Umanità Nova, n.4 del 3 febbraio 2008, anno 88

Crisi delle borse e recessione economica. Sul filo del rasoio


Il 2008 è iniziato nel modo peggiore per chi investe nei mercati azionari. I listini hanno cominciato a scendere a partire dal 2 gennaio e lo storno è proseguito in modo ininterrotto per tutto il mese di gennaio, con una forte accelerazione nella settimana dal 21 al 25 gennaio. In alcune sedute si sono verificati veri e propri crolli, dell'ordine del 6-7%, in piazze importanti come Francoforte, Parigi Londra, mentre i mercati emergenti del Far East hanno visto cadute giornaliere anche del 10%, come in Cina e India. La borsa italiana ha resistito meglio alla buriana perché aveva già perso molto più delle altre piazze durante l'anno appena concluso, il 2007, un anno comunque problematico per tutti i mercati finanziari.
Quello a cui stiamo assistendo è un processo di correzione annunciato, che segue quasi automaticamente il periodo in cui l'economia mondiale è stata drogata da una espansione della liquidità senza precedenti, in larga parte attribuibile alla politica della Federal Reserve americana dopo la crisi delle Torri Gemelle. Per tenere a galla l'economia americana ed il sistema finanziario globale, la Fed gestita da Greenspan ha abbassato i tassi d'interesse fino all'1%, seguita a ruota dalla Bce che li ha abbassati fino al 2%. Se aggiungiamo che anche la Bank of Japan persegue da anni una politica di tassi zero, abbiamo un'idea della situazione che per alcuni anni (2002-2005) si è andata a creare sul mercato finanziario: una abbondanza e una facilità di accesso al credito, a bassissimo costo, senza precedenti, che ha sostenuto investimenti e consumi, ma soprattutto alimentato un impressionante fenomeno di speculazione finanziaria su ogni tipo di attività negoziabile
Gli anni del credito facile hanno visto scatenarsi i fenomeni di M&A, cioè fusioni e acquisizioni, talvolta attraverso processi di fusione concordati, spesso e volentieri attraverso scalate aggressive, che hanno aumentato il gigantismo della dimensione media d'impresa e ridotto i lavoratori a semplici pedine, vittime predestinate di ristrutturazioni selvagge e spezzatini aziendali tese a cogliere, tramite licenziamenti e tagli d'organico, i vantaggi delle operazioni finanziarie.
Contemporaneamente sono stati rilanciati, soprattutto in America, i consumi privati attraverso il ricorso al debito: sono cresciuti enormemente i mutui sugli immobili, destinati a finanziare non solo nuovi acquisti, ma nuovi consumi, trasformando la casa in una specie di bancomat da cui estrarre contante; è esploso anche il ricorso alle carte di credito, rimandando sempre in avanti la resa dei conti. Questo sviluppo drogato si è accompagnato ad un crescente disavanzo di bilancio, legato all'espansione della spesa militare ed al taglio delle tasse per i ricchi, e ad un preoccupante disavanzo commerciale, legato alla delocalizzazione delle produzioni manifatturiere in paesi a più basso costo del lavoro, a partire dalla Cina. Il meccanismo ha funzionato finché i prezzi delle case hanno continuato a salire, gonfiando una bolla immobiliare che nel corso del 2007 ha cominciato a evaporare. La caduta dei prezzi delle case ha fatto emergere la bassa qualità del credito erogato negli Usa e portato alla luce il fenomeno dei mutui subprime, destinati in gran parte a trasformarsi in insolvenze. Il freno all'edilizia si traduce in pericoli seri di rallentamento e recessione economica, con la paura che la caduta dei posti di lavoro faccia mancare anche i redditi necessari a coprire le rate delle carte di credito, con cui ormai molti americani pagano anche le bollette di casa.
Nell'arco di pochi mesi siamo così passati da uno scenario di grande preoccupazione per l'inflazione con lo spauracchio di politiche monetarie restrittive condite da continui rialzi dei tassi, ad una situazione opposta. Dopo l'esplosione del caso dei mutui, la Federal Riserve ha cominciato di nuovo ad espandere il credito, innanzitutto cercando di calmare le tensioni sul mercato interbancario, fornendo dosi massicce di liquidità al sistema in modo da ripristinare un minimo di fiducia e finanziando tutte le banche in difficoltà. In secondo luogo ha cominciato una aggressiva politica di ribasso dei tassi, scesi dal 5,25% del luglio scorso al 3,50% del 22 gennaio, con la prospettiva di tagliare un altro mezzo punto entro poche settimane. La politica della Fed è stata seguita, seppure in modo molto più graduale, dal Regno Unito (sotto choc per il quasi fallimento della Northern Rock Bank), dal Canada e dalla Norvegia. Altre banche centrali, come la Bce o la Bank of Japan, hanno interrotto la politica di rialzo dei tassi, per non compromettere una tenuta del sistema finanziario che sembra quanto mai fragile e precaria.
La situazione è così grave che, per la prima volta da 25 anni a questa parte, il Fondo Monetario Internazionale, per bocca del suo Presidente, il francese Dominique Strauss-Khan, chiede un aumento dei salari e dei consumi, soprattutto da parte di quei paesi che hanno i conti pubblici a posto (Cina in primis). L'auspicio riflette bene i due ordini di preoccupazioni che assillano i responsabili dell'economia mondiale: da un lato la paura di una crisi finanziaria che può diventare incontrollabile e risolversi in una recessione devastante in grado di minare i fragili equilibri economico-sociali delle economie mature; dall'altra la consapevolezza che gli squilibri tra le diverse aree dell'economia mondo possono portare a duraturi cambiamenti nella distribuzione del potere mondiale.
L'imponente disavanzo commerciale americano ha portato i paesi beneficiari di questi flussi d'acquisto (Cina, Giappone, Corea, ecc.) ad accumulare stock di titoli in dollari, che si stanno svalutando oltre ogni previsione. Il rialzo del petrolio e delle altre materie prime ha finito per accumulare molte riserve in paesi sovrani non sempre in sintonia con la politica degli Usa e dei loro alleati. Sono proprio i fondi "pubblici" di questi paesi che sono stati chiamati a soccorrere le istituzioni bancarie americane in forte stato di stress: Citibank e Merrill Lynch, ma anche la svizzera Ubs, hanno dovuto operare colossali svalutazioni sui mutui subprime e sono state salvate in modo assai tempestivo dall'intervento di capitali provenienti da Abu Dhabi, Singapore, fondi cinesi principi sauditi. In altre parole, per sopravvivere devono "vendersi al nemico".
Si può dire che il capitale finanziario è ormai veramente globale e che è almeno dal primo shock petrolifero che esiste il reinvestimento di petro-dollari nell'economia del primo mondo: tuttavia qui non si tratta di "diversificazione" o di situazioni marginali (es. la Lafico che compra una quota Fiat come negli anni '70), ma di investitori strategici che entrano nel capitale della prima banca del mondo e nella prima banca d'affari Usa per restarci, da una posizione di forza e dettando le condizioni del proprio ingresso, sapendo che dall'altra parte si ha l'acqua alla gola.
Finora l'Europa della finanza ha cercato di negare l'evidenza del problema, tentando di trattare questa ennesima crisi come un problema esclusivamente americano. Questo è particolarmente vero per la BCE, che ha ripetutamente affermato di non voler procedere ad alcun ribasso dei tassi per avallare il comportamento speculativo e arrischiato di trader, banche, hedge funds e similari. Tuttavia l'onda lunga della crisi americana sta varcando l'Oceano. Questo non solo perché molte banche europee, tedesche comprese, sono piene di obbligazioni collegate a mutui in default, ma anche perché una recessione economica mondiale non potrebbe che portare guai seri anche al modello più solido per eccellenza, quello export-oriented del manifatturiero tedesco. Inoltre l'esposizione delle banche commerciali europee ad attività d'investimento di scarsa qualità è innegabile, per non dire della carenza dei sistemi di controllo, come evidenziato dal buco da 5 miliardi di euro emerso nei conti della francese Società Generale la scorsa settimana.
Sembra inevitabile quindi che anche la Bce sia costretta ad andare verso l'abbassamento dei tassi, per sostenere le famiglie cariche di mutui a tasso variabile, aiutare le imprese a rilanciare gli investimenti e salvare le banche d'affari con qualche corposa operazione di fusione/acquisizione.
Non è da escludere quindi che la profondità della crisi possa portare ad una serie di svolte nella gestione corrente della politica economica da parte dei vari soggetti coinvolti nella sua gestione.
Gli Usa cercheranno come sempre di scaricare verso l'esterno le proprie contraddizioni, magari reintroducendo politiche protezioniste come vuole una componente importante del partito democratico, probabile vincitore delle prossime presidenziali. Questa scelta potrebbe costringere i paesi che vivono di export verso gli Usa (con in testa la Cina) a scegliere effettivamente una crescita dei consumi interni, per mettere le basi di uno sviluppo più autocentrato e diretto. L'Europa potrebbe scoprire il fascino di politiche economiche espansive, dopo anni di crescita esangue soffocata da politiche di bilancio e fiscali restrittive, tese solo al risanamento dei conti.
Manca all'appello un soggetto che potrebbe giocare un grande ruolo in una fuoriuscita inedita dalla crisi: il movimento operaio organizzato. La precarizzazione del lavoro, la redistribuzione del reddito da salario a profitto, l'integrazione degli apparati sindacali e la loro riduzione all'impotenza hanno permesso il dispiegarsi di politiche economiche che hanno impoverito la società e compresso i bisogni sociali. L'emergere di una seria crisi economica, in grado di contagiare tutto il mondo sincronicamente, rappresenta un grande test per le capacità di autoriproduzione del sistema, ma anche per le possibilità di intervento che offre al movimento antagonista. La partita è appena cominciata.

Renato Strumia

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