Il lavoro salariato torna alla ribalta della cronaca nazionale, sull'onda del caro-euro, del protocollo sul welfare, della trattativa per il contratto collettivo dei metalmeccanici, dei morti sul lavoro quotidiani, grazie (si fa per dire) alle sette torce umane della Thyssen-Krupp. Segno dei tempi, l'impoverimento progressivo dei lavoratori subordinati viene imputato a cause monetarie (euro) o fiscali (troppe tasse) o internazionali (crisi dei mutui, aumento del petrolio). Non sfiora i più, sembra, il fatto che il salario venga determinato dai rapporti di forza tra prestatori di lavoro e detentori dei mezzi di produzione; né come la fiscalità sia l'altra faccia del welfare: meno tasse, meno servizi pubblici. La politica di questi ultimi anni dei governi di destra e di sinistra è andata nel senso di finanziare guerra (le tante "missioni di pace"), apparati repressivi (aumento degli organici e degli stipendi delle tante "polizie" italiane), grandi opere (appalti dai costi incalcolabili che rendono anche se non portati a termine, già solo a livello progettuale e che se cantierati determineranno flussi di denaro senza precedenti). Il ceto politico-sindacale che governa si alimenta con il controllo della spesa pubblica e si autoperpetua attraverso le alchimie istituzionali, in primo luogo la legge elettorale, altro tema caldo. Pare evidente che la fatica a tirare avanti e l'esasperazione che di giorno in giorno aumenta deve trovare uno sfogo e la diminuzione della pressione fiscale appare come l'operazione più semplice: una quota di salario viene liberata per i consumi, il costo del lavoro per l'azienda resta invariato (basso, tra i più bassi d'Europa), la quota parte di tasse non introitate viene coperto dalle maggiori entrate (tesoretto), dalle tasse sui consumi (IVA), da tagli alle spese sociali. L'altra soluzione prospettata è "lavorare di più per guadagnare di più": quindi aumentare la produttività con miglioramenti del ciclo, del "processo", ma con un aumento dell'intensità dell'uso dei macchinari, con aumenti quantitativi e non qualitativi. Per mantenere inalterato il tenore di vita, in caso di aumento dei prezzi, per comprare la stessa cosa si deve lavorare di più. Anche qui, i prezzi, il costo della vita, paiono dati di fatto indiscutibili, "naturali", intorno ai quali non si possono porre domande. Il conflitto tra capitale e lavoro è obliato, vero capolavoro della democrazia ai tempi del Pd, partito che nasce, per sua definizione, equidistante tra capitale e lavoro: ma chi si dice equidistante da chi sta sopra e da chi sta sotto, sta sempre dalla parte di chi sta sopra, la neutralità tra due soggetti in rapporto squilibrato non esiste. Ancora una volta ci troviamo a ripetere che solo articolando un punto di vista autonomo, cioè parziale, di parte, il lavoro salariato potrà iniziare, lentamente, a riacquistare peso specifico nel conflitto tra le componenti della società. In questo senso appaiono vuoti i discorsi sulla "rappresentanza" del mondo del lavoro, stante l'autonomia (quella sì) del politico rispetto alla questione e al conflitto sociale: sull'altare del "governo" dell'intera società (cioè della continuità del ceto politico-sindacale dominante) in questi mesi (l'esempio è eclatante e se ne farebbe volentieri a meno) sono stati ancora una volta sacrificati gli interessi materiali di coloro che lavorano e vivono del loro salario. Ora, con le manovre di inizio anno ed il protagonismo mediatico della questione salariale, si mistifica la realtà di sfruttamento che resta intatta, puntando sul bisogno di maggior reddito delle famiglie, promovendo piuttosto maggior sfruttamento (più straordinari) a fronte di nominali aumenti retributivi (il risparmio fiscale sarà "pagato" con meno servizi). Rifiutare questo approccio significa rifiutare di restare ingabbiati nelle maglie di chi cerca di occultare ancora una volta il radicale conflitto tra capitale e lavoro. La battaglia inizia dall'articolare una progettualità diversa, dal lottare per essa quotidianamente, dal rifiuto di snervare il lavoro salariato nella finta prospettiva della "democrazia reale" in cui siamo immersi.
W.B.