La campagna elettorale da poco iniziata sta fornendo, a nostro avviso,
un ritratto assai preoccupante del quadro politico e istituzionale del
nostro paese. Sarebbe sufficiente pensare al pretesto con cui il
governo Prodi sia effettivamente caduto (dimissioni del ministro
Mastella e conseguente ritiro dell'Udeur dalla maggioranza governativa
come rappresaglia alle indagini a carico della signora Mastella,
presidente del consiglio regionale campano) per comprendere l'infimo
livello etico e politico raggiunto dalla classe dirigente italiana che
oggi si ripropone agli elettori per governare un paese sotto molti
aspetti ormai allo stremo. Ma a giudicare dai lineamenti assunti negli
ultimi mesi dal panorama partitico e istituzionale, abbiamo ragione di
credere che qualcosa è davvero cambiato e, se mai fosse
possibile, addirittura in peggio.
Ci siamo già espressi sul Partito democratico, su Veltroni e
sull'operazione sottesa alla nascita di questo mostro politico, frutto
dell'unione malsana tra il peggio della cultura democristiana e il
peggio della cultura comunista del defunto Pci. Ma se fino a qualche
tempo fa il Pd si era spacciato come nuova forza propulsiva all'interno
della ben conosciuta cornice del Centrosinistra intesa come alleanza
politico-elettorale, il piccolo terremoto politico successivo alla
caduta del governo ha svelato gli inquietanti propositi autoritari di
questo partito che, a partire dallo sterile dibattito sulla
necessità della riforma della legge elettorale per cambiare il
volto istituzionale del paese, si candida come unico referente non solo
e non tanto del classico elettorato di Centrosinistra ma, soprattutto,
come soggetto rappresentativo degli interessi dell'elettorato di centro
e, addirittura, di quello di destra. Non è quindi casuale che il
Pd stia orgogliosamente candidando tra le proprie file tutto e il
contrario di tutto: dall'operaio della Thyssenkrupp al presidente di
Federmeccanica, dal prefetto Serra al generale Del Vecchio, a
dimostrazione della volontà di superare – con un'attitudine
corporativa ed egemonica – gli steccati culturali e politici che pur
esistevano tra destra, centro e sinistra, tra conservatorismo e
riformismo, tra progresso e reazione. Veltroni è stato chiaro:
il Pd non si riconosce nella lotta di classe né può
più considerarsi un partito di sinistra, perché non
c'è più bisogno di distinguere in questo senso. L'unica
priorità è voltare pagina, come si legge nei manifesti
elettorali del partito, e – quindi – cambiare il paese. La direzione
del cambiamento può conciliarsi con gli interessi di Veltroni
solo se si tiene presente che tutto lo scontro politico deve ridursi a
due grandi soggetti in gara, il Pd – per l'appunto – e il Popolo della
Libertà di Berlusconi e Fini. Tanto che Veltroni e Berlusconi
sono oggi più che mai uguali e speculari nel loro appello a non
disperdere le preferenze elettorali con il "voto inutile" dato ai
partiti più piccoli, siano essi di destra o di sinistra. Anche
questa posizione ci mette in allarme. Mai, nella storia dell'Italia
repubblicana, una campagna elettorale si era caratterizzata per una
delegittimazione degli avversari giocata su un piano tecnico-politico.
Vale a dire che nel panorama politico della cosiddetta prima
repubblica, non ci si sarebbe mai sognati di dire che un voto al Psdi o
al Pri – giusto per fare un esempio di vecchie formazioni "piccole" –
sarebbe stato un voto inutile o sprecato. La battaglia politica e
ideologica, seppur apparentemente aspra, si combatteva su una comune
condivisione della rappresentanza parlamentare come ambito legittimo
del gioco democratico attraverso le elezioni e la libera espressione
delle differenti opzioni politiche. Tutto questo era possibile non solo
perché la generale caratura della classe dirigente italiana era
senz'altro superiore a quella degli impresentabili politici di oggi, ma
anche in virtù di un sistema elettorale (di tipo proporzionale)
che si confaceva perfettamente al sistema politico e partitico
dell'Italia del dopoguerra. Un pluralismo parlamentarista che garantiva
a tutti piena legittimità e cittadinanza nell'arena politica.
Negli anni a venire, la corsa al bipartitismo (figlia di un proverbiale
provincialismo tutto italiano) ha poi dato origine a un bipolarismo
assolutamente ridicolo, sostenuto da leggi elettorali ibride e mal
congegnate che, in ogni caso, hanno garantito l'esistenza di un
pluralismo che non è soltanto il prodotto di una volontà
di garantire poteri e poltrone, ma è lo specchio di una
tradizionale frammentazione culturale che appartiene al codice genetico
dell'Italia. Oggi, la volontà di imporre un modello
perfettamente bipartitico accomuna Pd e PdL nel tentativo di
egemonizzare la campagna elettorale per veicolare un principio
autoritario e fortemente antidemocratico. D'altra parte, il patto di
ferro tra Berlusconi e Fini – che dovrebbe portare, in prospettiva,
alla piena confluenza di Alleanza nazionale nel nuovo soggetto
politico, a dimostrazione del fatto che i fascisti sono da sempre i
servi sciocchi di ogni potere – offre un esempio indicativo di come la
destra italiana confermi la propria indole autoritaria e populista
incarnata da Berlusconi e Fini, sempre pronti a fornire ricette a base
di sicurezza, controllo sociale, repressione e sostegno alle imprese e
al padronato. Esattamente tutto ciò di cui parla Veltroni nel
suo programma.
Questa identità di vedute tra Pd e PdL su molti temi della
campagna elettorale fa sì che i toni siano in generale meno
virulenti e avvelenati del solito, almeno per il momento. Ma davvero
Veltroni e Berlusconi pensano di poter rappresentare l'intero quadro
politico italiano?
Veniamo ai cosiddetti piccoli, allora. Casini – orfano della Casa delle
Libertà – prosegue la sua interlocuzione con la Rosa bianca di
Pezzotta in un'operazione che ha senz'altro una sua ragion d'essere per
dare vita a un centro democristiano che soddisfi le esigenze di un
elettorato moderato che non si riconosce nel PdL né, tanto meno,
nel Pd. Scorrendo l'arco parlamentare, la Sinistra arcobaleno si
propone come l'ala dura e pura della sinistra cosiddetta radicale,
quella di lotta e di governo, quella che cerca la poltrona e scende in
piazza, quella che è contro le guerre ma vota le missioni
militari, quella che è antirazzista ma istituisce i centri di
permanenza temporanea, e così via. Talmente alternativi a quei
"rinnegati" del Pd che, in Sicilia, ci si sono alleati. Infine, neanche
il tempo di ricomporre quindici anni di diaspora socialista che il
neonato e ricostituito (forse definitivamente) Partito socialista non
sa che pesci prendere: il Pd non li ha voluti tra i piedi e la "cosa
rossa" è per loro improponibile. Correranno da soli ma non si sa
bene dove andranno a finire. Dalla parte opposta, la chincaglieria
fascista de La Destra di Storace e della Fiamma tricolore candida
quella gran signora della Santanchè la quale chiede a gran voce
sicurezza, controllo sociale e repressione un po' come fa la Lega Nord
(che sostiene, fedelissima, Berlusconi) con la variante della
castrazione chimica per i pedofili. Un'opzione che, d'altronde,
Veltroni ha dichiarato di prendere in considerazione, non sia mai che
fallisca il suo tentativo di superare a destra chiunque intralci la sua
corsa al potere. Al momento, ciascuno è libero di diffondere la
propria propaganda, avocando a sé il diritto esclusivo di
rappresentare gli interessi del popolo italiano e, nello specifico, di
intercettare le esigenze di chi si riconosce in una certa visione della
società e dei suoi problemi.
Ma, detto questo, ci pare assai difficile che il Pd o il PdL riescano,
da soli, ad assicurarsi la maggioranza assoluta delle preferenze e
quindi, come nella più consolidata tradizione italiana, è
assai probabile che il dopo-elezioni si caratterizzerà per il
classico balletto delle interlocuzioni, delle alleanze, degli appoggi
esterni o interni, proprio come si faceva nell'Italia del quadripartito
o del pentapartito.
Quello che resta, nell'atmosfera pestifera di questa campagna
elettorale, è l'inquietante sensazione che tutti – da destra a
sinistra – vogliano "mettere ordine" in un paese la cui deriva
economica e sociale è stata causata proprio da loro. Ma sappiamo
bene che quando l'ordine viene agitato in maniera così
insistente e pretestuosa come argomento forte di un dibattito politico
è necessario stare all'erta per controllare le pulsioni
autoritarie che già da tempo battono nel ventre molle del
sistema.
Noi, che siamo da sempre irriducibili e incompatibili a ogni potere e a
ogni gerarchia, non possiamo che riproporre la scelta astensionista
come unica risposta sensata all'orripilante teatrino della politica
istituzionale. Una scelta che resta valida non certo perché le
cose sembrano andare peggio di prima, ma perché rappresenta una
premessa essenziale per un altro modo di concepire i rapporti sociali e
l'organizzazione della vita collettiva e individuale, lontano anni luce
dai trasformismi di Mastella, dall'inquietante autoritarismo di
Veltroni, dalla miseria politica di Berlusconi, dall'insostenibile
ipocrisia di Bertinotti, dalla volgare ottusità di Bossi o dalla
retorica ambiguità di Casini. Bisogna cambiare il paese e
voltare pagina, è vero. Bisogna lottare e non votare.
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