Umanità Nova, n.9 del 9 marzo 2008, anno 88

Rancore democratico. Isterie securitarie e galere vere


Una decina di anni fa il sociologo francese Alain Ehrenberg (direttore del gruppo di ricerca "Psychotropes, Politique, Société" del CNR d'Oltralpe), ha pubblicato un testo molto interessante, "La fatica di essere se stessi" che cerca d'indagare sul rapporto "tra depressione e società". Ehrenberg mostra come quella che viene chiamata "depressione" è strettamente collegata alla dinamiche sociali della nostra epoca. "Negli anni quaranta la depressione non era che una sindrome associata a molte malattie mentali. Negli anni settanta la psichiatria dimostrò che si trattava del disturbo mentale più diffuso nel mondo. In anni più recenti essa ha raggiunto una diffusione tale che la si ritiene responsabile della maggior parte delle difficoltà che incontriamo nella vita quotidiana: stanchezza, inibizione, insonnia, ansia, sarebbero tutte causate da questa 'malattia'". Incrociando le problematiche del sapere medico con l'analisi degli stili di vita, Ehrenberg suggerisce che la depressione è strettamente legata a una società come quella contemporanea, dove le norme della convivenza civile non sono più fondate sui concetti di appartenenza alla comunità, ma sulla responsabilità e sullo spirito d'iniziativa che sono richieste dai nuovi mutamenti economici, in particolare a quelli legati al mercato del lavoro (in cui, mentre si spezzano le forme tradizionali di organizzazione e resistenza dei lavoratori, a questi viene richiesto non solo di eseguire i propri compiti, ma di farlo anche con convinzione e con "creatività"). In un contesto in cui l'individuo è schiacciato dalla necessità di mostrarsi sempre all'altezza, la depressione non è che la contropartita delle grandi riserve di energia che ciascuno di noi deve spendere per soddisfare le aspettative della "competizione sociale": "la fatica di essere se stessi" è quella che vive l'individuo che deve adeguare la propria vita al sistema produttivo. Non ci sono più i conflitti sociali che permettono alle persone di riconoscersi come membri di comunità fondate sui desideri e sui bisogni comuni e a chi non riesce ad avere successo secondo i modelli imposti dai "paradigmi della pubblicità" (che descrivono un mondo illusorio popolato da ricchi e brillanti) rimangono solo i frutti della "ricerca farmacologica" e, soprattutto, "la democratizzazione delle nevrosi legate al risentimento". Secondo Ehrenberg viviamo in "una vera e propria cultura del risentimento, in cui i singoli individui dissipano grandi energie nel rincorrere mete irraggiungibili, con la conseguenza di accumulare frustrazioni e rancore". E, mentre "le istituzioni si mostrano incapaci di uscire da logiche meccaniche imposte dalla crescente complessità dell'economia", si diffonde a livello sociale "il rancore" a cui neanche "il consumo compulsivo" riesce a fare da palliativo. È un rancore che sostituisce la rabbia che un tempo veniva indirizzata contro i padroni e i governanti e che viene sapientemente indirizzata dall'apparato mediatico contro altri "popoli" (basta pensare alla lista degli "stati canaglia" che viene periodicamente compilata dalla Casa Bianca), ma anche contro tutta una serie di figure sociali marginali (di volta in volta l'immigrato, il drogato, il malato di mente, l'ultrà del calcio, il graffitista etc) che diventano bersaglio di odio e di paura. E lo Stato è lesto a raccogliere questo clima di paura con azioni di polizia e leggi che colpiscono direttamente persone che non hanno altra colpa se non quella di non essere conformi al modello antropologico dominante.

La "democratizzazione del rancore" può essere utile per capire perché, mentre tutti i dati e le statistiche dimostrano che i reati più gravi sono in diminuzione (gli omicidi negli ultimi anni sono stati meno in termini assoluti – non percentuali! – di quelli registrati negli anni '60 dell'Ottocento, quando Firenze era la capitale del Regno d'Italia che non comprendeva ancora il Lazio e le Venezie...), al tempo stesso "la paura della delinquenza" sembra essere un sentimento dominante del nostro tempo.
Gli italiani naturalmente hanno tutti i buoni motivi per essere arrabbiati e avere paura. Sono sempre più poveri (secondo un recente rapporto dell'Eurispes, solo dal 2002 ad ora i salari dei lavoratori dipendenti hanno perso il 35% del proprio potere d'acquisto). Sono sempre più malati e avvelenati (nonostante i progressi della medicina, le morti da tumore sono in aumento per effetto delle patologie legate all'inquinamento). Sono sempre più tartassati (le diminuzione delle imposte indirette per i ricchi vengono ripagate dall'aumento delle imposte indirette su IVA, tariffe, tasse etc). Devono decidere se rassegnarsi a vivere tra montagne di immondizia o a immettersi l'immondizia direttamente nei polmoni termovalorizzata nell'aria. Etc etc (l'elenco dei buoni motivi per essere arrabbiati e avere paura è troppo lungo e triste per essere riportato per l'ennesima volta qui).
I media di regime rispondono a queste paure reali con degli allarmi inventati che fanno diventare senso comune la propaganda fascista e leghista per cui il pericolo sono "i diversi", quelli che vengono da altri paesi, coloro che non si rassegnano a fare una vita che ha come unica regola produci-consuma-crepa. E i politici di tutti i colori si accodano. In fin dei conti, se con una buona operazione di lavaggio del cervello, riesci a far credere che i rom sono la causa di tutti i mali del mondo, è molto più facile sgomberare un campo nomadi che aumentare gli stipendi o abbattere le sostanze inquinanti...
Chi ha abbastanza stomaco da seguire la tristissima campagna elettorale in corso, sa quanto le tematiche securitarie siano al centro dei programmi-fotocopia del Pd e del Pdl che danno entrambi il massimo rilievo appunto alla "sicurezza". Se Berlusconi promette che costruirà nuovi CPT "per la difesa dei cittadini" che si appresta a bombardare con le particelle radioattive delle centrali nucleari che costruirà a tempo di record, la proposta del Pd contro la pedofilia è l'apoteosi di questa vomitevole rincorsa a "più polizia e più galera". È stata illustrata personalmente da Veltroni in una conferenza stampa per presentare una proposta di legge a camere sciolte. Nella proposta di legge virtuale del Pd si prevede che la violenza sessuale nei confronti dei minori possa essere punita sino a 20 anni, ridotti a 18 se la vittima è un minore tra i 10 e i 14 anni. Non va dimenticato che la violenza è sempre presunta. Per cui rischia una pena carceraria infinita anche il ragazzino di 15 anni che fa l'amore con la ragazzina di 13. Persino la castrazione chimica, l'ex buonista Veltroni non l'ha esclusa. Ha detto soltanto che non ne è dimostrata l'efficacia. Quattro anni fa Valter si indignò come tutti gli altri politici dell'allora opposizione di centro-sinistra di fronte alla proposta dell'allora ministro delle riforme Calderoli. Oggi è pronto a far capire agli elettori di essere pronto ad usare anche la castrazione chimica (ma se verranno trovati dei sistemi "efficaci"). I pedofili violenti, per fortuna, esistono nelle luride fantasie di chi scrive i copioni dei telegiornali molto più che nella realtà, ma, come ha scritto l'associazione Antigone, "conta la promessa di mano dura, non la prevenzione effettiva di violenze nei confronti dei minori. In questo modo ci verrà restituita una società dove nessuno avrà più fiducia nell'altro, dove non potremo più accarezzare innocentemente un bambino su un autobus". Promettere di colpire uno dei crimini più odiosi serve a conquistare le simpatie degli elettori a colpa di rancore "democratico"...

Alla fine tutti questi allarmi inventati si trasformano, però, in carceri vere piene di uomini veri e di donne vere che scontano sofferenze vere per soddisfare la fame di capri espiatori di una società incapace di curare sé stessa. In questi giorni sono stati diffusi i dati di un'inchiesta sulla situazione carceraria negli Stati Uniti, il paese dove per primo a partire dagli anni '80 di Reagan s'è diffusa la barbarie della "tolleranza zero". Una ricerca realizzata dal Pew research center - uno dei più autorevoli istituti di ricerca statistica statunitensi - ci spiega che le persone in carcere sono aumentate di 25mila unità nel 2007, arrivando a un milione e 600mila nelle galere federali e a 726mila nelle "county jail" le carceri gestite da sceriffi e giudici locali. In totale 2 milioni e 326 persone: in pratica, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti l'1 per cento dei cittadini americani adulti vive in cella. Naturalmente i poveri ci vivono di più: un ispanico adulto su 36 e un afroamericano su 15 è galeotto - uno su nove tra i neri tra i 20 e i 35. Il sistema carcerario, peraltro, ha dei costi enormi: un impiegato statale su nove lavora per il sistema penitenziario e che i costi per questa grande galera siano tali da non essere più sostenibili - il 7% dei bilanci dei singoli Stati, la voce più cara dopo sanità, scuola e trasporti. I costi sono aumentati del 127% rispetto al 1987, arrivando a 44 miliardi di dollari. Dallo stesso anno il numero di carcerati è quasi triplicato. La ricerca sottolinea che gli Stati Uniti sono primatisti delle incarcerazioni sia come numeri globali che come flusso di nuovi prigionieri. La popolazione carceraria Usa di 2,3 milioni di adulti è la più alta del pianeta, seguita da 1,5 milioni di detenuti in Cina (dove il numero degli abitanti è però molte volte superiore) e da 890.000 detenuti in Russia. "L'America è il leader globale nel ritmo di incarcerazione dei suoi cittadini, molto più rapido di paesi come il Sudafrica e l'Iran", afferma lo studio.
Con i politici italiani che fanno la gara a chi è più "americano" dell'altro, c'è poco da stare tranquilli anche per il nostro futuro...

robertino

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