Umanità Nova, n.2 del 20 gennaio 2008, anno 88

Morti sul lavoro. Una strage senza fine

Passata l'onda emotiva suscitata dalla strage di lavoratori alla ThyssenKrupp, sopita la rabbia dei lavoratori, cessate - per fortuna - le ipocrite esternazioni del ceto politico e di quello imprenditoriale e la finta indignazione dei vertici confederali, bisognerebbe riflettere - a mente fredda - sulle morti sul lavoro e per il lavoro.
Alcuni dati sono necessari: le statistiche INAIL citano, per il quarantennio 1951-2000, oltre 59 milioni di incidenti sul lavoro "ufficiali" con un bilancio di 144.629 morti. Estrapolando quest'ultimo dato fino a coprire il periodo dal 1946 ad oggi otteniamo la cifra spaventosa di oltre 180.000 morti sul lavoro.
La prima domanda che sento di dovermi porre é: queste sette morti (e tutte le altre, 1.376 la media annuale 2003-2006; un incidente ogni 15 lavoratori, un morto ogni 8.100 addetti - Dati Eurispes) sono direttamente dipendenti dal clima odierno di totale deregolamentazione del mondo del lavoro, dai ritmi e dagli orari crescenti, dalla precarietà - in ogni senso - dell'impiego?
La risposta è senz'altro no. Ricordo abbastanza chiaramente i primi anni '50 a Genova. I ritmi di lavoro frenetici beatificati dalla sinistra nel nome della ricostruzione. C'erano i lavori di riempimento del tratto di mare su cui sarebbe sorto lo stabilimento siderurgico dell'Italsider eseguiti con una tecnica da omicidio premeditato: quella dei "cassoni", una sorta di campane pneumatiche, aperte al di sotto, che venivano calate sul fondo del mare con i lavoratori dentro per predisporre il fondale al riempimento. Ricordo il dolore e l'orrore per tante morti, la rabbia impotente di Sampierdarena, il quartiere proletario dove vivevo. Mio padre che diceva a mio fratello: "Piuttosto che andare a lavorare lì è meglio patire la fame". Poi negli anni successivi (la fase dell'impetuoso sviluppo economico) le tantissime morti in quello e negli altri stabilimenti genovesi (e nel resto d'Italia e nel resto del mondo civile e democratico: qualcuno ricorda Marcinelle e i lavoratori italiani morti in miniera?). Una media di quasi 4.000 morti all'anno. Ancora - negli anni '70 - il fiume inarrestabile degli "omicidi bianchi" testimoniato dalla stampa extra-parlamentare. E poi, negli anni successivi fino ad arrivare all'oggi, ancora morti, ancora incidenti, ancora, ancora....
La seconda domanda - collegata alla prima - è: tragedie come quella della ThyssenKrupp sono imputabili alla debolezza del movimento dei lavoratori, alla perdita della sua capacità di controllo sulle condizioni di lavoro, all'indebolirsi - in generale - delle sue capacità di lotta?
Anche qui mi sentirei propenso a rispondere no. Durante i mitici anni '70 non ricordo reazioni apprezzabili alle stragi sul lavoro. Certo eravamo decine di migliaia in piazza per la morte di un operaio. Ma quello era un "morto doc", era Guido Rossa, colpito dalle BR per aver testimoniato a carico di un compagno di lavoro... Per il resto i combattivi CdF ci facevano scendere in piazza per aumenti e contratti. Per le condizioni di lavoro, poco o niente (a parte il cordoglio per le vittime: almeno 3.500 all'anno, a cavallo del 1970), al massimo la richiesta di monetizzare i rischi, nella miglior logica "redistributiva" come la definisce W.B. in un suo recente articolo per UN.
La terza domanda - e veniamo all'oggi - è divisa in due parti: le tragedie come quella di Torino possono essere direttamente imputabili alla scarsa preparazione tecnica dei lavoratori (pochi giorni di "formazione" e poi via in produzione) e/o all'inosservanza delle misure di sicurezza?
Anche qui rispondo di no. Non c'è competenza o esperienza che possano proteggere da condizioni di lavoro proibitive. Lavoratori anziani, operai provetti sono stati falciati dagli "omicidi bianchi" esattamente come i neofiti, ieri come oggi. Sulle misure di sicurezza ci sarebbero poi da fare tutta una serie di considerazioni; mi limito per ora a rimarcare quello che tutti quelli che hanno avuto esperienze di lavoro - in fabbrica, come nei cantieri - sanno perfettamente: l'inosservanza è determinata dai ritmi e dalle condizioni imposte dall'organizzazione del lavoro e dalle esigenze di "produttività". Personalmente posso testimoniare che l'armamentario previsto per i lavoratori siderurgici (casco, scarponi, guanti, indumenti protettivi vari) avrebbe impedito quasi ogni movimento agli addetti agli altiforni ed ai laminatoi, con l'aggravante di temperature ambientali vicine ai 50 °C. Del resto basta considerare quello che è sotto l'occhio di tutti: le condizioni di lavoro di edili e ponteggiatori. Casco, imbragatura, moschettoni e corde di sicurezza candiderebbero il muratore "protetto" al licenziamento immediato per scarsa produttività.
La quarta domanda, infine, è: possono le leggi sulla sicurezza (attuali o future) salvaguardare dalla pericolosità di certe condizioni di lavoro? Ovvero è sufficiente la corretta applicazione di norme rigide a garantire sicurezza?
La risposta è ancora una volta no. Siamo di fronte ad un apparato essenzialmente mistificatorio che, mentre non incide minimamente sul dato strutturale dell'esasperata intensità produttiva (e come potrebbe?), scarica la responsabilità delle sue conseguenze nefaste e "necessarie" sulle inadempienze e l'imprudenza delle vittime.
Terminate le domande, passo ad alcune brevi riflessioni.
La prima è che le morti e le stragi sul lavoro sono un attributo strutturale dei processi produttivi. Sono implicite e scontate. Sono il prezzo da pagare alla logica del profitto. Non è possibile immaginare lavoro "pulito" in una concezione delle attività produttive esasperata e malsana, dove il lavoratore è semplicemente un attrezzo o, al massimo, un macchinario un po' più complesso, del quale ci si prende cura solo in termini di utilizzo spinto ad esaurimento (o alla rottura), convenienza e facilità di rimpiazzo.
La seconda è che gli omicidi bianchi sono solo la punta di un iceberg, le malattie professionali invalidanti e/o mortali fanno (e sempre hanno fatto) strage di lavoratori (e non solo, perché l'impatto ambientale di certe lavorazioni è altrettanto devastante) in misura ben maggiore, anche se con minore impatto mass-mediatico. Tumori dovuti all'esposizione all'amianto, a polveri nocive o a scorie radioattive, silicosi e tutto il campionario delle malattie professionali hanno sempre provocato altrettante, e forse più, morti degli incidenti registrati ufficialmente. Nomi come Porto Marghera (e, per restare nel mio ambito locale, come Acna e Stoppani) suonano sinistri come quelli dei teatri di guerra, passati e presenti.
La terza è che il mondo del lavoro nero e clandestino che non appare nelle statistiche ufficiali, non vi ha cittadinanza, a maggior ragione, neppure per quanto riguarda gli incidenti che vi accadono: la percentuale media delle denunce per infortunio tra i lavoratori immigrati è dell'11,71%, mentre quella delle morti è del 12,03%. "Una uguaglianza anomala - segnala un rapporto Eurispes - dato che per i lavoratori italiani la percentuale degli incidenti è di gran lunga superiore a quella dei morti". La deduzione ovvia è che molti infortuni anche gravi e invalidanti - per altrettanto ovvi motivi - non vengono denunciati.
La quarta, molto banale anche se spesso dimenticata, è che il lavoro in sé, nella società e nella produzione capitalista, è costante annichilimento di vita umana, consunzione ed esaurimento delle risorse psicofisiche del lavoratore; è innanzitutto riproduzione del capitale e produzione di profitto a cui è totalmente subordinata (in modo quasi incidentale) la riproduzione della forza-lavoro, ma in quanto, appunto, solo forza-lavoro e non certo vita umana.
La quinta, infine, è che il conto da pagare per questo massacro andrà presentato ai responsabili e dunque non solamente all'imprenditoria capitalista, ma anche all'establishment politico-sindacale che da sempre, ipocritamente, interessatamente e oscenamente, ne copre le infamie.

Guido Barroero

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