Umanità Nova, n.7 del 24 febbraio 2008, anno 88

Strage senza fine. Afganistan: La guerra dei sette anni


La foto premiata dall'associazione World Press Photo, come la migliore dell'anno è stata scattata da Tim Hethering che ha documentato la disperazione di un marine americano in un bunker nella Korengal valley, in Afganistan.
Un'immagine simbolo che vale più di ogni discorso.
Se si rileggono le bellicose dichiarazioni pronunciate dai vertici di Washington nel 2001 alla vigilia dell'attacco all'Afganistan e si paragonano con gli ultimi discorsi degli stessi vertici politico-militari statunitensi, non si può non cogliere la rilevanza del naufragio della strategia Usa, dopo ben 7 anni di conflitto.
Ecco qualche esempio.
Era il 15 settembre 2001 e Bush dichiarava: "La guerra sarà lunga, distruggeremo i barbari (…) Coloro che dichiarano guerra agli Stati Uniti scelgono di essere distrutti"; il giorno seguente il vicepresidente Dick Cheney rincarava la dose "Il mio messaggio al nemico è: voi non sapete in che conflitto vi siete cacciati".
Ben presto però il governo Bush cercò di censurare le fotografie delle bare dei caduti provenienti dal fronte e il numero ufficiale delle perdite è sempre apparso sottostimato al fine, evidente, di non produrre traumi e lacerazioni nel consenso verso la guerra globale contro il terrorismo. Una guerra che ormai è, limitandosi alle ammissioni dei comandi militari, costata la vita a quasi cinque mila soldati statunitensi morti in Afganistan e Iraq.

ERRORI ED ORRORI
Negli ultimi mesi il numero dei caduti tra le truppe Usa in Afganistan ha persino superato quello delle perdite in Iraq dove è impiegato un ben più rilevante numero di soldati; secondo stime degli stessi militari la capacità d'attacco della guerriglia è aumentata del 30% in un anno.
Anche il segretario di stato Rice ora ammette che sono stati commessi degli "errori", mentre Bush continua a ripetere che "la lotta contro le forze estremiste è la grande battaglia ideologica della nostra epoca", chiedendo con urgenza ulteriori rinforzi (almeno 3.200 unità) alla Nato.
Il ministro della difesa Usa, Robert Gates, ha recentemente accusato "gli alleati che non combattono", avvertendo che è "in gioco la stessa Alleanza Atlantica".
Ancora una volta al centro del contendere vi è la questione delle diverse regole d'ingaggio, i cosiddetti caveat coperti dal segreto militare, adottate dalle truppe Usa e Nato.
La realtà ormai non è più dissimulabile: quella che era stata propagandata come una rapida vittoria ha assunto tutte le caratteristiche di una sconfitta: nonostante i continui e pesanti bombardamenti, i circa 45.600 militari Usa e Nato che supportano l'esercito nazionale afgano in formazione (con appena 50 mila effettivi) non sono in grado di contenere la guerriglia filotalebana che, progressivamente, è andata saldandosi con una diffusa insorgenza contro l'occupazione straniera ritenuta responsabile di continue incursioni aeree e rappresaglie ai danni della popolazione civile.
Secondo le stime ufficiali del Comando Regionale Sud i combattenti talebani non sarebbero più di 10 mila: una cifra assolutamente ridicola che contrasta in modo clamoroso con le difficoltà incontrate sul campo da circa 100 mila soldati, governativi e Nato, incapaci di mantenere il controllo in quasi tutte le province (secondo un recente rapporto dell'organizzazione canadese Sensil Council le forze talebane controllerebbero almeno il 54% del territorio).
Per non parlare degli scomparsi, delle torture, delle detenzioni illegali sovente appaltate ai mercenari delle compagnie private al soldo del governo statunitense.
Rinforzi di uomini e armi giungono ai diversi gruppi d'insorti attraverso le frontiere e, in particolare, dal vicino Pakistan il cui regime alleato di Washington si trova a sua volta ad affrontare una guerra civile interna alimentata dalle forze islamiste più radicali.
Di fronte alla gravità della situazione che ricorda l'incubo in cui si trovò l'occupazione militare sovietica negli anni Ottanta, anche gli stessi comandi Usa stanno trattando, in vista della fine dell'inverno, oltre che con i vari poteri clanici legati al narcotraffico, pure con i capi tribali pashtun che nell'area confinaria nord-occidentale col Pakistan offrono sostegno e rifugio ai guerriglieri talebani e ai volontari islamici che la propaganda vuole immancabilmente collegati ad Al Qaeda. Conquistare, infatti, almeno la loro parziale neutralità, significherebbe per le forze Usa assicurarsi l'agibilità della principale via di collegamento, dato che proprio dal Pakistan giunge circa l'80% dei rifornimenti via terra per le truppe statunitensi.
L'8 febbraio scorso, fonti dell'amministrazione Bush sono tornate a sostenere che il mullah Omar e altri dirigenti talebani hanno il loro quartiere generale nella città pakistana di Quetta e che lo stesso Bin Laden si troverebbe ancora asserragliato con i suoi combattenti nelle aree tribali sulla frontiera; lo scopo di tale dichiarazioni appare abbastanza chiaro e serve ad aprire la strada ad ulteriori azioni militari USA anche in territorio pakistano, nonostante la contrarietà del presidente Musharraf preoccupato dalle conseguenze, sia sulle elezioni che per l'ordine interno, di una tale escalation.

UNA MORTALE RICOSTRUZIONE
A conferma della sconfitta politico-militare, vi è pure il sostanziale fallimento della strategia dell'Isaf-Nato che, alle operazioni antiguerriglia, intendeva unire una ricostruzione - beninteso armata - affidata ai 25 Prt (Provincial Reconstruction Team), composti da squadre militari affiancate a personale civile delle Ong e contractor delle imprese incaricate della riattivazione delle strutture civili quali ponti, strade, scuole, ospedali.
Il carattere "ambiguo" di questi team, ha finito per rendere degli obiettivi militari anche le componenti civili e persino umanitarie legate ad Ong che hanno accettato tale ruolo in un contesto che rimane quello di un'occupazione militare che quotidianamente semina lutti tra i civili e produce il dramma rappresentato da ondate di profughi che cercano di sfuggire alla guerra.
Dalle stesse basi dove sono dislocati i Prt partono infatti pure i reparti speciali che, con le loro incursioni, lasciano una scia di sangue e terrore nei poveri villaggi afgani. Così come successo nello scorso dicembre nel villaggio di Toube, nel distretto meridionale di Garmisr, quando un reparto speciale elitrasportato nottetempo, composto da militari di nazionalità non identificata e governativi, ha sterminato nelle loro case diciotto abitanti, compresi alcuni bambini ancora in culla. I comandi militari che non hanno potuto negare l'accaduto, l'hanno definito "un incidente" annunciando di aver aperto un'indagine il cui esito è largamente prevedibile.

IL FRONTE ITALIANO
L'ultimo caduto italiano - un maresciallo facente parte dell'unità specialistica Cimic (Civil-military co-operation) della Nato - nell'area di Kabul ha fatto tornare all'attenzione, giusto il tempo dei funerali di stato, la partecipazione delle forze armate italiane alla missione Isaf-Nato di cui persino la consistenza numerica appare avvolta dal segreto militare, per non parlare delle azioni e dei combattimenti sostenuti dai reparti speciali. Tale reticenza si riscontra pure riguardo il numero delle truppe italiane dislocate tra Kabul ed Herat; secondo fonti del ministero della difesa, all'11 febbraio, assommavano a 2.370 effettivi ma secondo l'Isaf Pacemat, documento della Nato a Kabul, al 6 febbraio erano 2.880. Secondo alcune indiscrezioni, riportate da Peacereporte, tale numero sarebbe comunque destinato a salire entro breve tempo, arrivando a 3.000 unità, ossia il tetto massimo raggiunto nel 2003 all'inizio dell'intervento italiano.
Penoso e quasi ridicolo il commento, dopo quest'ultimo attacco - peraltro non precisato - contro i militari italiani, del generale Bonato, comandante del contingente Isaf-Nato a Kabul, secondo il quale: "Ci colpiscono perché si sentono franare la terra sotto i piedi (…) ogni attentato contro l'Isaf rappresenta il segnale della disperazione crescente tra i nemici della pacificazione dell'Afganistan".
Intanto il 20 febbraio, nel parlamento italiano viene votata la conversione in legge del decreto approvato lo scorso 28 gennaio dal governo appena dimissionato, per il rifinanziamento di tutte le missioni militari all'estero (27 in 20 teatri operativi), compresa quella in Afganistan; quindi il decreto dovrà essere approvato in Senato, dove prevedibilmente raccoglierà anche i voti favorevoli del centrodestra. Incomprensibile invece l'atteggiamento dei partiti che ora formano la Sinistra-Arcobaleno ancora una volta connotato dall'ambiguità; secondo alcuni esponenti stavolta (tanto ora il governo è caduto…) potrebbero votare contro, ma poiché nel decreto le missioni risultano accorpate, vorrebbero poter esprimere il loro dissenso sulla missione in Afganistan ma pure il loro sostegno a quella in Libano.
Tali trasformismi appaiono per quello che sono agli occhi di tutti coloro che da anni continuano ad opporsi, con coerenza, alla immutata politica interventista dei governi italiani.

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