Il 2008 è iniziato nel modo peggiore per chi investe nei mercati
azionari. I listini hanno cominciato a scendere a partire dal 2 gennaio
e lo storno è proseguito in modo ininterrotto per tutto il mese
di gennaio, con una forte accelerazione nella settimana dal 21 al 25
gennaio. In alcune sedute si sono verificati veri e propri crolli,
dell'ordine del 6-7%, in piazze importanti come Francoforte, Parigi
Londra, mentre i mercati emergenti del Far East hanno visto cadute
giornaliere anche del 10%, come in Cina e India. La borsa italiana ha
resistito meglio alla buriana perché aveva già perso
molto più delle altre piazze durante l'anno appena concluso, il
2007, un anno comunque problematico per tutti i mercati finanziari.
Quello a cui stiamo assistendo è un processo di correzione
annunciato, che segue quasi automaticamente il periodo in cui
l'economia mondiale è stata drogata da una espansione della
liquidità senza precedenti, in larga parte attribuibile alla
politica della Federal Reserve americana dopo la crisi delle Torri
Gemelle. Per tenere a galla l'economia americana ed il sistema
finanziario globale, la Fed gestita da Greenspan ha abbassato i tassi
d'interesse fino all'1%, seguita a ruota dalla Bce che li ha abbassati
fino al 2%. Se aggiungiamo che anche la Bank of Japan persegue da anni
una politica di tassi zero, abbiamo un'idea della situazione che per
alcuni anni (2002-2005) si è andata a creare sul mercato
finanziario: una abbondanza e una facilità di accesso al
credito, a bassissimo costo, senza precedenti, che ha sostenuto
investimenti e consumi, ma soprattutto alimentato un impressionante
fenomeno di speculazione finanziaria su ogni tipo di attività
negoziabile
Gli anni del credito facile hanno visto scatenarsi i fenomeni di
M&A, cioè fusioni e acquisizioni, talvolta attraverso
processi di fusione concordati, spesso e volentieri attraverso scalate
aggressive, che hanno aumentato il gigantismo della dimensione media
d'impresa e ridotto i lavoratori a semplici pedine, vittime
predestinate di ristrutturazioni selvagge e spezzatini aziendali tese a
cogliere, tramite licenziamenti e tagli d'organico, i vantaggi delle
operazioni finanziarie.
Contemporaneamente sono stati rilanciati, soprattutto in America, i
consumi privati attraverso il ricorso al debito: sono cresciuti
enormemente i mutui sugli immobili, destinati a finanziare non solo
nuovi acquisti, ma nuovi consumi, trasformando la casa in una specie di
bancomat da cui estrarre contante; è esploso anche il ricorso
alle carte di credito, rimandando sempre in avanti la resa dei conti.
Questo sviluppo drogato si è accompagnato ad un crescente
disavanzo di bilancio, legato all'espansione della spesa militare ed al
taglio delle tasse per i ricchi, e ad un preoccupante disavanzo
commerciale, legato alla delocalizzazione delle produzioni
manifatturiere in paesi a più basso costo del lavoro, a partire
dalla Cina. Il meccanismo ha funzionato finché i prezzi delle
case hanno continuato a salire, gonfiando una bolla immobiliare che nel
corso del 2007 ha cominciato a evaporare. La caduta dei prezzi delle
case ha fatto emergere la bassa qualità del credito erogato
negli Usa e portato alla luce il fenomeno dei mutui subprime, destinati
in gran parte a trasformarsi in insolvenze. Il freno all'edilizia si
traduce in pericoli seri di rallentamento e recessione economica, con
la paura che la caduta dei posti di lavoro faccia mancare anche i
redditi necessari a coprire le rate delle carte di credito, con cui
ormai molti americani pagano anche le bollette di casa.
Nell'arco di pochi mesi siamo così passati da uno scenario di
grande preoccupazione per l'inflazione con lo spauracchio di politiche
monetarie restrittive condite da continui rialzi dei tassi, ad una
situazione opposta. Dopo l'esplosione del caso dei mutui, la Federal
Riserve ha cominciato di nuovo ad espandere il credito, innanzitutto
cercando di calmare le tensioni sul mercato interbancario, fornendo
dosi massicce di liquidità al sistema in modo da ripristinare un
minimo di fiducia e finanziando tutte le banche in difficoltà.
In secondo luogo ha cominciato una aggressiva politica di ribasso dei
tassi, scesi dal 5,25% del luglio scorso al 3,50% del 22 gennaio, con
la prospettiva di tagliare un altro mezzo punto entro poche settimane.
La politica della Fed è stata seguita, seppure in modo molto
più graduale, dal Regno Unito (sotto choc per il quasi
fallimento della Northern Rock Bank), dal Canada e dalla Norvegia.
Altre banche centrali, come la Bce o la Bank of Japan, hanno interrotto
la politica di rialzo dei tassi, per non compromettere una tenuta del
sistema finanziario che sembra quanto mai fragile e precaria.
La situazione è così grave che, per la prima volta da 25
anni a questa parte, il Fondo Monetario Internazionale, per bocca del
suo Presidente, il francese Dominique Strauss-Khan, chiede un aumento
dei salari e dei consumi, soprattutto da parte di quei paesi che hanno
i conti pubblici a posto (Cina in primis). L'auspicio riflette bene i
due ordini di preoccupazioni che assillano i responsabili dell'economia
mondiale: da un lato la paura di una crisi finanziaria che può
diventare incontrollabile e risolversi in una recessione devastante in
grado di minare i fragili equilibri economico-sociali delle economie
mature; dall'altra la consapevolezza che gli squilibri tra le diverse
aree dell'economia mondo possono portare a duraturi cambiamenti nella
distribuzione del potere mondiale.
L'imponente disavanzo commerciale americano ha portato i paesi
beneficiari di questi flussi d'acquisto (Cina, Giappone, Corea, ecc.)
ad accumulare stock di titoli in dollari, che si stanno svalutando
oltre ogni previsione. Il rialzo del petrolio e delle altre materie
prime ha finito per accumulare molte riserve in paesi sovrani non
sempre in sintonia con la politica degli Usa e dei loro alleati. Sono
proprio i fondi "pubblici" di questi paesi che sono stati chiamati a
soccorrere le istituzioni bancarie americane in forte stato di stress:
Citibank e Merrill Lynch, ma anche la svizzera Ubs, hanno dovuto
operare colossali svalutazioni sui mutui subprime e sono state salvate
in modo assai tempestivo dall'intervento di capitali provenienti da Abu
Dhabi, Singapore, fondi cinesi principi sauditi. In altre parole, per
sopravvivere devono "vendersi al nemico".
Si può dire che il capitale finanziario è ormai veramente
globale e che è almeno dal primo shock petrolifero che esiste il
reinvestimento di petro-dollari nell'economia del primo mondo: tuttavia
qui non si tratta di "diversificazione" o di situazioni marginali (es.
la Lafico che compra una quota Fiat come negli anni '70), ma di
investitori strategici che entrano nel capitale della prima banca del
mondo e nella prima banca d'affari Usa per restarci, da una posizione
di forza e dettando le condizioni del proprio ingresso, sapendo che
dall'altra parte si ha l'acqua alla gola.
Finora l'Europa della finanza ha cercato di negare l'evidenza del
problema, tentando di trattare questa ennesima crisi come un problema
esclusivamente americano. Questo è particolarmente vero per la
BCE, che ha ripetutamente affermato di non voler procedere ad alcun
ribasso dei tassi per avallare il comportamento speculativo e
arrischiato di trader, banche, hedge funds e similari. Tuttavia l'onda
lunga della crisi americana sta varcando l'Oceano. Questo non solo
perché molte banche europee, tedesche comprese, sono piene di
obbligazioni collegate a mutui in default, ma anche perché una
recessione economica mondiale non potrebbe che portare guai seri anche
al modello più solido per eccellenza, quello export-oriented del
manifatturiero tedesco. Inoltre l'esposizione delle banche commerciali
europee ad attività d'investimento di scarsa qualità
è innegabile, per non dire della carenza dei sistemi di
controllo, come evidenziato dal buco da 5 miliardi di euro emerso nei
conti della francese Società Generale la scorsa settimana.
Sembra inevitabile quindi che anche la Bce sia costretta ad andare
verso l'abbassamento dei tassi, per sostenere le famiglie cariche di
mutui a tasso variabile, aiutare le imprese a rilanciare gli
investimenti e salvare le banche d'affari con qualche corposa
operazione di fusione/acquisizione.
Non è da escludere quindi che la profondità della crisi
possa portare ad una serie di svolte nella gestione corrente della
politica economica da parte dei vari soggetti coinvolti nella sua
gestione.
Gli Usa cercheranno come sempre di scaricare verso l'esterno le proprie
contraddizioni, magari reintroducendo politiche protezioniste come
vuole una componente importante del partito democratico, probabile
vincitore delle prossime presidenziali. Questa scelta potrebbe
costringere i paesi che vivono di export verso gli Usa (con in testa la
Cina) a scegliere effettivamente una crescita dei consumi interni, per
mettere le basi di uno sviluppo più autocentrato e diretto.
L'Europa potrebbe scoprire il fascino di politiche economiche
espansive, dopo anni di crescita esangue soffocata da politiche di
bilancio e fiscali restrittive, tese solo al risanamento dei conti.
Manca all'appello un soggetto che potrebbe giocare un grande ruolo in
una fuoriuscita inedita dalla crisi: il movimento operaio organizzato.
La precarizzazione del lavoro, la redistribuzione del reddito da
salario a profitto, l'integrazione degli apparati sindacali e la loro
riduzione all'impotenza hanno permesso il dispiegarsi di politiche
economiche che hanno impoverito la società e compresso i bisogni
sociali. L'emergere di una seria crisi economica, in grado di
contagiare tutto il mondo sincronicamente, rappresenta un grande test
per le capacità di autoriproduzione del sistema, ma anche per le
possibilità di intervento che offre al movimento antagonista. La
partita è appena cominciata.
Renato Strumia