostanzialmente positiva, perché fondata sull'autonomia
di gruppi e movimenti il cui legame sta nella capacità di agire
solidalmente.
La scorsa estate un'assemblea a Vicenza ha sancito che, se i lavori di
costruzione della base fossero iniziati, in ogni dove sarebbero state
prese iniziative che, da nord a sud, da est a ovest, bloccassero
l'Italia.
Sono piccoli ma importanti segnali che l'opposizione alla guerra
– e al militarismo – va oltre l'indignazione per dar corpo
ad un'agire politico capace di segnare punti concreti a favore della
liberazione dagli eserciti, da tutti gli eserciti, quelli tricolori
come quelli a stelle e strisce.
A Vicenza nei prossimi mesi si giocherà una partita cruciale,
una partita difficilissima, perché vincere contro avversari
tanto forti e spietati non è certo facile. Ma non impossibile.
Specie se chi si oppone alla nuova base, a Vicenza come nel resto
d'Italia, saprà essere autonomo dal quadro politico
istituzionale e dai suoi giochi, mirando a coniugare, in ogni dove, la
radicalità degli obiettivi e delle pratiche con il radicamento
sociale.
Per sabotare la guerra occorre che la lotta di Vicenza si estenda e si
allarghi: da Camp Derby a Taranto, da Aviano a Sigonella, da Ghedi a
Quirra, da Napoli a La Spezia, ad ogni città o paese, dove vi
sia una caserma, un poligono di tiro, un deposito d'armi.
onan