Il 17 febbraio è nato un nuovo Stato dalle ceneri dell'antica
Jugoslavia. Il neo presidente kosovaro, già capo della armata
dell'UCK, ha proclamato al mondo intero che il suo territorio e il suo
popolo hanno raggiunto la secolare aspirazione all'indipendenza.
Manifestazioni di giubilo nella nuova capitale, Pristina, e contro
manifestazioni di protesta nella capitale serba Belgrado, privata di
una regione ritenuta la culla della propria identità nazionale.
È logico e prevedibile che i due poteri, albanese e serbo,
mobilitino le masse per celebrare, in modo contrapposto, un evento
storico e giuridico di notevole rilievo e non solo per il Kosovo e la
Serbia. Sarebbe più interessante andare oltre le quinte
televisive e vedere gli interessi in gioco di tutti i gruppi
protagonisti. Qui ci limiteremo ai più evidenti.
I dirigenti kosovari, reduci da una lotta armata finanziata senza
infingimenti dagli Stati Uniti e dalle proprie attività di
traffici mafiosi (armi, droga, organi umani,…), si presentano sulla
scena internazionale come gli eredi delle vittime della pulizia etnica
serba del 1999. La pulizia etnica, dato reale e non inventato, sarebbe
stata fermata dalla "guerra umanitaria" (inverecondo ossimoro!) dei
bombardamenti USA e dei suoi alleati tra i quali il governo italiano
guidato dal fine Massimo D'Alema (animo sensibile che di recente ha
sostenuto la moratoria sulla pena di morte…).
Nel giro di nove anni gli ex guerriglieri hanno negato ogni tentativo
di compromesso, avviato da più parti, per la tutela della
minoranza serba in territorio albanese. Alla fine, forti dell'appoggio
USA e dei principali stati europei, hanno raggiunto il proprio
obiettivo politico e istituzionale. Altro tema sarebbe quello di una
vera autonomia. Infatti non è un caso che i manifestanti
kosovari sventolassero bandiere americane cucite insieme alle loro.
Senza la visita di Bush nella grandissima base americana di Bondsteel,
e la dichiarazione pubblica fatta in mezzo ai soldati di riconoscimento
anticipato, l'accelerazione del processo di "indipendenza" non ci
sarebbe stata. Ora, se davvero vogliono l'indipendenza, i kosovari
dovrebbero porsi il problema della nuova stretta, indissolubile e
assoluta subordinazione alla potenza nordamericana. È troppo
facile prevedere che tale movimento di indipendenza dovrà
aspettare molto tempo, se mai qualcuno lo volesse.
I dirigenti serbi, a loro volta reduci da una progressiva umiliazione
giuridica e militare a livello internazionale, hanno usato la carta
dell'orgoglio nazionale per far dimenticare le responsabilità
del predecessore Slobodan Milosevic. Costui riteneva di poter imporre
un forte controllo culturale e politico sui kosovari, colpevoli di
vivere nelle zone dove sarebbe nata (più di 600 anni fa!) la
nazione serba con i suoi monumenti religiosi e i suoi martiri. Con
queste motivazioni i nazionalisti serbi, sia comunisti che reazionari,
hanno negato per decenni i diritti elementari agli abitanti del Kosovo
e in questo modo hanno pure eliminato l'espressione pacifista e
tollerante del movimento di Ibrahim Rugova. Alle proteste popolari
nonviolente, a partire dagli anni '80, Belgrado ha risposto con i carri
armati e lo stato d'assedio mostrando ai sostenitori di un'autonomia
graduale e non armata che quella strada non avrebbe avuto la minima
possibilità di successo. Dalla sconfitta della linea non
aggressiva di Rugova, progressivamente emarginato dalla scena dai
rifiuti della controparte, è nata l'invenzione dell'UCK poco
prima della guerra intestina che ha portato alla dissoluzione della
Jugoslavia. Ora le proteste disperate delle masse nazionaliste a
Belgrado e in altre città serbe mostrano come non sia facile
rendersi conto del declino inevitabile della soluzione armata di fronte
ad una forza armata internazionale di molto superiore. Ancora i vertici
serbi alimentano impossibili speranze di riprendere un potere effettivo
sul Kosovo con dichiarazioni che consolano le masse e lasciano
intravedere possibili rivincite con l'appoggio della Grande Madre
Russia. Qui Putin, che ha un forte consenso tra i nazionalisti e i
seguaci della chiesa ortodossa, ha dichiarato solidarietà totale
alla Serbia per rialzare le quotazioni della Russia. Da qualche anno,
l'accorta gestione delle fonti energetiche ne ha aumentato la forza
contrattuale rispetto all'Europa e non solo.
In realtà le mobilitazioni nazionaliste, volute e manovrate dal
governo serbo, rispondono al progetto di deviare il malcontento
popolare per le sempre più misere condizioni di vita (molto
peggiori di quelle nostrane) e per lo sfruttamento intensificato dei
lavoratori nelle fabbriche privatizzate o svendute al capitale
occidentale, verso un comodo obiettivo: il complotto internazionale ai
danni della Serbia! Si applica il vecchio, ma sempre valido, metodo di
indicare i responsabili del disastro materiale e morale in un nemico
esterno, malvagio e spietato. La lotta per la dignità nazionale
dovrebbe favorire il compattamento degli sfruttati con gli sfruttatori
tralasciando le poco patriottiche recriminazioni sulle
responsabilità della crisi dilagante. L'emergenza nazionale
metterebbe in secondo piano i conflitti di classe secondo un copione
largamente sperimentato.
Sullo sfondo della nuova crisi balcanica, i vertici militari e politici
degli Stati Uniti confermano l'utilità della realizzazione sul
territorio kosovaro della più grande base europea che, stando a
quanto pubblicato dai giornali, sarebbe una delle due opere umane
più visibili dallo spazio. Insieme alla Grande Muraglia cinese,
i 400 ettari occupati dai militari USA nel cuore dell'"indipendente"
Kosovo emergerebbero nella fotografia del globo scattata
dall'atmosfera. Qui ci sarebbe anche una delle più grandi fonti
di reddito per gli albanesi kosovari, i cui giovani sono per
metà disoccupati: 7.000 posti di lavoro.
Un altro grande boccone è costituito dalla ricca e polivalente
miniera di Trepca da cui si ricavano preziosi minerali dal cadmio al
nichel, dallo zinco al piombo, per non parlare della probabile presenza
di uranio. Ai tempi di Tito vi lavoravano 15.000 minatori e la fonderia
connessa era tra le prime del mondo. La grande ricchezza passò
poi all'entourage economico e politico dei Milosevic fino alla sua
dissoluzione.
Trepca ora è controllata dai militari francesi e inglesi sotto
l'egida dell'ONU. Guarda caso: proprio imprese francesi e inglesi sono
interessate a sfruttare tali risorse. Inoltre il controllo militare
inglese si effettua sulla centrale termoelettrica di Obilic mentre i
disinteressati e benefattori soldati italiani si trovano attorno a Pec,
vicino alla fabbrica Iveco-Zastava, una joint venture metalmeccanica. I
tedeschi invece sono allocati a Pristina dove vi è un'importante
industria della gomma. Non vi ricorda qualcosa, magari già
studiato a scuola come esempio di colonialismo?
Si potrebbe pensare che ai potenti di Belgrado che protestano per la
perdita della "culla serba", più delle basiliche ortodosse
interessino le ricche proprietà abbandonate durante i
bombardamenti NATO del 1999 e mai più restituite.
Una rappresentanza dell'imprenditorialità del dinamico Nord Est,
dal settore dei vini a quello dei mobili, si trova a sud di Pristina e
sta compiendo grandi investimenti. Da parte sua, la Regione Friuli
Venezia Giulia, regno dell'industriale Riccardo Illy, con il suo
assessorato alle Relazioni Internazionali, è impegnata a "dare
un contributo al rafforzamento delle istituzioni democratiche" in
quanto "elemento di garanzia e supporto della presenza dei nostri
operatori economici in Kosovo". Il cerchio sembra chiudersi con la
recentissima missione dell'Unione Europea, votata da tutti i 27 paesi,
denominata Eulex, che dovrebbe aiutare le istituzioni del nuovo Stato a
conformarsi ai modelli di magistratura e di polizia più solidi a
livello europeo. Anche la Spagna, che non ha riconosciuto il nuovo
Stato per non alimentare le speranze basche e catalane, è
presente in Eulex con propri funzionari. Lo dovrebbero ricordare i
manifestanti serbi che hanno cucito insieme i vessilli propri e quello
spagnolo.
Il quadro, come può apparire ad un'analisi non del tutto
schematica, è veramente molto più complesso di uno
scontro tra musulmani e ortodossi o tra etnie da secoli in conflitto e,
in fin dei conti, alquanto "arretrate". Oltre il velo dei nazionalismi
si intravedono precisi interessi consolidati: profitti e militarismo
vanno a braccetto ancora una volta. E la neodipendenza di un popolo
illuso di aver conquistato una sofferta libertà farà
prestissimo i conti con i progetti di spremerne le energie e le risorse
naturali in nome del progresso e, negli ultimi anni, dell'ingresso
nella libera e democratica comunità europea.
Claudio Venza