Passata l'onda emotiva suscitata dalla strage di lavoratori alla
ThyssenKrupp, sopita la rabbia dei lavoratori, cessate - per fortuna -
le ipocrite esternazioni del ceto politico e di quello imprenditoriale
e la finta indignazione dei vertici confederali, bisognerebbe
riflettere - a mente fredda - sulle morti sul lavoro e per il lavoro.
Alcuni dati sono necessari: le statistiche INAIL citano, per il
quarantennio 1951-2000, oltre 59 milioni di incidenti sul lavoro
"ufficiali" con un bilancio di 144.629 morti. Estrapolando quest'ultimo
dato fino a coprire il periodo dal 1946 ad oggi otteniamo la cifra
spaventosa di oltre 180.000 morti sul lavoro.
La prima domanda che sento di dovermi porre é: queste sette
morti (e tutte le altre, 1.376 la media annuale 2003-2006; un incidente
ogni 15 lavoratori, un morto ogni 8.100 addetti - Dati Eurispes) sono
direttamente dipendenti dal clima odierno di totale deregolamentazione
del mondo del lavoro, dai ritmi e dagli orari crescenti, dalla
precarietà - in ogni senso - dell'impiego?
La risposta è senz'altro no. Ricordo abbastanza chiaramente i
primi anni '50 a Genova. I ritmi di lavoro frenetici beatificati dalla
sinistra nel nome della ricostruzione. C'erano i lavori di riempimento
del tratto di mare su cui sarebbe sorto lo stabilimento siderurgico
dell'Italsider eseguiti con una tecnica da omicidio premeditato: quella
dei "cassoni", una sorta di campane pneumatiche, aperte al di sotto,
che venivano calate sul fondo del mare con i lavoratori dentro per
predisporre il fondale al riempimento. Ricordo il dolore e l'orrore per
tante morti, la rabbia impotente di Sampierdarena, il quartiere
proletario dove vivevo. Mio padre che diceva a mio fratello: "Piuttosto
che andare a lavorare lì è meglio patire la fame". Poi
negli anni successivi (la fase dell'impetuoso sviluppo economico) le
tantissime morti in quello e negli altri stabilimenti genovesi (e nel
resto d'Italia e nel resto del mondo civile e democratico: qualcuno
ricorda Marcinelle e i lavoratori italiani morti in miniera?). Una
media di quasi 4.000 morti all'anno. Ancora - negli anni '70 - il fiume
inarrestabile degli "omicidi bianchi" testimoniato dalla stampa
extra-parlamentare. E poi, negli anni successivi fino ad arrivare
all'oggi, ancora morti, ancora incidenti, ancora, ancora....
La seconda domanda - collegata alla prima - è: tragedie come
quella della ThyssenKrupp sono imputabili alla debolezza del movimento
dei lavoratori, alla perdita della sua capacità di controllo
sulle condizioni di lavoro, all'indebolirsi - in generale - delle sue
capacità di lotta?
Anche qui mi sentirei propenso a rispondere no. Durante i mitici anni
'70 non ricordo reazioni apprezzabili alle stragi sul lavoro. Certo
eravamo decine di migliaia in piazza per la morte di un operaio. Ma
quello era un "morto doc", era Guido Rossa, colpito dalle BR per aver
testimoniato a carico di un compagno di lavoro... Per il resto i
combattivi CdF ci facevano scendere in piazza per aumenti e contratti.
Per le condizioni di lavoro, poco o niente (a parte il cordoglio per le
vittime: almeno 3.500 all'anno, a cavallo del 1970), al massimo la
richiesta di monetizzare i rischi, nella miglior logica
"redistributiva" come la definisce W.B. in un suo recente articolo per
UN.
La terza domanda - e veniamo all'oggi - è divisa in due parti:
le tragedie come quella di Torino possono essere direttamente
imputabili alla scarsa preparazione tecnica dei lavoratori (pochi
giorni di "formazione" e poi via in produzione) e/o all'inosservanza
delle misure di sicurezza?
Anche qui rispondo di no. Non c'è competenza o esperienza che
possano proteggere da condizioni di lavoro proibitive. Lavoratori
anziani, operai provetti sono stati falciati dagli "omicidi bianchi"
esattamente come i neofiti, ieri come oggi. Sulle misure di sicurezza
ci sarebbero poi da fare tutta una serie di considerazioni; mi limito
per ora a rimarcare quello che tutti quelli che hanno avuto esperienze
di lavoro - in fabbrica, come nei cantieri - sanno perfettamente:
l'inosservanza è determinata dai ritmi e dalle condizioni
imposte dall'organizzazione del lavoro e dalle esigenze di
"produttività". Personalmente posso testimoniare che
l'armamentario previsto per i lavoratori siderurgici (casco, scarponi,
guanti, indumenti protettivi vari) avrebbe impedito quasi ogni
movimento agli addetti agli altiforni ed ai laminatoi, con l'aggravante
di temperature ambientali vicine ai 50 °C. Del resto basta
considerare quello che è sotto l'occhio di tutti: le condizioni
di lavoro di edili e ponteggiatori. Casco, imbragatura, moschettoni e
corde di sicurezza candiderebbero il muratore "protetto" al
licenziamento immediato per scarsa produttività.
La quarta domanda, infine, è: possono le leggi sulla sicurezza
(attuali o future) salvaguardare dalla pericolosità di certe
condizioni di lavoro? Ovvero è sufficiente la corretta
applicazione di norme rigide a garantire sicurezza?
La risposta è ancora una volta no. Siamo di fronte ad un
apparato essenzialmente mistificatorio che, mentre non incide
minimamente sul dato strutturale dell'esasperata intensità
produttiva (e come potrebbe?), scarica la responsabilità delle
sue conseguenze nefaste e "necessarie" sulle inadempienze e
l'imprudenza delle vittime.
Terminate le domande, passo ad alcune brevi riflessioni.
La prima è che le morti e le stragi sul lavoro sono un attributo
strutturale dei processi produttivi. Sono implicite e scontate. Sono il
prezzo da pagare alla logica del profitto. Non è possibile
immaginare lavoro "pulito" in una concezione delle attività
produttive esasperata e malsana, dove il lavoratore è
semplicemente un attrezzo o, al massimo, un macchinario un po'
più complesso, del quale ci si prende cura solo in termini di
utilizzo spinto ad esaurimento (o alla rottura), convenienza e
facilità di rimpiazzo.
La seconda è che gli omicidi bianchi sono solo la punta di un
iceberg, le malattie professionali invalidanti e/o mortali fanno (e
sempre hanno fatto) strage di lavoratori (e non solo, perché
l'impatto ambientale di certe lavorazioni è altrettanto
devastante) in misura ben maggiore, anche se con minore impatto
mass-mediatico. Tumori dovuti all'esposizione all'amianto, a polveri
nocive o a scorie radioattive, silicosi e tutto il campionario delle
malattie professionali hanno sempre provocato altrettante, e forse
più, morti degli incidenti registrati ufficialmente. Nomi come
Porto Marghera (e, per restare nel mio ambito locale, come Acna e
Stoppani) suonano sinistri come quelli dei teatri di guerra, passati e
presenti.
La terza è che il mondo del lavoro nero e clandestino che non
appare nelle statistiche ufficiali, non vi ha cittadinanza, a maggior
ragione, neppure per quanto riguarda gli incidenti che vi accadono: la
percentuale media delle denunce per infortunio tra i lavoratori
immigrati è dell'11,71%, mentre quella delle morti è del
12,03%. "Una uguaglianza anomala - segnala un rapporto Eurispes - dato
che per i lavoratori italiani la percentuale degli incidenti è
di gran lunga superiore a quella dei morti". La deduzione ovvia
è che molti infortuni anche gravi e invalidanti - per
altrettanto ovvi motivi - non vengono denunciati.
La quarta, molto banale anche se spesso dimenticata, è che il
lavoro in sé, nella società e nella produzione
capitalista, è costante annichilimento di vita umana,
consunzione ed esaurimento delle risorse psicofisiche del lavoratore;
è innanzitutto riproduzione del capitale e produzione di
profitto a cui è totalmente subordinata (in modo quasi
incidentale) la riproduzione della forza-lavoro, ma in quanto, appunto,
solo forza-lavoro e non certo vita umana.
La quinta, infine, è che il conto da pagare per questo massacro
andrà presentato ai responsabili e dunque non solamente
all'imprenditoria capitalista, ma anche all'establishment
politico-sindacale che da sempre, ipocritamente, interessatamente e
oscenamente, ne copre le infamie.
Guido Barroero