Ricordavo, due numeri fa, quali fossero stati, negli anni precedenti
l'esplosione del Sessantotto, gli elementi di carattere politico e
sociale che a mio parere avevano più influenzato, e di
conseguenza formato, la generazione che avrebbe dato vita alla stagione
della "contestazione globale": la distensione fra i due blocchi, la
rivoluzione cubana, la guerra del Vietnam, le trasformazioni della
chiesa, la nascita del centrosinistra, la riaffermazione
dell'antifascismo, le prime esplosioni del proletariato giovanile. Una
serie di spinte e di impulsi che facevano intravedere, pur nella loro
diversità, la possibilità di un cambiamento reale in una
società apparentemente statica e immutabile. Un cambiamento che
avrebbe potuto coinvolgere non solo il panorama sociale nella sua
dimensione collettiva ma anche, e con altrettanta rilevanza, la vita
individuale di ciascuno.
A fianco di questa possibilità di trasformazione, che pur
mostrando novità sostanziali appariva comunque condizionata
dalle dinamiche politiche di cui era espressione, calata dall'alto e
indifferente a un intervento dal basso, si assisté, in quegli
anni, a una vera e propria "rivoluzione culturale", per certi aspetti
simile, anche se meno ideologica, a quella cinese ma non meno
importante e, anzi, di più lunga durata. Una rivoluzione che
vide la partecipazione attiva soltanto di una minoranza, anche se
consistente, di giovani, ma che condizionò e interessò,
nelle sue forme espressive, fossero anche le più banali e
"neutre", tutta intera quella generazione.
Questa generazione, la "mia" generazione, non avrebbe certamente
partecipato nella sua totalità alle lotte degli anni successivi,
né quel rivolgimento culturale avrebbe prodotto effetti identici
e identiche conseguenze in tutti i giovani che ne furono lambiti.
Eppure, se il movimento del 68, che non fu certamente di massa (erano
minoranze molto attive, ma pur sempre minoranze quelle che si
muovevano) ebbe la risonanza, l'importanza, il seguito che sappiamo,
questo va spiegato con il fatto che i giovani che allora si dettero
anima e corpo all'impegno politico e sociale si muovevano in un
contesto fortemente solidale e simpatetico, toccato dalle stesse
istanze di cambiamento. Il Movimento studentesco, in questo senso, fu
infatti solo la manifestazione visibile della punta dell'iceberg che
ormai rappresentava quasi tutto l'universo giovanile. E la sua forza e
il suo sostanziale successo furono diretta conseguenza della
capacità, ma soprattutto della possibilità, di muoversi –
per usare un'espressione allora famosa - come pesci nell'acqua. Ecco
perché, anche se la militanza propriamente detta
interessò solo parte dei giovani, le trasformazioni culturali e
sociali, più ancora di quelle politiche, che produsse,
riguardarono tutta, ma proprio tutta la società.
Nel 1963 cominciano ad arrivare in Italia certe notizie
dall'Inghilterra. Per chi le sa cogliere, assolutamente sorprendenti.
Bande giovanili che se le menano di santa ragione senza apparente
motivo, i vestiti strani e fantasiosi dei Mods e dei Rokers, centinaia
di motociclisti che si muovono in gruppo per "assalire" le tranquille
cittadine costiere affacciate sulla Manica, e poi canzoni dal ritmo
nuovo e trascinante cantate da giovanotti con i capelli un po'
più lunghi del solito. Naturalmente la stampa descrive
inorridita queste barbare stranezze albioniche – "in Italia queste cose
non possono succedere" – e in effetti sono ancora pochissimi quelli che
cominciano a incuriosirsi e a pensare di andare a scuola senza
più la cravatta. In Italia si cominciano a cantare, ma solo di
nascosto, La canzone di Marinella, La guerra di Piero e Re Carlo
ritorna dalla guerra. Dischi semiclandestini e irriverenti, che passano
di mano con fare cospirativo perché il linguaggio ufficiale
definisce "mondana" la prostituta e la parola "puttana" è
assolutamente impronunciabile. Sono le prime canzoni, se non ricordo
male, che segnano la rottura con il mondo di Claudio Villa e Wilma de
Angelis. E che creano le prime crepe nel perbenismo nel quale tutti
affoghiamo. Si comincia a mettere in discussione l'autorità.
Fosse anche solo quella della canzone melodica, ma intanto si comincia.
Accanto a questa piccola rivoluzione che corre sulle note di De
André e dei Beatles, iniziano a farsi largo le prime ribellioni
nei confronti del soffocante ingessamento nel quale la gioventù
è mantenuta. Il mondo appartiene agli adulti e le sue regole
sono intoccabili, l'informazione passa, a parte quella ristretta degli
organi di partito, per i giornali padronali, i rotocalchi e i
fotoromanzi; alla televisione c'è un solo telegiornale, quello
ormai storico delle Venti, con il mitico Paladini che legge le veline
vaticane e governative. Non è che sia cambiato granché,
si potrebbe dire, ma allora non c'era possibilità di scelta.
Un poco alla volta, la piccola valanga che si è messa in moto in
modo autonomo, prosegue la corsa e viene a interessare tutto il mondo
giovanile. A furia di sentir dire che i capelloni nordeuropei sono
barbari ed equivoci, scatta un salutare principio di emulazione e anche
in Italia si cominciano a vedere capelli che coprono la parte superiore
delle orecchie – eravamo ancora abbastanza moderati - e camicie un po'
più fantasiose di quelle bianche d'ordinanza. La
sacralità dell'informazione paludata mostra le prime crepe, e il
verbo dettato dal telegiornale – entità suprema fino ad allora
assoluta e intoccabile - trova i suoi primi sbeffeggiatori. Oggi
potrà sembrare strano, ma il contributo di giornali come
«L'Espresso» e «Il Giorno», ebbe una parte
importante nella nostra educazione: anche solo mettere in dubbio, che
so?, che i capelloni non fossero necessariamente degli "invertiti", o
come titolavano i giornalacci popolari, froci e finocchi, pareva
davvero una gran cosa. Sempre più il principio di
autorità comincia a perdere la sua aura di sacralità e
l'immodificabile ordine costituito che garantiva la civile convivenza
si trova costretto a subire critiche sempre più aperte e
pertinenti.
Per la prima volta, direi, si parla di conflitto generazionale. Di
fronte a quello che comincia ad essere un distacco sempre più
accentuato dai valori comportamentali e dalle regole del mondo degli
adulti, ovvero del mondo del potere, la parte più avvertita e
meno sordidamente reazionaria della società cerca di comprendere
le ragioni di questo conflitto, e stranamente non sempre per
ricomporlo. Se da parte della destra e del potere cattolico
democristiano c'è un rigetto totale e privo di aperture, da
parte della sinistra, più quella socialista o libertaria che non
quella comunista, si tenta di comprendere con più intelligenza
quello che sta avvenendo, perché non tutto deve necessariamente
essere condannato o stigmatizzato. Del resto, come sempre, c'è
anche un legittimo gioco delle parti: se la destra condanna, la
sinistra deve assolvere, o per lo meno interpretare con le armi della
ragione, e l'isterica reazione dei fascisti più o meno
dichiarati – come dimenticare le periodiche spedizioni punitive dei
giovani "nazionali" contro i bivacchi dei capelloni nelle grandi
città? – comporta sempre più spesso una sincera posizione
antisquadrista.
Tanto più che quella che inizialmente era una avanguardia
minoritaria e marginalizzata, presente e visibile solo nelle grandi
città – com'era difficile farsi crescere i capelli o mettere un
paio di jeans colorati nei paesi e nelle cittadine di provincia! – con
il diffondersi e l'espandersi sempre più pronunciato dei nuovi
valori e relativi comportamenti, comincia a diventare un fenomeno
sempre più esteso e presente. Se le dure e dissacranti canzoni
dei Rokes, dei Nomadi, dei Corvi, sono ormai la principale colonna
sonora di tutta quella generazione, gli aspetti più esteriori e
"scandalosi", che si esprimono con una moda fortemente trasgressiva o
con comportamenti comunitari e socializzanti assolutamente impensabili
fino a poco tempo prima – la famosa "promiscuità" ispirata alle
comunità hippy americane e incessantemente denunciata da una
inorridita borghesia perbenista e ipocrita – appaiono sempre meno
provocatori o immorali e cominciano ad essere interpretati per quello
che sono effettivamente: una sfida aperta e dichiarata, consapevole e
propositiva, a un sistema costrittivo che non intende concedere nulla
alla libertà espressiva e di pensiero di chi vuole "restare
fuori". La generosissima calata in massa di capelloni, anarchici,
pacifisti, antimilitaristi, cattolici del dissenso, appartenenti alle
organizzazioni giovanili di partito, di giovani provenienti da
tutt'Italia per dare fattiva e spontanea solidarietà alla
popolazione fiorentina colpita dall'alluvione – quelli che
retoricamente saranno chiamati "angeli del fango" – sarà una
sorta di sdoganamento, di accettazione, talvolta sincera, tal'altra un
po' ipocrita, di questa nuova realtà giovanile. Che anche se si
muove in modo autonomo, slegato, antiautoritario e libertario, dimostra
comunque di avere valori veri e condivisibili. Cose che noi,
ovviamente, sapevamo bene, ma che per la controparte fu davvero una
grossa sorpresa. E in taluni casi anche un bel rospo da ingoiare!
Progressivamente, e come era inevitabile in simili situazioni,
l'istintivo antiautoritarismo manifestato ancora da pochi e in modo, se
vogliamo, abbastanza primitivo, comincia a modificarsi e a prendere
forma. Se prima il rifiuto dell'autorità si esplicava in forme
poco organizzate – con l'eccezione dei primissimi fogli come Onda verde
o Mondo Beat – e soprattutto non lasciava scorgere prospettive di
cambiamento davvero collettive, condannando, anzi, a una sorta di
isolamento dovuto all'oggettivo "estremismo" comportamentale, ora
inizia una nuova fase. Quando i giovani più consapevoli e
sfiorati da questa fresca ventata di libertà, cominciano a
vedere la possibilità di intervenire in modo fattuale nei
rapporti sociali per modificarli e sottrarli alla pesante cappa di una
autorità sempre meno legittima e necessaria. Le prime
occupazioni all'università, ancora nel 1967, non vedono
sicuramente una alleanza fra i futuri contestatori e il mondo beat, ma
queste due culture, la prima ancora in formazione e la seconda ormai
"vecchia" di alcuni anni, non potranno non incontrarsi e contaminarsi
reciprocamente. Ma questo è il Sessantotto, e ne parleremo
un'altra volta.
Massimo Ortalli