Umanità Nova, n.9 del 9 marzo 2008, anno 88

Fronte del porto. Genova: morti, repressione e sfruttamento


La tragica morte di un lavoratore della CULMV (Fabrizio Cannonero, 39 anni) avvenuta nel porto di Genova nella notte fra giovedì e venerdì scorsi, ha riacceso i riflettori dei mass media (e il peloso "interesse" dei politici) sulla sicurezza e gli incidenti sul lavoro.
A nemmeno un mese dalla tragedia di Marghera (due operai morti asfissiati nella stiva di una nave) e con il ricordo ancora vivo della strage alla ThyssenKrupp registriamo quello che può essere considerato un episodio di ordinaria "normalità" nelle cronache del lavoro, genovese e nazionale.
La cronaca è scarna, come sempre in questi casi: un turno di lavoro notturno, una squadra di camalli impegnata nello scarico di container, un operaio mette un piede in fallo e precipita per una ventina di metri morendo sul colpo. Nessuna misura di sicurezza, né le ringhiere previste, né imbracatura e moschettone. I compagni del lavoratore fermano il lavoro. Sono decise 48 ore di blocco dei valichi del porto. Un corteo si snoda per le vie della città. Lo stesso copione del 14 aprile di un anno fa in occasione della morte di un altro lavoratore portuale (Enrico Formenti) schiacciato da una balla di cellulosa. E per rispettare il copione, ancora il cordoglio dei politici e delle autorità, ancora l'indignazione dei dirigenti sindacali e il coro di quelli che chiedono più rigore nell'applicazione delle misure di sicurezza sul lavoro. Tutto questo lo abbiamo già visto innumerevoli volte e purtroppo dovremo rivederlo in futuro.
Scrivevo qualche tempo fa su UN della funzione mistificatoria della 626 e di tutto l'apparato preposto alla sicurezza sul lavoro e concludevo che: "... le morti e le stragi sul lavoro sono un attributo strutturale dei processi produttivi. Sono implicite e scontate. Sono il prezzo da pagare alla logica del profitto. Non è possibile immaginare lavoro "pulito" in una concezione delle attività produttive esasperata e malsana, dove il lavoratore è semplicemente un attrezzo o, al massimo, un macchinario un po' più complesso, del quale ci si prende cura solo in termini di utilizzo spinto ad esaurimento (o alla rottura), convenienza e facilità di rimpiazzo". Potrei sottoscrivere tutto quello che dicevo allora e riproporlo, sarebbe tristemente appropriato. C'è però, questa volta qualche elemento in più da considerare.
Il primo, forse marginale, è che Genova e la Liguria, nonostante la crisi industriale (e dunque il ridursi delle attività lavorative potenzialmente più pericolose: vedi siderurgia), si mantiene come numero di incidenti e di morti sul lavoro in linea con il livello nazionale (1.022.916 incidenti dal 1976 al 2006 - media 32.998 annui; 1.139 morti in Liguria per lo stesso periodo - media annuale 36,75) e, soprattutto, con il trend generale (nessuna riduzione dei casi dopo l'introduzione della 626) di "normalità" della pericolosità e della mortalità del lavoro.
Il secondo, più specifico, è la natura peculiare della CULMV, la storica cooperativa dei camalli genovesi. Dismessi gli abiti dell'associazionismo operaio storico e la tradizione democratica della sua organizzazione interna (ancora qualche anno fa, la Compagnia promosse un convegno sull'autogestione) la CULMV già da anni è stata trascinata da Batini e dagli altri dirigenti sulla strada dell'imprenditorialità spinta e della concorrenza con i privati. "Bisogna modernissarsi compagni", con questo grido di guerra (che dovete immaginare pronunciato con accento genovese) il buon Paride e i suoi fidi si sono lanciati nella contesa con terminalisti e armatori privati, autorità portuali e amministrazioni locali per arrivare all'attuale spartizione e privatizzazione di banchine e servizi.
Ma se questo percorso ha garantito alla compagnia un buon livello di sopravvivenza, che ne è stato delle sue peculiarità storiche e soprattutto del ruolo dei suoi soci-lavoratori in rapporto all'organizzazione del lavoro e delle forme residuali di "democrazia di base"?
Prima di rispondere bisogna fare una premessa: la Compagnia dei camalli genovesi (vera e propria aristocrazia operaia dei tempi andati) si è configurata - quantomeno a partire dal dopoguerra - come un'inestricabile commistione di livelli. Forma-azienda, forma sindacato (CGIL), forma politica (PCI e poi quel che ne è seguito) si sono sovrapposte e mescolate in un assetto corporativo diretto con pugno di ferro da una elite di dirigenti rinnovata solo per cooptazione.
Che cosa poteva derivarne se non un assetto imprenditoriale, votato alla ricerca del profitto, ingabbiato in una struttura efficientista, dirigista e paternalista, dove lo sfruttamento (e l'autosfruttamento, a dispetto del cretino e dell'infame di turno - il segretario della CdL di Genova, Fabiocchi - che lo ritiene solo "materia da dibattiti televisivi") esasperato dei lavoratori è considerato normalità aziendale e la sicurezza sul lavoro un impiccio e un costo da abbattere?
Che cosa poteva derivarne se non un assetto autoritario che non tollera dissenso e critiche? Non a caso solo pochi giorni prima della morte di Cannonero due lavoratori della Compagnia sono stati sospesi rispettivamente per 20 e 40 giorni, per il fatto di aver liberamente espresso, durante un convegno tenutosi al Centro sociale Zapata, delle critiche contro la gestione della CULMV e del Porto più in generale. Stile Fiat o peggio.
Che cosa contano dunque i diritti, la salute e la vita dei lavoratori nella scala dei valori dell'imprenditorialità capitalistica del porto? Probabilmente molto meno di quanto non fosse al tempo delle gilde trecentesche dei caravana (scaricatori merci varie) e dei carbuné (scaricatori del carbone), antenati degli odierni camalli, che almeno avevano - seppur corporativisticamente - a cuore le sorti dei propri associati.

Walter Kerwal

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