Umanità Nova, n.4 del 3 febbraio 2008, anno 88

Iraq. La guerra degli zomby


C'è un suggestivo film horror del regista Joe Dante, presentato al festival di Torino un paio d'anni fa, intitolato Homecoming, in cui in vedono gli zomby dei soldati statunitensi morti in Corea, Vietnam e Iraq uscire dalle tombe, stracciare le bandiere stelle e strisce e, in piena campagna elettorale, dirigersi verso Washington per testimoniare la loro rivoluzionaria verità sulla politica presidenziale.
Se questa ipotesi visionaria fosse realtà, i morti viventi reduci dell'Iraq sarebbero ormai almeno 4.000, pur limitandosi alle cifre ufficiali sulle perdite Usa dal 2003 ad oggi.
Ed avrebbero certo più di una ragione per rivoltarsi, dato che la guerra in Iraq, così come quella in Afganistan, non è risultata vittoriosa ma neppure utile a raggiungere gli obiettivi propagandati.
Il principale scopo dichiarato della guerra era l'abbattimento del regime baathista di Saddam Hussein, accusato di appoggiare il terrorismo islamico e di avere ingenti quantitativi armi di distruzione di massa. Ebbene, dopo quattro anni di guerriglia antiamericana e di guerra civile, l'Amministrazione Bush è stata costretta a trattare e a raggiungere un accordo proprio con la minoranza sunnita legata al disciolto partito Baath per la stabilizzazione del paese e la riconciliazione nazionale.
Così, nell'ambito di Surge, il piano voluto da Bush nel gennaio 2006 e poi affidato al generale Petraus, circa 30 mila tra ex membri del partito e funzionari del regime di Saddam stanno compilando i moduli per essere reinseriti nelle forze armate e nell'amministrazione irachena, oppure per godere di una pensione statale. Con la riammissione nelle posizioni di potere, sono state anche fermate le epurazioni e il problematico processo di "de-baathificazione" della società irachena che aveva solo accresciuto le fila dell'insurrezione contro il governo. Persino il famigerato Ali il Chimico (ossia Ali Hassan al-Majiid, cugino di Saddam) e l'ex ministro della difesa Sultan Hashim, entrambi sunniti, già condannati a morte per il genocidio del popolo curdo, sono stati finora salvati dalla forca per volere di Washington che si rifiuta di consegnarli al governo iracheno nel timore che la loro esecuzione possa minare gli accordi con le tribù sunnite.
Tale decisione è stata infatti accompagnata da accordi con i clan sunniti, le cui milizie (si parla di 300 gruppi con 80 mila uomini) saranno d'ora in poi finanziate ed armate dagli Stati Uniti per contrastare il "terrorismo".
Nell'ambito di tale disegno, gli Stati Uniti hanno conseguito un accordo, che scade proprio nel mese di gennaio, anche con l'Esercito del Mahdi del capo sciita Muqtada al-Sadr, ritenuto responsabile di buona parte degli attentati e delle azioni di guerriglia contro le truppe Usa. In veste di mediatori si sono attivati l'ayatollah Alì al-Sistani, massima autorità religiosa sciita, e il regime iraniano che ha da sempre appoggiato la maggioranza sciita irachena.
La precarietà e il livello di rischio della situazione irachena restano comunque alti.
Se per il dipartimento Medio Oriente del Fondo Monetario Internazionale ci sono segnali che indicano "un miglioramento dell'economia" e lo stesso De Mistura esprime il cauto ottimismo delle Nazioni Unite pur avvertendo che "il 2008 sarà un anno cruciale"; l'opinione degli economisti è assai diversa. Per Michael Greenstone del Mit per il National Bureau of Economic Researce, ad esempio: "I risultati suggeriscono che Surge sta fallendo nel tentativo di aprire una strada verso un Iraq stabile e potrebbe, nei fatti, danneggiarlo".
D'altra parte, i costi nel bilancio federale Usa per continuare la guerra in Iraq continuano a crescere, tanto che si calcola il budget 2008 ammontante a non meno di 12 miliardi di dollari al mese.
Intanto la guerra continua, anche se non fa notizia.
Il 10 gennaio scorso, durante il tour di Bush in Medio Oriente, due cacciabombardieri
B-1 e quattro jet da combattimento F-16 hanno sganciato tonnellate di bombe in 10 riprese su 40 obiettivi ad Arab Jabour, nei sobborghi a sud di Baghdad, radendo al suolo quello che i comandi militari Usa hanno chiamato il paradiso di al-Qaida in Iraq; sconosciuto il numero di vittime civili tra gli abitanti del quartiere.
Ma la guerra continua anche sul fronte interno, negli Stati Uniti dove, come un boomerang, la società sta facendo i conti con le conseguenze della politica bellica statunitense: da un indagine condotta dal quotidiano New York Times sarebbero ormai 132 i delitti relativi a 121 casi di omicidio e strage compiuti da militari reduci, soprattutto appartenenti all'esercito e ai marine, delle guerre in Iraq e Afganistan (108 quelli di ritorno dall'Iraq). Le vittime: 41 familiari dei soldati, 32 commilitoni e 59 persone coinvolte casualmente in sparatorie, rapine ed altri episodi di violenza.
Tre quarti dei veterani coinvolti risultavano ancora sotto le armi al momento dei crimini. Sono inoltre 25 i militari arrestati per omicidio per aver causato gravi incidenti stradali guidando in stato di ebbrezza o per intenti autolesionistici.
Un massacro che sembra avverare la profezia di Homecoming.

U.F.

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