Umanità Nova, n.41 del 16 dicembre 2007, anno 87

Afganistan. Una guerra perduta


La Casa Bianca è infestata dai fantasmi
(Jenna Bush, figlia del presidente)

La crisi militare attraversata dalle forze Usa e Nato in Afganistan è ormai un fatto conclamato. Le cifre fornite sia da istituti internazionali come l'organizzazione canadese Sensil Council che da varie fonti di intelligence lo attestano senza margini di dubbio: sei province risultano interamente sotto il controllo della guerriglia; il 54% del territorio afgano ospiterebbe "una permanente presenza talebana, specialmente nel sud"; rispetto al 2006 gli attentati sono aumentati del 30%; si contano circa 2000 gruppi armati illegali. Anche le perdite ufficialmente conteggiate tra i militari delle forze Usa e Nato sono in continuo aumento: dall'ottobre 2001 al settembre 2007 assommavano a 696, ma dalla media di circa 50 morti nei primi tre anni, si è passati a 191 solo nel 2006 e a 180 (dei quali 85 statunitensi) nei primi nove mesi del 2007, tanto che nell'ultimo mese, come riconosciuto dagli stessi comandi, per la prima volta dal 2003, i militari Usa hanno subito più perdite che in territorio iracheno dove peraltro sono impiegate molto più truppe.
Va comunque osservato che, se le fonti militari giungono a riconoscere la morte di circa 5.000 soldati alleati in sei anni di guerra in Afganistan e Iraq, è plausibile ritenere che l'effettiva entità delle perdite sia largamente superiore a quelle dichiarate.
I cosiddetti insorgenti, sempre più riforniti di armi, stanno progressivamente accerchiando l'area di Kabul, dai primi di dicembre sotto comando italiano, e l'azione della guerriglia ormai si è andata estendendo anche alle province settentrionali e occidentali, a torto ritenute quasi pacificate, dove tra l'altro vi è distaccata parte del contingente italiano con base ad Herat. A fronte di tale rafforzamento della guerriglia, va inoltre sottolineato che l'arruolamento, l'addestramento e l'armamento sia dell'esercito nazionale afgano (ANA) sia della forze governative di polizia (ANP) sta andando avanti con molte difficoltà, senza essere in grado di rispettare le previste tappe nella riorganizzazione perseguita dalla Task Force Phoenix a cui partecipa il personale militare di vari stati, tra cui anche quello italiano.
Attualmente l'esercito afgano risulta composto da circa 35 mila effettivi, con l'improbabile obbiettivo di raggiungere i 70 mila nel 2008; mentre la polizia nazionale consta di 62 mila unità, con l'obiettivo di arrivare a 82 mila. La scarsità di organici è tale che, nel giugno 2006, il presidente Karzai ha autorizzato alcune milizie tribali a sostenere le attività di polizia locale, costituendo un corpo ausiliario (ANP) che ha finito per aggravare le tensioni tra i diversi gruppi etnici.
Tra l'altro, in conseguenza delle basse paghe assicurate ai nuovi arruolati, di gran lunga inferiori a quelle che ricevono i combattenti della guerriglia (un soldato ha una paga mensile di 70 dollari al mese, un mujaeddin guadagna 12 dollari al giorno), si stanno moltiplicando fenomeni quali la diserzione, il passaggio al nemico o la vendita di armi agli insorti.
Un quadro, quindi, del tutto allarmante per la Nato la cui missione Isaf rappresenta la più impegnativa operazione in atto. Ad affermarlo è la stessa Alleanza Atlantica, come sottolineano le relazioni presentate nell'ambito dell'Assemblea parlamentare della Nato: "Nessuna operazione ha mai presentato sfide così complesse per l'Alleanza come quella in Afganistan; schierata al di fuori della propria area di tradizionale responsabilità, la Nato ha dovuto proiettare le proprie forze in un teatro distante, affrontare un nemico non convenzionale in un territorio dalle caratteristiche morfologiche estremamente complesse e sostenere i propri sforzi per un prolungato periodo (…) Il successo dell'Isaf è di importanza cruciale per l'Alleanza e deve essere in cima alle priorità della Nato durante tutto quello che potrebbe essere un futuro difficile. Le rilevanti sfide che l'Afganistan dovrà affrontare indicano che il successo non è affatto certo" [Relazione di Frank Cook, agosto 2007].
Tale incertezza militare sta pesando molto sull'attuale fase di transizione della Nato. Col nuovo Concetto Strategico (sottoscritto anche dall'allora capo del governo D'Alema) e l'aggressione alla Jugoslavia del 1999, la Nato aveva avviato un processo di trasformazione da alleanza difensiva in patto di aggressione militare; non più quindi con un ruolo formalmente difensivo, così come era stato concepito durante la Guerra Fredda, ma anche con l'ambizione strategica di "prevenire il fallimento degli Stati e di esportare la stabilità" (terminologia usata in ambienti ufficiali per definire l'interventismo neocoloniale). Ma gli Stati Uniti, trascinando la Nato nel pantano afgano, sono riusciti a mettere seriamente in crisi le aspirazioni politiche di quegli stati aderenti all'Alleanza, soprattutto europei, che miravano a sganciarla dal comando statunitense.
L'unica possibilità che rimane agli stati europei per tentare di riconquistare le proprie posizioni all'interno della Nato sembra essere quella di raddoppiare il proprio impegno, in termini di truppe, mezzi, capacità offensiva e risorse economiche, sostituendosi alle ormai dissanguate forze Usa, costrette a trasferire alcuni reparti scelti di marines da Baghdad alle zone di Kandahar e lungo il confine col Pakistan. Ma se i governi europei opteranno per l'escalation militare, questa scelta comporterà un ulteriore coinvolgimento bellico in una terra che nessun invasore è mai riuscito a conquistare con le armi. 

U.F.

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