Quattro giovani morti, tre in fin di vita e altri feriti gravemente.
Non stiamo parlando di Baghdad o di Gaza ma di Torino e i giovani in
questione sono operai dell'acciaieria di Corso Regina Margherita,
proprietà della casa tedesca Thyssen Krupp.
Cosa è successo? In una linea che produce acciaio incandescente
e lo tempra nell'olio combustibile si è rotta una delle tubature
di trasporto di quest'ultima; l'olio si è unito al metallo
incandescente e ha prodotto una fiammata esplosiva che ha investito gli
operai presenti. Gli estintori a schiuma previsti da tutte le norme
sulla sicurezza non c'erano e così nessuno ha potuto cercare di
fermare quello che stava accadendo. Per di più il telefono di
sicurezza non funzionava e un operaio è dovuto correre in
bicicletta per dare l'allarme. Scene che credevamo confinate nei libri
di storia all'interno dei capitoli sulla nascita del movimento operaio,
e invece più di un secolo dopo siamo tornati allo stesso punto
dal quale partirono i nostri bisnonni. La morte come possibilità
concreta ogni giorno di lavoro. E la fatalità non c'entra per
nulla.
Nello specifico c'entra una grande multinazionale dell'acciaio che da
tempo vuole ridurre la sua presenza in Europa e, dopo aver venduto
intere acciaierie tedesche alle compagnie cinesi chiavi in mano, ha
deciso di chiudere anche qualcuno degli stabilimenti in Italia.
Perché? L'acciaio non tira? Nemmeno per sogno! Il mercato
è in spaventosa ripresa, la domanda cinese e quella indiana
stanno aprendo sempre più spazi per chi opera nel settore. E
allora? E allora la Thyssen e i suoi concorrenti vogliono approfittarne
vendendo a un prezzo più alto e diminuendo i costi, ossia
delocalizzando verso l'Asia. Così prima a Terni e poi a Torino
la Thyssen ha annunciato di voler chiudere i suoi stabilimenti. Nella
città umbra la mobilitazione di tutta la popolazione ha portato
alla ritirata della società tedesca e a un piano di investimenti
(ovviamente finanziato dai soldi pubblici ossia dalle nostre tasche),
mentre a Torino l'anno scorso, in un clima rassegnato quale è
oggi quello che caratterizza il presunto luna-park sabaudo, i
lavoratori hanno strappato solo una piccola dilazione: lo stabilimento
sarebbe stato chiuso nel giugno del 2008. Ai quattrocento operai della
Thyssen Torino restava come alternativa solo quella di trasferirsi a
Terni oppure cercarsi un altro lavoro più vicino a casa.
La fabbrica dell'acciaio era quindi destinata alla chiusura,
così le spese per la sicurezza e quelle per la manutenzione sono
diventate quasi nulle: se un padrone vuole chiudere uno stabilimento,
perché mai dovrebbe investirci? E se qualcuno ci rimette la
pelle, poco importa. Cosa è la vita di un lavoratore di fronte
al profitto aziendale? Così la tragedia di oggi è stata
preparata con cura: impianto vecchio, mancata manutenzione e assenza di
ogni decente meccanismo di sicurezza. In questa condizione di
progressiva fatiscenza di tutta la fabbrica la Thyssen Krupp ha pensato
bene di riattivare una delle linee già dimesse: la linea cinque
dove si è verificata la tragedia. La motivazione è stata
quella di rispondere a una commessa sulla quale lo stabilimento di
Terni era in ritardo e avrebbe costretto la multinazionale a pagare una
multa salata al cliente servito in ritardo. Così una linea
chiusa è stata riattivata ovviamente senza alcuna manutenzione e
senza nemmeno portare gli estintori o controllare lo stato delle
bocchette antincendio e dei telefoni di emergenza. In pratica la
direzione aziendale ha firmato la condanna a morte degli operai che
avrebbero dovuto lavorare su quella linea.
Alla situazione drammatica della fabbrica bisogna aggiungere quella del
lavoro all'interno dello stabilimento. La flessibilità
lavorativa in Thyssen è diventata spaventosa: se un padrone
vuole chiudere un impianto questo non vuole dire che rinunci a
sfruttarlo, e a sfruttare chi ci lavora dentro, fino all'osso. Gli
operai dell'acciaieria torinese fanno turni di dodici ore, quando non
di sedici, e lo straordinario è di fatto obbligatorio, dal
momento che gli operai che rifiutavano di farlo venivano sanzionati
dalla direzione; il tutto senza riconoscimenti, senza riposo, senza
garanzie di salvaguardia personale. Così anche l'ultimo elemento
della tragedia è stato messo in gioco. La presenza di un numero
cospicuo di lavoratori sfiancati da turni impossibili in un lavoro tra
i più pesanti del nostro tempo.
A morte avvenuta tutti gli ipocriti nazionali si sono stretti ai caduti
e alle famiglie, Napoletano, Bertinotti, Damiano… almeno
Montezemolo ci ha evitato lo squallido spettacolo del capo degli
assassini che piange le vittime. Tutte personalità che hanno non
poche responsabilità nel progressivo degrado delle condizioni
del lavoro, come molte sono le colpe di Cgil-Cisl e Uil che in questi
anni hanno accettato, in nome di una concertazione che ha voluto dire
scambio tra potere dei vertici sindacali e peggioramento delle
condizioni di vita e lavoro dei salariati, accordi che hanno diminuito
il reddito, la sicurezza e il potere di controllo in fabbrica da parte
dei lavoratori. Non parliamo poi della farsa dell'indurimento delle
leggi sulla sicurezza del lavoro: da un lato le aziende si sono
salvaguardate attribuendo le responsabilità a direttori
aziendali lautamente stipendiati e pronti a subire anche eventuali
processi per salvaguardare gli interessi di superiori lautamente
paganti, dall'altra hanno disinnescato la mina dei controlli assumendo
sul proprio libro paga come consulenti gli stessi Ispettori del lavoro.
Come ha denunciato il Pretore torinese Guariniello, su ottomila
ispettori italiani almeno la metà hanno un secondo impiego come
consulenti per la sicurezza delle varie aziende. In pratica i
controllori sono stipendiati dai controllati con effetti immediatamente
comprensibili a chiunque non abbia abbandonato il cervello nell'ammasso
del cretinismo liberale.
Di fronte all'evidenza finalmente proclamata sulle condizioni di lavoro
nel paese lunedì dieci dicembre è finalmente scoppiato il
dolore di chi sa di essere nel mirino della guerra padronale contro i
lavoratori e le lavoratrici. Un corteo massiccio, forte e teso ha
attraversato il salotto buono di Torino prudentemente spento dai suoi
padroni per evitare che il dolore trasformandosi in rabbia andasse ad
incrinare le vetrine e le luminarie dei signori. In testa gli operai
della Thyssen, dietro i sindacati di stato, dietro ancora, ma in un
tumulto cui il servizio d'ordine di Cgil-Cisl e Uil non ha potuto dare
il suo ordine, il popolo dei lavoratori di Torino. Il corteo è
stato silenzioso ma rabbioso per tutta la prima ora di scorrimento fino
a quando liberatorio è partito il grido "Assassini, assassini",
urlato in primo luogo ai padroni ma anche ai rappresentanti
istituzionali e ai signori cittadini, a tutti coloro che della vita e
della morte degli operai e dei lavoratori in genere riescono sempre a
fare occasione di profitto.
Il dolore diventato rabbia ha zittito anche il segretario nazionale
della Fiom Rinaldini che non ha potuto finire il suo intervento per i
fischi di una piazza Castello stracolma, fischi in primo luogo dei
colleghi degli operai assassinati. Dopo il comizio gli operai della
Thyssen hanno guidato un corteo improvvisato dove lavoratori di tutte
le aziende a prescindere dall'appartenenza sindacale, sindacati di
base, e cittadini solidali hanno deciso di dirigersi verso l'Unione
Industriali a indicare ancora una volta di chi sono le
responsabilità di queste morti. In testa il padre di Umberto
Santino, uno degli operai morti, che continuava ad urlare, rivolto ai
padroni della città e agli abitanti del salotto bene di Torino
"Tanto brucerete anche voi"
Circa duemila persone sono arrivate fino alla palazzina degli
industriali torinesi dove hanno ancora una volta urlato in faccia al
padronato la loro accusa: "Assassini". La polizia, assolutamente
assente per le strade di Torino fino a quel momento è comparsa
in forze a difendere il palazzo contro il quale alla fine del corteo
è anche volato qualche uovo.
Un corteo importante che non è stato solo un funerale come
avrebbero voluto Cgil-Cisl e Uil, politici ed amministratori, ma un
momento di rabbia e di lotta che ha mostrato all'élite della
città che i lavoratori che ci vivono non hanno nessuna
intenzione di continuare ad essere sacrificati sull'altare della
città luna-park così cara alla dirigenza democratica che
ammorba Torino con la sua presenza. Significativa la spontaneità
e la decisione del corteo autorganizzato che ha sfilato fino all'Unione
Industriali, e significativa la fermezza con cui ha imposto ai
commercianti della via più lussuosa della città, via
Roma, di chiudere i loro negozi regolarmente aperti nonostante la
proclamazione del lutto cittadino. Ora si tratta di non sprecare il
potenziale emerso dalla giornata di lunedì e di lavorare per
costruire un reale potere dei lavoratori sui luoghi della produzione,
capace di difendere vita e reddito operai. Una campagna vera, non
delegata a sindacati di stato e istituzioni, per imporre ai padroni il
rispetto della sicurezza è oggi un terreno di lotta e di scontro
di classe reale sulla quale impegnarsi per iniziare a ribaltare i
rapporti di forza all'interno della nostra società.
Stefano Capello