La foto premiata dall'associazione World Press Photo, come la migliore
dell'anno è stata scattata da Tim Hethering che ha documentato
la disperazione di un marine americano in un bunker nella Korengal
valley, in Afganistan.
Un'immagine simbolo che vale più di ogni discorso.
Se si rileggono le bellicose dichiarazioni pronunciate dai vertici di
Washington nel 2001 alla vigilia dell'attacco all'Afganistan e si
paragonano con gli ultimi discorsi degli stessi vertici
politico-militari statunitensi, non si può non cogliere la
rilevanza del naufragio della strategia Usa, dopo ben 7 anni di
conflitto.
Ecco qualche esempio.
Era il 15 settembre 2001 e Bush dichiarava: "La guerra sarà
lunga, distruggeremo i barbari (…) Coloro che dichiarano guerra agli
Stati Uniti scelgono di essere distrutti"; il giorno seguente il
vicepresidente Dick Cheney rincarava la dose "Il mio messaggio al
nemico è: voi non sapete in che conflitto vi siete cacciati".
Ben presto però il governo Bush cercò di censurare le
fotografie delle bare dei caduti provenienti dal fronte e il numero
ufficiale delle perdite è sempre apparso sottostimato al fine,
evidente, di non produrre traumi e lacerazioni nel consenso verso la
guerra globale contro il terrorismo. Una guerra che ormai è,
limitandosi alle ammissioni dei comandi militari, costata la vita a
quasi cinque mila soldati statunitensi morti in Afganistan e Iraq.
ERRORI ED ORRORI
Negli ultimi mesi il numero dei caduti tra le truppe Usa in Afganistan
ha persino superato quello delle perdite in Iraq dove è
impiegato un ben più rilevante numero di soldati; secondo stime
degli stessi militari la capacità d'attacco della guerriglia
è aumentata del 30% in un anno.
Anche il segretario di stato Rice ora ammette che sono stati commessi
degli "errori", mentre Bush continua a ripetere che "la lotta contro le
forze estremiste è la grande battaglia ideologica della nostra
epoca", chiedendo con urgenza ulteriori rinforzi (almeno 3.200
unità) alla Nato.
Il ministro della difesa Usa, Robert Gates, ha recentemente accusato
"gli alleati che non combattono", avvertendo che è "in gioco la
stessa Alleanza Atlantica".
Ancora una volta al centro del contendere vi è la questione
delle diverse regole d'ingaggio, i cosiddetti caveat coperti dal
segreto militare, adottate dalle truppe Usa e Nato.
La realtà ormai non è più dissimulabile: quella
che era stata propagandata come una rapida vittoria ha assunto tutte le
caratteristiche di una sconfitta: nonostante i continui e pesanti
bombardamenti, i circa 45.600 militari Usa e Nato che supportano
l'esercito nazionale afgano in formazione (con appena 50 mila
effettivi) non sono in grado di contenere la guerriglia filotalebana
che, progressivamente, è andata saldandosi con una diffusa
insorgenza contro l'occupazione straniera ritenuta responsabile di
continue incursioni aeree e rappresaglie ai danni della popolazione
civile.
Secondo le stime ufficiali del Comando Regionale Sud i combattenti
talebani non sarebbero più di 10 mila: una cifra assolutamente
ridicola che contrasta in modo clamoroso con le difficoltà
incontrate sul campo da circa 100 mila soldati, governativi e Nato,
incapaci di mantenere il controllo in quasi tutte le province (secondo
un recente rapporto dell'organizzazione canadese Sensil Council le
forze talebane controllerebbero almeno il 54% del territorio).
Per non parlare degli scomparsi, delle torture, delle detenzioni
illegali sovente appaltate ai mercenari delle compagnie private al
soldo del governo statunitense.
Rinforzi di uomini e armi giungono ai diversi gruppi d'insorti
attraverso le frontiere e, in particolare, dal vicino Pakistan il cui
regime alleato di Washington si trova a sua volta ad affrontare una
guerra civile interna alimentata dalle forze islamiste più
radicali.
Di fronte alla gravità della situazione che ricorda l'incubo in
cui si trovò l'occupazione militare sovietica negli anni
Ottanta, anche gli stessi comandi Usa stanno trattando, in vista della
fine dell'inverno, oltre che con i vari poteri clanici legati al
narcotraffico, pure con i capi tribali pashtun che nell'area confinaria
nord-occidentale col Pakistan offrono sostegno e rifugio ai
guerriglieri talebani e ai volontari islamici che la propaganda vuole
immancabilmente collegati ad Al Qaeda. Conquistare, infatti, almeno la
loro parziale neutralità, significherebbe per le forze Usa
assicurarsi l'agibilità della principale via di collegamento,
dato che proprio dal Pakistan giunge circa l'80% dei rifornimenti via
terra per le truppe statunitensi.
L'8 febbraio scorso, fonti dell'amministrazione Bush sono tornate a
sostenere che il mullah Omar e altri dirigenti talebani hanno il loro
quartiere generale nella città pakistana di Quetta e che lo
stesso Bin Laden si troverebbe ancora asserragliato con i suoi
combattenti nelle aree tribali sulla frontiera; lo scopo di tale
dichiarazioni appare abbastanza chiaro e serve ad aprire la strada ad
ulteriori azioni militari USA anche in territorio pakistano, nonostante
la contrarietà del presidente Musharraf preoccupato dalle
conseguenze, sia sulle elezioni che per l'ordine interno, di una tale
escalation.
UNA MORTALE RICOSTRUZIONE
A conferma della sconfitta politico-militare, vi è pure il
sostanziale fallimento della strategia dell'Isaf-Nato che, alle
operazioni antiguerriglia, intendeva unire una ricostruzione -
beninteso armata - affidata ai 25 Prt (Provincial Reconstruction Team),
composti da squadre militari affiancate a personale civile delle Ong e
contractor delle imprese incaricate della riattivazione delle strutture
civili quali ponti, strade, scuole, ospedali.
Il carattere "ambiguo" di questi team, ha finito per rendere degli
obiettivi militari anche le componenti civili e persino umanitarie
legate ad Ong che hanno accettato tale ruolo in un contesto che rimane
quello di un'occupazione militare che quotidianamente semina lutti tra
i civili e produce il dramma rappresentato da ondate di profughi che
cercano di sfuggire alla guerra.
Dalle stesse basi dove sono dislocati i Prt partono infatti pure i
reparti speciali che, con le loro incursioni, lasciano una scia di
sangue e terrore nei poveri villaggi afgani. Così come successo
nello scorso dicembre nel villaggio di Toube, nel distretto meridionale
di Garmisr, quando un reparto speciale elitrasportato nottetempo,
composto da militari di nazionalità non identificata e
governativi, ha sterminato nelle loro case diciotto abitanti, compresi
alcuni bambini ancora in culla. I comandi militari che non hanno potuto
negare l'accaduto, l'hanno definito "un incidente" annunciando di aver
aperto un'indagine il cui esito è largamente prevedibile.
IL FRONTE ITALIANO
L'ultimo caduto italiano - un maresciallo facente parte
dell'unità specialistica Cimic (Civil-military co-operation)
della Nato - nell'area di Kabul ha fatto tornare all'attenzione, giusto
il tempo dei funerali di stato, la partecipazione delle forze armate
italiane alla missione Isaf-Nato di cui persino la consistenza numerica
appare avvolta dal segreto militare, per non parlare delle azioni e dei
combattimenti sostenuti dai reparti speciali. Tale reticenza si
riscontra pure riguardo il numero delle truppe italiane dislocate tra
Kabul ed Herat; secondo fonti del ministero della difesa, all'11
febbraio, assommavano a 2.370 effettivi ma secondo l'Isaf Pacemat,
documento della Nato a Kabul, al 6 febbraio erano 2.880. Secondo alcune
indiscrezioni, riportate da Peacereporte, tale numero sarebbe comunque
destinato a salire entro breve tempo, arrivando a 3.000 unità,
ossia il tetto massimo raggiunto nel 2003 all'inizio dell'intervento
italiano.
Penoso e quasi ridicolo il commento, dopo quest'ultimo attacco -
peraltro non precisato - contro i militari italiani, del generale
Bonato, comandante del contingente Isaf-Nato a Kabul, secondo il quale:
"Ci colpiscono perché si sentono franare la terra sotto i piedi
(…) ogni attentato contro l'Isaf rappresenta il segnale della
disperazione crescente tra i nemici della pacificazione
dell'Afganistan".
Intanto il 20 febbraio, nel parlamento italiano viene votata la
conversione in legge del decreto approvato lo scorso 28 gennaio dal
governo appena dimissionato, per il rifinanziamento di tutte le
missioni militari all'estero (27 in 20 teatri operativi), compresa
quella in Afganistan; quindi il decreto dovrà essere approvato
in Senato, dove prevedibilmente raccoglierà anche i voti
favorevoli del centrodestra. Incomprensibile invece l'atteggiamento dei
partiti che ora formano la Sinistra-Arcobaleno ancora una volta
connotato dall'ambiguità; secondo alcuni esponenti stavolta
(tanto ora il governo è caduto…) potrebbero votare contro, ma
poiché nel decreto le missioni risultano accorpate, vorrebbero
poter esprimere il loro dissenso sulla missione in Afganistan ma pure
il loro sostegno a quella in Libano.
Tali trasformismi appaiono per quello che sono agli occhi di tutti
coloro che da anni continuano ad opporsi, con coerenza, alla immutata
politica interventista dei governi italiani.
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