Generalmente siamo abituati a pensare al Sessantotto come a un punto di
partenza. Il punto di partenza, per molti aspetti irripetibile e
determinante, di una fase storica che avrebbe prodotto cambiamenti
definitivi tanto nella vita quotidiana quanto nelle dinamiche
politiche, culturali e sociali di questi ultimi decenni. In un certo
senso, come il "momento magico" di una intera generazione, che
scoprì la possibilità di intervenire in prima persona
nella costruzione della propria soggettività, interpretando
finalmente, senza più mediazioni, il ruolo di protagonista.
Ma tutto questo accadde improvvisamente? Fu davvero necessario lo
scoppio festoso e trascinante del Maggio francese, perché anche
in Italia, come nel resto del mondo, migliaia di giovani capissero di
non poterne più di una società ostile ed ingessata,
incapace di profonde trasformazioni, e cominciassero a interrogarsi sui
propri bisogni e sui propri desideri? E soprattutto a trovare delle
risposte?
Decisamente non credo, anzi.
Mi permetterò, una volta tanto, di prendermi come punto di
riferimento, di citarmi come "esempio". Il fatto che la mia esperienza
di allora non sia stata particolarmente significativa o dissimile
rispetto alle altre - oltre tutto, per certi aspetti, ho vissuto quel
periodo in una condizione "periferica" - ma sostanzialmente parallela a
quelle di coloro che poi mi sarei trovato a fianco, mi
consentirà, infatti, di comunicare, a chi sente quel periodo
come appartenente a un lontano passato, che cosa d'altro fu il
Sessantotto per chi lo fece. Quale sia stato il cammino collettivo
percorso dalla minoranza più inquieta, più viva e
rumorosa appartenente a quella generazione. Mi rendo conto di
accingermi a una impresa ardua, ma tutte le mistificazioni e le bugie
che oggi cercano di travisarne il senso, rispolverando gli stessi
mezzucci e le identiche false coscienze messe sul piatto quarant'anni
fa - e fa sorridere che molti degli attuali becchini siano stati i
bersagli di allora - mi spingono ad andare avanti. Come una volta si
sarebbe detto con molta serietà, oggi invece con un pizzico di
ironia: tutto per la causa!
Il Sessantotto non fu solo quello che tutti conosciamo, il punto di
partenza di cui si parlava poc'anzi. Fu anche, e credo in maniera
altrettanto significativa, un punto di arrivo, la definitiva
risoluzione di una rottura esistenziale prodottasi già alcuni
anni prima, e che aveva visto irrompere nell'universo giovanile, a
ritmo galoppante, una irrefrenabile esigenza di cambiamento. Un
cambiamento che potesse coinvolgere non tanto, o non solo, gli aspetti
"istituzionali" della vita quotidiana, quanto, e soprattutto, quelli
esistenziali. "Questo sabato è triste, ma perché, ma
perché?", cantava un giovanissimo Celentano, e quei versi
interpretavano perfettamente la tristezza sempre meno rassegnata dei
sabato sera di allora.
Gli anni Sessanta, i mitici anni Sessanta, cominciano,
significativamente, nel 1960, nelle strade di Genova, di Reggio Emilia
e di tante altre città italiane. Quando gli stessi giovani
puntualmente accusati di disinteresse nei confronti della politica,
scesero nelle piazze disobbedendo agli ordini dei partiti per
respingere, sul nascere, le provocazioni democristiane e neofasciste. I
famosi giovanotti dalle magliette a strisce, i giovani operai delle
fabbriche emiliane, i proletari "informi" di Piazza Statuto, non
saranno presenti nelle piazze sessantottine, ma fu il loro esempio,
credo, il primo impulso a uscire dal guscio per chi, poi, avrebbe
espresso lo stesso impegno. Avevo quattordici anni nel 1960, e ricordo
ancora una Imola spettrale percorsa dalle camionette della Celere e il
senso di profonda ingiustizia che quelle dimostrazioni del potere
trasmettevano. Si cominciava a ragionare.
I primi anni Sessanta furono anche quelli dei primi governi di
centrosinistra. Oggi siamo abituati a pensare nei termini di una
sostanziale intercambiabilità degli schieramenti politici e di
una altrettanto sostanziale omogeneizzazione di programmi, contenuti,
proposte e progetti politici. Ma allora non era decisamente
così. Un quindicennio di immobilismo dominato dai "forchettoni"
democristiani e segnato da una opposizione di sinistra apparentemente
rivoluzionaria terminò nella cooptazione al governo del Psi di
Nenni. Al di là della prevedibile rottura con il socialismo
"intransigente" più legato al Pci, il piano di riforme
prospettato dall'entrata nella stanza dei bottoni - espressione, se non
ricordo male, dello stesso Nenni - rappresentò una rottura
apparentemente radicale con il passato. O almeno così fu
vissuta, qualcosa si stava muovendo. In classe, il professore di
filosofia, socialista storico, ci ascoltava discutere su questa svolta
irreversibile della politica italiana. Si continuava a ragionare, altre
strade sembravano praticabili, l'immutabile cominciava a sembrare un
po' meno immutabile.
Poi c'erano Kennedy e Krusciov, le due Kappa come scrivevano i giornali
popolari, i due della Baia dei porci e dei missili sovietici puntati da
Cuba sulla Florida, tanto per intenderci. Ma i due signori della terra
che rappresentavano anche la fine dell'apartheid e l'uguaglianza di
neri e bianchi negli Usa, il disgelo e l'apparente apertura a velate
forme di dissenso e "democrazia" nell'Urss. Quando Kennedy fu ucciso,
ricordo alcuni compagni di classe che piansero. Non ne condivisi il
dolore, allora, ma chi piangerebbe oggi, su Bush o su Clinton? E ci fu
anche, per chi ci credeva, papa Roncalli. Per capire meglio l'impatto
che ebbe, nella società italiana, una chiesa che nel Concilio
Vaticano II si apriva, comunque, a qualche forma di rinnovamento, non
si deve dimenticare che prima c'era stato Pacelli. Una struttura
ieratica e gelida che ora celebrava la messa in italiano. Una pratica
millenaria completamente sovvertita. Di nuovo, per chi ci credeva, un
bel cambiamento! E altrettanti buoni spunti per ragionare.
E c'era stata la rivoluzione cubana. Uno sballo! Avere visto quelle
facce barbute e trasandate, vestite come esploratori tropicali, sedere
ben salde sui banchi governativi dove fino a poco prima il presidente
Batista aveva curato gli interessi del "corrotto" capitalismo yankee,
non fu davvero una cosa da poco. La Rivoluzione aveva indossato nuove
vesti in nuove latitudini e la si percepiva come un'avventura romantica
nelle selve sudamericane, da sognare con la faccia di Humphrey Bogart
nel Tesoro della Sierra Madre. Era ancora troppo presto, per noi
giovanotti fiduciosi, comprendere l'involuzione autoritaria che
avrebbe, come da copione, fatto fuori Cienfuegos e gli anarchici. Ma
quando nelle selve boliviane il Che fu ucciso - cosa alla quale per
lunghi giorni ci si ostinò a non credere sperando di vederlo
riaccendere qua o là nuovi fuochi di guerriglia - un mio amico,
oltretutto abbastanza qualunquista e per nulla impegnato politicamente,
gridava, ubriaco, nella piazza di Imola contro il generale Barrientos e
gli assassini nordamericani.
Poi, naturalmente, ci fu il Vietnam. Davide contro Golia, la madre di
tutte le prese di coscienza. Il momento per cominciare a raccogliere le
idee, per fare due più due uguale quattro, e per ragionare,
sempre più seriamente, su tematiche quali indipendenza dei
popoli, emancipazione dallo sfruttamento e libertà. Si
scioperava nelle scuole, per il Vietnam e per Cuba. Sfilando in corteo
verso il parco, mano nella mano con la morosa di turno, si gridava
"Giù le mani da Cuba" e "Vietnam libero" - solo più tardi
sarebbe venuto il più incisivo "Vietcong vince perché
spara" - e i giornali reazionari (tolti quelli di partito, lo erano
quasi tutti) avevano buon gioco nel descrivere quegli scioperi
così mansueti come un'ottima scusa per passare una giornata
lontano da scuola. Guardandosi bene, però, dal far notare che
nel Novecento i precedenti scioperi studenteschi erano stati quelli
degli studenti interventisti nel 1915 o di quelli fascisti contro
l'occupazione delle fabbriche e per le imprese imperialistiche di
Mussolini. Evidentemente qualcosa era davvero cambiato, se coloro che
erano sempre stati visti come privilegiati rispetto a coetanei
costretti a lavorare da apprendisti già a quattordici anni, ora
cominciavano a porre al centro dei loro ragionamenti termini quali
uguaglianza e solidarietà.
Del resto, a favorire lo sviluppo e la maturazione di questo processo
di emancipazione dalle rigide strutture nelle quali si voleva
ingabbiare la nostra inquieta generazione, non concorse solo
l'attenzione alle grandi questioni politiche e sociali in Italia e nel
mondo, ma anche, e probabilmente in modo ancora più
significativo, una profonda trasformazione a livello culturale.
Trasformazione, questa, che interessò tutta la gioventù,
dalle periferie delle grandi metropoli ai più piccoli paesi di
campagna, producendo uno spirito di ribellione che ormai non poteva
più essere compresso. Ma del "ribellarsi è giusto", dei
capelli lunghi, delle minigonne, dei complessini e dei vestiti
colorati, tutte cose per noi altrettanto "propedeutiche" al
Sessantotto, ne parlerò una prossima volta.
Massimo Ortalli