La Casa Bianca è infestata dai fantasmi
(Jenna Bush, figlia del presidente)
La crisi militare attraversata dalle forze Usa e Nato in Afganistan
è ormai un fatto conclamato. Le cifre fornite sia da istituti
internazionali come l'organizzazione canadese Sensil Council che da
varie fonti di intelligence lo attestano senza margini di dubbio: sei
province risultano interamente sotto il controllo della guerriglia; il
54% del territorio afgano ospiterebbe "una permanente presenza
talebana, specialmente nel sud"; rispetto al 2006 gli attentati sono
aumentati del 30%; si contano circa 2000 gruppi armati illegali. Anche
le perdite ufficialmente conteggiate tra i militari delle forze Usa e
Nato sono in continuo aumento: dall'ottobre 2001 al settembre 2007
assommavano a 696, ma dalla media di circa 50 morti nei primi tre anni,
si è passati a 191 solo nel 2006 e a 180 (dei quali 85
statunitensi) nei primi nove mesi del 2007, tanto che nell'ultimo mese,
come riconosciuto dagli stessi comandi, per la prima volta dal 2003, i
militari Usa hanno subito più perdite che in territorio iracheno
dove peraltro sono impiegate molto più truppe.
Va comunque osservato che, se le fonti militari giungono a riconoscere
la morte di circa 5.000 soldati alleati in sei anni di guerra in
Afganistan e Iraq, è plausibile ritenere che l'effettiva
entità delle perdite sia largamente superiore a quelle
dichiarate.
I cosiddetti insorgenti, sempre più riforniti di armi, stanno
progressivamente accerchiando l'area di Kabul, dai primi di dicembre
sotto comando italiano, e l'azione della guerriglia ormai si è
andata estendendo anche alle province settentrionali e occidentali, a
torto ritenute quasi pacificate, dove tra l'altro vi è
distaccata parte del contingente italiano con base ad Herat. A fronte
di tale rafforzamento della guerriglia, va inoltre sottolineato che
l'arruolamento, l'addestramento e l'armamento sia dell'esercito
nazionale afgano (ANA) sia della forze governative di polizia (ANP) sta
andando avanti con molte difficoltà, senza essere in grado di
rispettare le previste tappe nella riorganizzazione perseguita dalla
Task Force Phoenix a cui partecipa il personale militare di vari stati,
tra cui anche quello italiano.
Attualmente l'esercito afgano risulta composto da circa 35 mila
effettivi, con l'improbabile obbiettivo di raggiungere i 70 mila nel
2008; mentre la polizia nazionale consta di 62 mila unità, con
l'obiettivo di arrivare a 82 mila. La scarsità di organici
è tale che, nel giugno 2006, il presidente Karzai ha autorizzato
alcune milizie tribali a sostenere le attività di polizia
locale, costituendo un corpo ausiliario (ANP) che ha finito per
aggravare le tensioni tra i diversi gruppi etnici.
Tra l'altro, in conseguenza delle basse paghe assicurate ai nuovi
arruolati, di gran lunga inferiori a quelle che ricevono i combattenti
della guerriglia (un soldato ha una paga mensile di 70 dollari al mese,
un mujaeddin guadagna 12 dollari al giorno), si stanno moltiplicando
fenomeni quali la diserzione, il passaggio al nemico o la vendita di
armi agli insorti.
Un quadro, quindi, del tutto allarmante per la Nato la cui missione
Isaf rappresenta la più impegnativa operazione in atto. Ad
affermarlo è la stessa Alleanza Atlantica, come sottolineano le
relazioni presentate nell'ambito dell'Assemblea parlamentare della
Nato: "Nessuna operazione ha mai presentato sfide così complesse
per l'Alleanza come quella in Afganistan; schierata al di fuori della
propria area di tradizionale responsabilità, la Nato ha dovuto
proiettare le proprie forze in un teatro distante, affrontare un nemico
non convenzionale in un territorio dalle caratteristiche morfologiche
estremamente complesse e sostenere i propri sforzi per un prolungato
periodo (…) Il successo dell'Isaf è di importanza
cruciale per l'Alleanza e deve essere in cima alle priorità
della Nato durante tutto quello che potrebbe essere un futuro
difficile. Le rilevanti sfide che l'Afganistan dovrà affrontare
indicano che il successo non è affatto certo" [Relazione di
Frank Cook, agosto 2007].
Tale incertezza militare sta pesando molto sull'attuale fase di
transizione della Nato. Col nuovo Concetto Strategico (sottoscritto
anche dall'allora capo del governo D'Alema) e l'aggressione alla
Jugoslavia del 1999, la Nato aveva avviato un processo di
trasformazione da alleanza difensiva in patto di aggressione militare;
non più quindi con un ruolo formalmente difensivo, così
come era stato concepito durante la Guerra Fredda, ma anche con
l'ambizione strategica di "prevenire il fallimento degli Stati e di
esportare la stabilità" (terminologia usata in ambienti
ufficiali per definire l'interventismo neocoloniale). Ma gli Stati
Uniti, trascinando la Nato nel pantano afgano, sono riusciti a mettere
seriamente in crisi le aspirazioni politiche di quegli stati aderenti
all'Alleanza, soprattutto europei, che miravano a sganciarla dal
comando statunitense.
L'unica possibilità che rimane agli stati europei per tentare di
riconquistare le proprie posizioni all'interno della Nato sembra essere
quella di raddoppiare il proprio impegno, in termini di truppe, mezzi,
capacità offensiva e risorse economiche, sostituendosi alle
ormai dissanguate forze Usa, costrette a trasferire alcuni reparti
scelti di marines da Baghdad alle zone di Kandahar e lungo il confine
col Pakistan. Ma se i governi europei opteranno per l'escalation
militare, questa scelta comporterà un ulteriore coinvolgimento
bellico in una terra che nessun invasore è mai riuscito a
conquistare con le armi.
U.F.