Umanità Nova, n.41 del 16 dicembre 2007, anno 87

Thyssen Krupp. Il lavoro uccide


Quattro giovani morti, tre in fin di vita e altri feriti gravemente.
Non stiamo parlando di Baghdad o di Gaza ma di Torino e i giovani in questione sono operai dell'acciaieria di Corso Regina Margherita, proprietà della casa tedesca Thyssen Krupp.
Cosa è successo? In una linea che produce acciaio incandescente e lo tempra nell'olio combustibile si è rotta una delle tubature di trasporto di quest'ultima; l'olio si è unito al metallo incandescente e ha prodotto una fiammata esplosiva che ha investito gli operai presenti. Gli estintori a schiuma previsti da tutte le norme sulla sicurezza non c'erano e così nessuno ha potuto cercare di fermare quello che stava accadendo. Per di più il telefono di sicurezza non funzionava e un operaio è dovuto correre in bicicletta per dare l'allarme. Scene che credevamo confinate nei libri di storia all'interno dei capitoli sulla nascita del movimento operaio, e invece più di un secolo dopo siamo tornati allo stesso punto dal quale partirono i nostri bisnonni. La morte come possibilità concreta ogni giorno di lavoro. E la fatalità non c'entra per nulla.
Nello specifico c'entra una grande multinazionale dell'acciaio che da tempo vuole ridurre la sua presenza in Europa e, dopo aver venduto intere acciaierie tedesche alle compagnie cinesi chiavi in mano, ha deciso di chiudere anche qualcuno degli stabilimenti in Italia. Perché? L'acciaio non tira? Nemmeno per sogno! Il mercato è in spaventosa ripresa, la domanda cinese e quella indiana stanno aprendo sempre più spazi per chi opera nel settore. E allora? E allora la Thyssen e i suoi concorrenti vogliono approfittarne vendendo a un prezzo più alto e diminuendo i costi, ossia delocalizzando verso l'Asia. Così prima a Terni e poi a Torino la Thyssen ha annunciato di voler chiudere i suoi stabilimenti. Nella città umbra la mobilitazione di tutta la popolazione ha portato alla ritirata della società tedesca e a un piano di investimenti (ovviamente finanziato dai soldi pubblici ossia dalle nostre tasche), mentre a Torino l'anno scorso, in un clima rassegnato quale è oggi quello che caratterizza il presunto luna-park sabaudo, i lavoratori hanno strappato solo una piccola dilazione: lo stabilimento sarebbe stato chiuso nel giugno del 2008. Ai quattrocento operai della Thyssen Torino restava come alternativa solo quella di trasferirsi a Terni oppure cercarsi un altro lavoro più vicino a casa.
La fabbrica dell'acciaio era quindi destinata alla chiusura, così le spese per la sicurezza e quelle per la manutenzione sono diventate quasi nulle: se un padrone vuole chiudere uno stabilimento, perché mai dovrebbe investirci? E se qualcuno ci rimette la pelle, poco importa. Cosa è la vita di un lavoratore di fronte al profitto aziendale? Così la tragedia di oggi è stata preparata con cura: impianto vecchio, mancata manutenzione e assenza di ogni decente meccanismo di sicurezza. In questa condizione di progressiva fatiscenza di tutta la fabbrica la Thyssen Krupp ha pensato bene di riattivare una delle linee già dimesse: la linea cinque dove si è verificata la tragedia. La motivazione è stata quella di rispondere a una commessa sulla quale lo stabilimento di Terni era in ritardo e avrebbe costretto la multinazionale a pagare una multa salata al cliente servito in ritardo. Così una linea chiusa è stata riattivata ovviamente senza alcuna manutenzione e senza nemmeno portare gli estintori o controllare lo stato delle bocchette antincendio e dei telefoni di emergenza. In pratica la direzione aziendale ha firmato la condanna a morte degli operai che avrebbero dovuto lavorare su quella linea.
Alla situazione drammatica della fabbrica bisogna aggiungere quella del lavoro all'interno dello stabilimento. La flessibilità lavorativa in Thyssen è diventata spaventosa: se un padrone vuole chiudere un impianto questo non vuole dire che rinunci a sfruttarlo, e a sfruttare chi ci lavora dentro, fino all'osso. Gli operai dell'acciaieria torinese fanno turni di dodici ore, quando non di sedici, e lo straordinario è di fatto obbligatorio, dal momento che gli operai che rifiutavano di farlo venivano sanzionati dalla direzione; il tutto senza riconoscimenti, senza riposo, senza garanzie di salvaguardia personale. Così anche l'ultimo elemento della tragedia è stato messo in gioco. La presenza di un numero cospicuo di lavoratori sfiancati da turni impossibili in un lavoro tra i più pesanti del nostro tempo.
A morte avvenuta tutti gli ipocriti nazionali si sono stretti ai caduti e alle famiglie, Napoletano, Bertinotti, Damiano… almeno Montezemolo ci ha evitato lo squallido spettacolo del capo degli assassini che piange le vittime. Tutte personalità che hanno non poche responsabilità nel progressivo degrado delle condizioni del lavoro, come molte sono le colpe di Cgil-Cisl e Uil che in questi anni hanno accettato, in nome di una concertazione che ha voluto dire scambio tra potere dei vertici sindacali e peggioramento delle condizioni di vita e lavoro dei salariati, accordi che hanno diminuito il reddito, la sicurezza e il potere di controllo in fabbrica da parte dei lavoratori. Non parliamo poi della farsa dell'indurimento delle leggi sulla sicurezza del lavoro: da un lato le aziende si sono salvaguardate attribuendo le responsabilità a direttori aziendali lautamente stipendiati e pronti a subire anche eventuali processi per salvaguardare gli interessi di superiori lautamente paganti, dall'altra hanno disinnescato la mina dei controlli assumendo sul proprio libro paga come consulenti gli stessi Ispettori del lavoro. Come ha denunciato il Pretore torinese Guariniello, su ottomila ispettori italiani almeno la metà hanno un secondo impiego come consulenti per la sicurezza delle varie aziende. In pratica i controllori sono stipendiati dai controllati con effetti immediatamente comprensibili a chiunque non abbia abbandonato il cervello nell'ammasso del cretinismo liberale.
Di fronte all'evidenza finalmente proclamata sulle condizioni di lavoro nel paese lunedì dieci dicembre è finalmente scoppiato il dolore di chi sa di essere nel mirino della guerra padronale contro i lavoratori e le lavoratrici. Un corteo massiccio, forte e teso ha attraversato il salotto buono di Torino prudentemente spento dai suoi padroni per evitare che il dolore trasformandosi in rabbia andasse ad incrinare le vetrine e le luminarie dei signori. In testa gli operai della Thyssen, dietro i sindacati di stato, dietro ancora, ma in un tumulto cui il servizio d'ordine di Cgil-Cisl e Uil non ha potuto dare il suo ordine, il popolo dei lavoratori di Torino. Il corteo è stato silenzioso ma rabbioso per tutta la prima ora di scorrimento fino a quando liberatorio è partito il grido "Assassini, assassini", urlato in primo luogo ai padroni ma anche ai rappresentanti istituzionali e ai signori cittadini, a tutti coloro che della vita e della morte degli operai e dei lavoratori in genere riescono sempre a fare occasione di profitto.
Il dolore diventato rabbia ha zittito anche il segretario nazionale della Fiom Rinaldini che non ha potuto finire il suo intervento per i fischi di una piazza Castello stracolma, fischi in primo luogo dei colleghi degli operai assassinati. Dopo il comizio gli operai della Thyssen hanno guidato un corteo improvvisato dove lavoratori di tutte le aziende a prescindere dall'appartenenza sindacale, sindacati di base, e cittadini solidali hanno deciso di dirigersi verso l'Unione Industriali a indicare ancora una volta di chi sono le responsabilità di queste morti. In testa il padre di Umberto Santino, uno degli operai morti, che continuava ad urlare, rivolto ai padroni della città e agli abitanti del salotto bene di Torino "Tanto brucerete anche voi"
Circa duemila persone sono arrivate fino alla palazzina degli industriali torinesi dove hanno ancora una volta urlato in faccia al padronato la loro accusa: "Assassini". La polizia, assolutamente assente per le strade di Torino fino a quel momento è comparsa in forze a difendere il palazzo contro il quale alla fine del corteo è anche volato qualche uovo.
Un corteo importante che non è stato solo un funerale come avrebbero voluto Cgil-Cisl e Uil, politici ed amministratori, ma un momento di rabbia e di lotta che ha mostrato all'élite della città che i lavoratori che ci vivono non hanno nessuna intenzione di continuare ad essere sacrificati sull'altare della città luna-park così cara alla dirigenza democratica che ammorba Torino con la sua presenza. Significativa la spontaneità e la decisione del corteo autorganizzato che ha sfilato fino all'Unione Industriali, e significativa la fermezza con cui ha imposto ai commercianti della via più lussuosa della città, via Roma, di chiudere i loro negozi regolarmente aperti nonostante la proclamazione del lutto cittadino. Ora si tratta di non sprecare il potenziale emerso dalla giornata di lunedì e di lavorare per costruire un reale potere dei lavoratori sui luoghi della produzione, capace di difendere vita e reddito operai. Una campagna vera, non delegata a sindacati di stato e istituzioni, per imporre ai padroni il rispetto della sicurezza è oggi un terreno di lotta e di scontro di classe reale sulla quale impegnarsi per iniziare a ribaltare i rapporti di forza all'interno della nostra società.

Stefano Capello

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