L'Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro (ANMIL) ha
appena snocciolato le cifre dei morti e degli invalidi sul lavoro in
Italia, paragonate a quelle di una guerra a basa intensità: un
morto sul lavoro ogni sette ore. Oggi CGIL-CISL-UIL hanno pure
annunziato che il I° maggio sarà dedicato al tema della
sicurezza (sic) e il presidente della repubblica Napolitano si è
affrettato a ribadire che anche a camere sciolte si possono approvare i
decreti attuativi del testo unico sulla sicurezza. La sicurezza sul
lavoro "tira" in questo periodo, non c'è che dire. Le
statistiche dicono che i morti sul lavoro sono diminuiti negli ultimi
dieci anni in Italia del 25% e nel resto d'Europa del 30%: cioè
da noi si muore sul lavoro ancora più che all'estero. Ma il
problema non è la statistica. Il problema è la morte o
l'invalidità sul lavoro in tempi come i nostri. E lo spostamento
in atto di immaginario collettivo su chi siano i responsabili di questa
carneficina. C'è un po' di ineluttabile in quel che accade, si
pensa sotto sotto: certi lavori, si sa, son pericolosi. Al tempo
stesso, non tutti i morti sono uguali: gli stranieri, specie se
impiegati in nero e nell'edilizia, lasciano abbastanza indifferenti. La
periodica morte o il grave infortunio nella fabbrica di botti, pure. I
camionisti, dipendenti o padroncini, che quotidianamente muoiono,
spesso in incidenti stradali in cui sono coinvolti anche altri, vengono
rubricati appunto negli incidenti stradali. Il morto in fabbrica da
pressa, braccio meccanico "impazzito" ecc. fa un poco più
notizia, specie se l'azienda è medio-grande. Se i morti sono
più di uno, la loro fine ha più possibilità di
bucare il video. Il rogo di dicembre della Thyssen-Krupp ha colpito per
la sua atroce dinamica, per l'orribile morte dei sette operai
coinvolti, spentisi dopo giorni e giorni di agonia con i corpi
completamente piagati dal fuoco. Lavoravano da dodici ore in una
fabbrica in smantellamento, in condizioni ottocentesche e come
nell'ottocento sono morti, mentre si guadagnavano il pane per la
propria famiglia, tutti giovani, perchè i vecchi erano tutti
usciti dalla fabbrica per cassa integrazione e poi mobilità. Una
tragedia del conflitto tra capitale e lavoro, della guerra quotidiana
che il capitale muove al lavoro. Interessante è il fatto che
nello stesso Piemonte, però in una cittadina del cuneese,
Fossano, nel mese di luglio scorso ci fosse stato un gravissimo
incidente in cui sono morti cinque lavoratori: uno subito e gli altri
quattro dopo settimane di agonia. Altra realtà, la provincia,
una ditta individuale a condizione famigliare, l'estate, una piccola
fabbrica. I morti di Fossano non hanno bucato il video, se non poi un
poco a dicembre, nel cono d'ombra dei morti della Thyssen. Interessante
(si fa per dire) è il fatto che ora per i famigliari dei morti
Thyssen si sia costituito un collegio di avvocati che promuoveranno una
causa risarcitoria "all'americana" nei confronti della multinazionale
tedesca: il bello è che di questo collegio fanno parte anche
importanti studi legali che di solito difendono grandi aziende in cause
penali e civili. Gli avvocati in questione sono degli affermati
professionisti nei loro rispettivi settori ed offrono garanzie di poter
riuscire ad ottenere significativi risarcimenti per le famiglie. Il
problema, però, anche qui, non è la competenza tecnica
del professionista cui si affida una causa di risarcimento. Piuttosto,
il fatto che la vicenda Thyssen sembri spostarsi sul piano giuridico e
giudiziario, un po' da film o da realtà americani, da romanzo
alla Grisham e perda ogni connotato politico e sindacale. Un segno dei
tempi? Dalla lotta di classe alla class action? E i morti di Fossano? E
i tanti morti "anonimi"? Giacché non sarà sfuggito che un
conto è chiedere risarcimenti dei danni ad una multinazionale ed
un conto è farlo con il proprietario del mulino di Fossano: al
di là del maggiore appeal professionale e mediatico della prima
causa, è proprio questione di soldi che si possono ottenere, a
(quasi) parità di numero di morti. Triste contabilità. Il
rischio è che tra i lavoratori salti fuori una differenza di
"classe" a seconda del datore di lavoro per cui sono morti o si son
storpiati. Non sarebbe il primo né l'ultimo paradosso dei nostri
tempi, ma certo sarebbe un ben amaro approdo per il mondo del lavoro.
Ludd