Per chi se lo fosse perso – e mi auguro che siano in molti, così
almeno si sono risparmiati il mal di stomaco – segnalo che nella serata
del 23 gennaio è andata in onda un'edizione "speciale" di
"Ballarò", il programma televisivo di RAI 3 dedicato
all'attualità politica. Cosa aveva di "speciale" questo
"Ballarò"? Il fatto che non trattava di attualità
bensì del libro scritto da Mario Calabresi, figlio del ben noto
commissario, dedicato alle vicende della sua famiglia e di altre
famiglie i cui componenti rimasero vittima della lotta armata negli
anni '70. Insieme a Calabresi, attualmente giornalista di "Repubblica",
sedevano in studio i figli del giudice Alessandrini, del giornalista
Tobagi, dell'industriale Todini e, sul finire, l'onnipresente Giuliano
Ferrara e il direttore di "Repubblica" Ezio Mauro. Sul palco l'attore
Zingaretti (noto per aver impersonato il commissario Montalbano)
intervallava le testimonianze con la lettura di brani tratti dal libro.
Filmati di allora, pescati a caso, facevano da contorno.
Una trasmissione in sostanza ben congegnata che pare voglia dare inizio
alle "celebrazioni" del '68, illustrandone quelli che, secondo i suoi
molteplici detrattori, ne sono stati i risultati: bombe, sangue, morti
ammazzati, eccetera.
Nello "speciale" ovviamente non poteva mancare la strage di piazza
Fontana e la figura del nostro Pino Pinelli. Ebbene non una parola
è stata detta sulla matrice di quella strage, sulla
responsabilità dello Stato e dei fascisti; addirittura la
proiezione delle drammatiche immagini dei funerali delle vittime del 12
dicembre si confondeva con le testimonianze dei presenti che
ricordavano le responsabilità delle formazioni armate di
sinistra nell'assassinio dei loro cari, quasi che quelle bare fossero
prodotto di quelle azioni e non di una raffinata strategia stragista al
servizio di un disegno autoritario in pieno stile golpista. Non una
parola è stata detta sul contesto di quegli anni (la guerra in
Vietnam, il colpo di stato in Grecia, i sussulti sanguinari delle
dittature franchista e salazarista, il colpo di stato in Cile, le
dittature militari in America Latina con il loro lascito di
"desaparecidos", la repressione della Primavera cecoslovacca...),
contesto che delineava anche per l'Italia un possibile futuro
clerico-fascista in un mondo diviso in blocchi inamovibili. Il nascere
della lotta armata, profondamente legato ad una lettura – che noi
giudicammo distorta e irricevibile, ma non assurda – di quel contesto,
è stata liquidata come espressione di una banda di spostati che
avevano dichiarato guerra. Ora si può capire il profondo dolore
di chi ha perso un proprio caro, soprattutto se è il proprio
padre, si può comprendere la valorizzazione della sua figura, ma
appare veramente fuorviante e strumentale elevare i loro assassini ad
espressione di un periodo. La frase "non c'era nessuna guerra in corso"
è esplicativa di questo modo di sentire. Purtroppo era in corso
un attacco frontale alle conquiste dei lavoratori, alle esigenze di
libertà dei giovani, delle donne; un attacco scatenato per
mantenere le classi subordinate al loro posto, un posto fatto di
sfruttamento bestiale, di oppressione sociale e culturale, di gerarchie
inamovibili e di soprusi inaccettabili. Un attacco che per alcuni, una
minoranza, assunse le sembianze di una guerra alla quale bisognava
rispondere "militarmente". Non capire che le bombe del '69 erano
l'apice di quell'attacco contro i lavoratori, contro il processo di
liberazione in corso, vuol dire rifiutarsi di capire quello che
è successo dopo. Un dopo fatto non solo di azioni efferate, ma
anche, e soprattutto, di lotte sociali, di mobilitazioni di piazza, di
conquiste quotidiane, di protagonismo e di emancipazione. Di tutto
questo non vi è stata alcuna traccia nella trasmissione pilotata
da Floris, così come non vi erano familiari delle tante vittime
delle forze del disordine statale e delle stragi, per le quali mai
nessuno (o quasi) ha pagato, né vi era alcuno studioso
dell'epoca, nessun vero esperto. Paradossalmente poi nello stesso
giorno in cui il capo leghista Bossi minacciava il ricorso alle armi
contro il governo di Prodi.
Di Pinelli poi abbiamo dovuto sentire le solite strumentalizzazioni
utili solo per tacitare coscienze: il libro regalato, la testimonianza
di Pannella, eccetera. Con grande sicurezza Calabresi afferma che Pino
è precipitato per un malore "attivo" da quella maledetta stanza
(come dice la sentenza di "un giudice 'non conservatore' come
D'Ambrosio" che volendo escludere sia l'ipotesi del suicidio che la
responsabilità dei poliziotti ritiene semplicemente "verosimile"
questa causa di decesso), esclude la presenza del padre nel suo
ufficio, denuncia le omissioni e le ambiguità della Questura di
Milano sulla sua morte, rivela che fu la Polizia ad imporre al
commissario di presentare querela contro Lotta Continua che lo accusava
di essere l'assassinio del nostro compagno. Da giornalista quale
è Calabresi dovrebbe riprendere in mano le dichiarazioni di
allora, le testimonianze dei poliziotti, gli atti dei vari processi
svolti, e non farsi prendere la mano dalle sue private emozioni. E
allora scoprirebbe le illuminanti e contraddittorie testimonianze dei
poliziotti presenti nella stanza, quella di Pasquale Valitutti che
riferisce dei trambusti nell'ufficio, le innumerevoli menzogne e
manipolazioni; scoprirebbe la ricusazione del giudice Biotti da parte
di suo padre, solo perché il giudice avrebbe manifestato in
privato la sua convinzione sulla colpevolezza del commissario. "Vi
giuro non l'abbiamo ucciso noi" disse il questore Guida "il suo alibi
era crollato... si è visto perduto... è stato un gesto
disperato... una specie di autoaccusa". E i poliziotti affermarono che
Pino si era gettato gridando "È la fine dell'anarchia". Certo
sul brillante funzionario di polizia allora se ne dissero molte, di
giuste e di sbagliate, ma non è corretto amplificare queste
ultime per occultare i fatti certi, riportati nei verbali e negli atti
processuali. Lo sa Calabresi che il giudice Beria d'Argentine riferisce
di un colloquio con l'allora procuratore generale di Milano, Bianchi
d'Espinosa dal quale risulta che il giudice D'Ambrosio già nel
giugno del 1972, ben tre anni prima del deposito della sentenza e prima
di conoscere l'esito di diverse perizie, stava giungendo alla
conclusione che sappiamo? Che dire poi dell'opinione del commissario su
Pinelli "mai considerato un nemico", con il quale ci si scambiava
regali, ma che non impedì di trattenerlo illegalmente in
questura per tre giorni e tre notti fino al tragico evento? E riguardo
la sua umanità come non ricordare quanto riferito da Licia
Pinelli che seppe della morte di Pino dai giornalisti e che chiedendo
spiegazioni al Calabresi si sentì rispondere "scusi signora, ma
avevamo tanto da fare"?
O le dichiarazioni dei suoi compagni di allora che riferiscono delle
minacce ricevute da Pino proprio dal brillante commissario? Di tutto
questo non vi è nulla nella ricostruzione di Mario Calabresi che
non ha perso nemmeno l'occasione, insieme a Ferrara, per cercare di
rendere insignificante l'appello firmato da centinaia e centinaia di
intellettuali, scrittori, giornalisti, eccetera che rivendicava la
verità sull'assassinio di Pinelli, accusandoli di conformismo e
di codismo.
Ma al di là delle parole e del libro di Calabresi c'è da
chiedersi come mai a distanza di tanti anni si debba assistere ad una
mobilitazione tanto vasta per la "riabilitazione" del commissario.
Ricordiamo il monumento, la lapide, le intitolazioni di strade, la
stele, la medaglia, il francobollo, e chissà cos'altro ancora,
insieme alle innumerevoli presentazioni del libro, alle interviste
televisive, eccetera.
Probabilmente, al di là dell'indubbia riscrittura della storia
recente che vede convergere, ovviamente con diverse sensibilità
e capacità, la destra e la sinistra istituzionali di questo
paese, vi è lo specifico tentativo di annullare progressivamente
la memoria di Pinelli soverchiandola con la tragicità della
morte del commissario, assurto ad emblema del sacrificio per dovere.
Ricordiamo che fu proprio la campagna per la verità
sull'assassinio di Pino che scoperchiò la criminalità di
un potere disposto alle stragi pur di conservare le proprie
prerogative. Cancellarne la memoria vuol dire cancellare la
consapevolezza allora acquisita – e tuttora rivendicata pur da
minoranze – che lo Stato è disposto a tutto pur di mantenere
gerarchie, poteri e privilegi. Ed è per questo che continuiamo a
batterci per la verità sull'assassinio di Pinelli, contro tutti
i manipolatori della storia e della memoria.
Massimo V.