C'è un suggestivo film horror del regista Joe Dante, presentato
al festival di Torino un paio d'anni fa, intitolato Homecoming, in cui
in vedono gli zomby dei soldati statunitensi morti in Corea, Vietnam e
Iraq uscire dalle tombe, stracciare le bandiere stelle e strisce e, in
piena campagna elettorale, dirigersi verso Washington per testimoniare
la loro rivoluzionaria verità sulla politica presidenziale.
Se questa ipotesi visionaria fosse realtà, i morti viventi
reduci dell'Iraq sarebbero ormai almeno 4.000, pur limitandosi alle
cifre ufficiali sulle perdite Usa dal 2003 ad oggi.
Ed avrebbero certo più di una ragione per rivoltarsi, dato che
la guerra in Iraq, così come quella in Afganistan, non è
risultata vittoriosa ma neppure utile a raggiungere gli obiettivi
propagandati.
Il principale scopo dichiarato della guerra era l'abbattimento del
regime baathista di Saddam Hussein, accusato di appoggiare il
terrorismo islamico e di avere ingenti quantitativi armi di distruzione
di massa. Ebbene, dopo quattro anni di guerriglia antiamericana e di
guerra civile, l'Amministrazione Bush è stata costretta a
trattare e a raggiungere un accordo proprio con la minoranza sunnita
legata al disciolto partito Baath per la stabilizzazione del paese e la
riconciliazione nazionale.
Così, nell'ambito di Surge, il piano voluto da Bush nel gennaio
2006 e poi affidato al generale Petraus, circa 30 mila tra ex membri
del partito e funzionari del regime di Saddam stanno compilando i
moduli per essere reinseriti nelle forze armate e nell'amministrazione
irachena, oppure per godere di una pensione statale. Con la
riammissione nelle posizioni di potere, sono state anche fermate le
epurazioni e il problematico processo di "de-baathificazione" della
società irachena che aveva solo accresciuto le fila
dell'insurrezione contro il governo. Persino il famigerato Ali il
Chimico (ossia Ali Hassan al-Majiid, cugino di Saddam) e l'ex ministro
della difesa Sultan Hashim, entrambi sunniti, già condannati a
morte per il genocidio del popolo curdo, sono stati finora salvati
dalla forca per volere di Washington che si rifiuta di consegnarli al
governo iracheno nel timore che la loro esecuzione possa minare gli
accordi con le tribù sunnite.
Tale decisione è stata infatti accompagnata da accordi con i
clan sunniti, le cui milizie (si parla di 300 gruppi con 80 mila
uomini) saranno d'ora in poi finanziate ed armate dagli Stati Uniti per
contrastare il "terrorismo".
Nell'ambito di tale disegno, gli Stati Uniti hanno conseguito un
accordo, che scade proprio nel mese di gennaio, anche con l'Esercito
del Mahdi del capo sciita Muqtada al-Sadr, ritenuto responsabile di
buona parte degli attentati e delle azioni di guerriglia contro le
truppe Usa. In veste di mediatori si sono attivati l'ayatollah
Alì al-Sistani, massima autorità religiosa sciita, e il
regime iraniano che ha da sempre appoggiato la maggioranza sciita
irachena.
La precarietà e il livello di rischio della situazione irachena restano comunque alti.
Se per il dipartimento Medio Oriente del Fondo Monetario Internazionale
ci sono segnali che indicano "un miglioramento dell'economia" e lo
stesso De Mistura esprime il cauto ottimismo delle Nazioni Unite pur
avvertendo che "il 2008 sarà un anno cruciale"; l'opinione degli
economisti è assai diversa. Per Michael Greenstone del Mit per
il National Bureau of Economic Researce, ad esempio: "I risultati
suggeriscono che Surge sta fallendo nel tentativo di aprire una strada
verso un Iraq stabile e potrebbe, nei fatti, danneggiarlo".
D'altra parte, i costi nel bilancio federale Usa per continuare la
guerra in Iraq continuano a crescere, tanto che si calcola il budget
2008 ammontante a non meno di 12 miliardi di dollari al mese.
Intanto la guerra continua, anche se non fa notizia.
Il 10 gennaio scorso, durante il tour di Bush in Medio Oriente, due cacciabombardieri
B-1 e quattro jet da combattimento F-16 hanno sganciato tonnellate di
bombe in 10 riprese su 40 obiettivi ad Arab Jabour, nei sobborghi a sud
di Baghdad, radendo al suolo quello che i comandi militari Usa hanno
chiamato il paradiso di al-Qaida in Iraq; sconosciuto il numero di
vittime civili tra gli abitanti del quartiere.
Ma la guerra continua anche sul fronte interno, negli Stati Uniti dove,
come un boomerang, la società sta facendo i conti con le
conseguenze della politica bellica statunitense: da un indagine
condotta dal quotidiano New York Times sarebbero ormai 132 i delitti
relativi a 121 casi di omicidio e strage compiuti da militari reduci,
soprattutto appartenenti all'esercito e ai marine, delle guerre in Iraq
e Afganistan (108 quelli di ritorno dall'Iraq). Le vittime: 41
familiari dei soldati, 32 commilitoni e 59 persone coinvolte
casualmente in sparatorie, rapine ed altri episodi di violenza.
Tre quarti dei veterani coinvolti risultavano ancora sotto le armi al
momento dei crimini. Sono inoltre 25 i militari arrestati per omicidio
per aver causato gravi incidenti stradali guidando in stato di ebbrezza
o per intenti autolesionistici.
Un massacro che sembra avverare la profezia di Homecoming.
U.F.