La tragica morte di un lavoratore della CULMV (Fabrizio Cannonero, 39
anni) avvenuta nel porto di Genova nella notte fra giovedì e
venerdì scorsi, ha riacceso i riflettori dei mass media (e il
peloso "interesse" dei politici) sulla sicurezza e gli incidenti sul
lavoro.
A nemmeno un mese dalla tragedia di Marghera (due operai morti
asfissiati nella stiva di una nave) e con il ricordo ancora vivo della
strage alla ThyssenKrupp registriamo quello che può essere
considerato un episodio di ordinaria "normalità" nelle cronache
del lavoro, genovese e nazionale.
La cronaca è scarna, come sempre in questi casi: un turno di
lavoro notturno, una squadra di camalli impegnata nello scarico di
container, un operaio mette un piede in fallo e precipita per una
ventina di metri morendo sul colpo. Nessuna misura di sicurezza,
né le ringhiere previste, né imbracatura e moschettone. I
compagni del lavoratore fermano il lavoro. Sono decise 48 ore di blocco
dei valichi del porto. Un corteo si snoda per le vie della
città. Lo stesso copione del 14 aprile di un anno fa in
occasione della morte di un altro lavoratore portuale (Enrico Formenti)
schiacciato da una balla di cellulosa. E per rispettare il copione,
ancora il cordoglio dei politici e delle autorità, ancora
l'indignazione dei dirigenti sindacali e il coro di quelli che chiedono
più rigore nell'applicazione delle misure di sicurezza sul
lavoro. Tutto questo lo abbiamo già visto innumerevoli volte e
purtroppo dovremo rivederlo in futuro.
Scrivevo qualche tempo fa su UN della funzione mistificatoria della 626
e di tutto l'apparato preposto alla sicurezza sul lavoro e concludevo
che: "... le morti e le stragi sul lavoro sono un attributo strutturale
dei processi produttivi. Sono implicite e scontate. Sono il prezzo da
pagare alla logica del profitto. Non è possibile immaginare
lavoro "pulito" in una concezione delle attività produttive
esasperata e malsana, dove il lavoratore è semplicemente un
attrezzo o, al massimo, un macchinario un po' più complesso, del
quale ci si prende cura solo in termini di utilizzo spinto ad
esaurimento (o alla rottura), convenienza e facilità di
rimpiazzo". Potrei sottoscrivere tutto quello che dicevo allora e
riproporlo, sarebbe tristemente appropriato. C'è però,
questa volta qualche elemento in più da considerare.
Il primo, forse marginale, è che Genova e la Liguria, nonostante
la crisi industriale (e dunque il ridursi delle attività
lavorative potenzialmente più pericolose: vedi siderurgia), si
mantiene come numero di incidenti e di morti sul lavoro in linea con il
livello nazionale (1.022.916 incidenti dal 1976 al 2006 - media 32.998
annui; 1.139 morti in Liguria per lo stesso periodo - media annuale
36,75) e, soprattutto, con il trend generale (nessuna riduzione dei
casi dopo l'introduzione della 626) di "normalità" della
pericolosità e della mortalità del lavoro.
Il secondo, più specifico, è la natura peculiare della
CULMV, la storica cooperativa dei camalli genovesi. Dismessi gli abiti
dell'associazionismo operaio storico e la tradizione democratica della
sua organizzazione interna (ancora qualche anno fa, la Compagnia
promosse un convegno sull'autogestione) la CULMV già da anni
è stata trascinata da Batini e dagli altri dirigenti sulla
strada dell'imprenditorialità spinta e della concorrenza con i
privati. "Bisogna modernissarsi compagni", con questo grido di guerra
(che dovete immaginare pronunciato con accento genovese) il buon Paride
e i suoi fidi si sono lanciati nella contesa con terminalisti e
armatori privati, autorità portuali e amministrazioni locali per
arrivare all'attuale spartizione e privatizzazione di banchine e
servizi.
Ma se questo percorso ha garantito alla compagnia un buon livello di
sopravvivenza, che ne è stato delle sue peculiarità
storiche e soprattutto del ruolo dei suoi soci-lavoratori in rapporto
all'organizzazione del lavoro e delle forme residuali di "democrazia di
base"?
Prima di rispondere bisogna fare una premessa: la Compagnia dei camalli
genovesi (vera e propria aristocrazia operaia dei tempi andati) si
è configurata - quantomeno a partire dal dopoguerra - come
un'inestricabile commistione di livelli. Forma-azienda, forma sindacato
(CGIL), forma politica (PCI e poi quel che ne è seguito) si sono
sovrapposte e mescolate in un assetto corporativo diretto con pugno di
ferro da una elite di dirigenti rinnovata solo per cooptazione.
Che cosa poteva derivarne se non un assetto imprenditoriale, votato
alla ricerca del profitto, ingabbiato in una struttura efficientista,
dirigista e paternalista, dove lo sfruttamento (e l'autosfruttamento, a
dispetto del cretino e dell'infame di turno - il segretario della CdL
di Genova, Fabiocchi - che lo ritiene solo "materia da dibattiti
televisivi") esasperato dei lavoratori è considerato
normalità aziendale e la sicurezza sul lavoro un impiccio e un
costo da abbattere?
Che cosa poteva derivarne se non un assetto autoritario che non tollera
dissenso e critiche? Non a caso solo pochi giorni prima della morte di
Cannonero due lavoratori della Compagnia sono stati sospesi
rispettivamente per 20 e 40 giorni, per il fatto di aver liberamente
espresso, durante un convegno tenutosi al Centro sociale Zapata, delle
critiche contro la gestione della CULMV e del Porto più in
generale. Stile Fiat o peggio.
Che cosa contano dunque i diritti, la salute e la vita dei lavoratori
nella scala dei valori dell'imprenditorialità capitalistica del
porto? Probabilmente molto meno di quanto non fosse al tempo delle
gilde trecentesche dei caravana (scaricatori merci varie) e dei
carbuné (scaricatori del carbone), antenati degli odierni
camalli, che almeno avevano - seppur corporativisticamente - a cuore le
sorti dei propri associati.
Walter Kerwal