Umanità Nova, n.10 del 16 marzo 2008, anno 88

Palestina. Fermare l'orrore


Colpo su colpo le illusioni create ad Annapolis si stanno dissolvendo tra lo scoppio delle bombe ed il fischiare dei proiettili, annegate in un mare di sangue di cui non si vedono i confini, troppo grandi le contraddizioni sul terreno, insopportabili le ingiustizie e le violenze quotidiane.
Fu facile profeta Judah Magnes, presidente dell'Università ebraica di Gerusalemme, che all'indomani della fondazione di Israele nel 1948 mise in guardia il movimento nazionalista "Uno stato ebraico significa, per definizione, che gli ebrei governano altra gente abitante in questo stato", dando per scontato che questa imposizione non potesse essere accettata tranquillamente. E rafforzava la sua opinione citando un altro pensatore ebreo, Jabotinsky "Si è mai visto un popolo offrire il proprio territorio di propria volontà? Così anche gli arabi palestinesi non rinunzieranno allo loro sovranità senza violenza".
E così dal 1948 ad oggi, in seguito all'insediamento dello Stato ebraico, l'area compresa tra il Mediterraneo ed il Giordano è stata teatro di numerose guerre, che hanno lanciato i loro tragici riverberi in tutta l'area circostante, diventando nei fatti uno dei principali punti di conflitto mondiale, nonostante il numero limitato dei suoi abitanti – 11 milioni tra arabi ed ebrei – le ridotte dimensioni del territorio – simili a quelle della Lombardia – e le scarse risorse del territorio. Il fatto è che nel suo sviluppo storico a partire dalla sconfitta dell'impero ottomano tale territorio è diventato un baluardo fondamentale nelle politiche di conquista coloniale dell'area. Ben note sono le responsabilità dello Stato britannico nell'aver favorito lo sviluppo di una miscela così esplosiva che le tragiche vicende dello sterminio ebraico da parte nazista e l'affermarsi di un nazionalismo, estremista ed aggressivo come tutti i nazionalismi, tra gli ebrei hanno poi portato a drammatica maturazione.
Di fatto dal 1948 due popoli si affrontano sullo stesso territorio, l'uno, l'ebraico, per affermare il proprio Stato, l'altro, l'arabo, per difendere il proprio spazio vitale. In questo affrontarsi, facile gioco hanno le potenze imperialistiche mondiali e regionali che utilizzano le aspirazioni dei popoli per affermare i propri interessi strategici in un'area, come quella mediorientale, ricca di risorse energetiche.
60 anni di guerre e conflitti che hanno portato la percentuale del territorio destinato dall'ONU ad Israele dal 56% del 1947 al 77% del 1948 ed oltre con l'occupazione di Gaza e Cisgiordania dopo il conflitto del 1967; con la conseguente espulsione di masse enormi di arabi dai loro territori, la creazione di campi profughi nei paesi circostanti e i contraccolpi nei confronti dei paesi ospitanti, come Giordania e Libano, i cui governi si sono successivamente resi responsabili di massacri nei confronti dei palestinesi per contenerne l'azione destabilizzante per i loro regimi.
Dopo 60 anni la situazione non è sostanzialmente cambiata e siamo sempre qui a fare il conto dei morti, dei bambini uccisi dalle bombe degli aerei israeliani, degli studenti assassinati dai proiettili dei combattenti di qualche formazione palestinese, delle case distrutte dai bulldozer di Tel Aviv, della quantità delle terre arabe confiscate, e così via. Una contabilità insopportabile di cui non si vede la fine, come non si vede la fine della politica di emarginazione e di apartheid praticata dal governo israeliano nei confronti della componente araba residente, dello sfruttamento intensivo della manodopera palestinese, degli insediamenti nei territori occupati.
Quello che è certo è che la capacità di resistenza dimostrata dagli arabi di Palestina è andata oltre ogni previsione iniziale da parte sia degli strateghi dell'ONU del 1947 che del movimento dell'estremismo sionista che, ai suoi albori alla fine del 1800, pensava di costruire il proprio Stato con l'acquisto delle terre dei latifondisti arabi da popolare con gli esuli europei delle persecuzioni antiebraiche.
Una resistenza popolare che pone i dirigenti dello Stato israeliano di fronte ad un problema che sta diventando di impossibile soluzione: come garantire e rafforzare il carattere originario dello Stato e nel contempo mantenere il controllo dei territori palestinesi occupati nel 1967. La crescita demografica della popolazione araba nel territorio che va dal Mediterraneo al fiume Giordano ha un tasso superiore a quella ebraica, la quale tra breve verrà superata. Se si esclude, come fanno i dirigenti di Tel Aviv per non rinnegare il fondamento sionista all'origine della fondazione di Israele, l'ipotesi di uno Stato binazionale ove le due componenti abbiano stessi doveri e stessi diritti, non rimane altra soluzione per loro che quella di premere ulteriormente sugli arabi per "convincerli" a rinchiudersi in spazi angusti ristretti dal muro in costruzione oppure ad andare a costruirsi il loro Stato oltre il Giordano, come vorrebbero i falchi ultranazionalisti che identificano il regno di Giordania come il "luogo" dei palestinesi. Per far questo però dovrebbero convincere i giordani che hanno dato prova di grande solidarietà sia nei confronti degli esuli della Palestina che di quelli iracheni, ma che hanno ormai pagato un prezzo troppo alto in termini di crisi economica e di disoccupazione per accettare un altro esodo biblico dalla Cisgiordania. È evidente per tutti che queste non sono soluzioni ma ulteriori elementi di imbarbarimento di una politica colonialistica ed oppressiva, che continua ad essere sostenuta a livello internazionale dagli USA.
L'impossibilità di trovare soluzioni spinge la leadership israeliana a continue oscillazioni, con accelerazioni belliche, accordi teatrali e politicismi dissennati come quello di favorire la nascita di correnti integraliste radicali nella società arabo palestinese pur di disgregare l'OLP di Arafat. Il contesto sta però cambiando: il nazionalismo sionista non ha più la determinazione degli inizi, l'esercito sta dando segni di stanchezza (significativo il suo comportamento nel recente conflitto con Hezbollah), cresce il movimento dei refusnik, cioè dei disertori, nascono e si sviluppano gruppi e movimenti di lotta contro la politica di oppressione e di guerra dei governanti come gli "Anarchici contro il muro" e "Gush shalom", e altri che chiedono il riconoscimento di Hamas come interlocutore politico per una trattativa reale.
D'altro lato il panorama politico palestinese non si dimostra all'altezza della generosità e della capacità di lotta e di resistenza della popolazione. I conflitti armati tra le varie formazioni, la lotta per il potere, il mancato rispetto per i risultati elettorali, la corruzione dilagante, sono solo alcuni degli aspetti di una debolezza di fondo grazie alla quale le difficoltà di parte israeliana non esplodono e consentono il mantenimento di un drammatico status quo pagato, sia pure in maniera profondamente diversa, da entrambe le popolazioni.
E intanto l'orrore non ha fine. E non abbiamo bisogno del bilancino per capire quale delle due parti sta pagando il prezzo più alto, in termini di lutti e di sofferenze, nonostante la retorica di una stampa e di una televisione sfacciatamente di parte, che continua ad utilizzare l'orrore dell'olocausto per farci digerire il suo sostegno a politiche insopportabili di stampo coloniale, degna rappresentazione di un paese che non ha mai voluto fare i conti con i suoi massacri colonialisti in Libia ed Etiopia, con le sue politiche di italianizzazione forzata come in Slovenia e Tirolo, con le sue persecuzioni razziali.
Il superamento dello stato di guerra che insanguina quella regione si potrà avere o con l'annichilimento e la distruzione di una delle due parti – e si può facilmente immaginare quale, visti i rapporti di forza e la potenza militare israeliana - o con la distruzione definitiva delle barriere artificiali, etniche, politiche e religiose, imposte ai popoli per la costruzione di una società più giusta ed umana. Obiettivo che pare impossibile, ma che è assolutamente necessario se si vuole impedire davvero che il sangue continui a scorrere.
L'esistenza di collettivi congiunti di palestinesi e di israeliani che si oppongono alla costruzione del Muro, che sostengono i disertori israeliani al servizio militare, che si mobilitano contro il militarismo, provano una volta di più che quello che ci può unire, con la solidarietà e la lotta, è più forte di quello che ci divide, nella consapevolezza che la proposta del federalismo libertario, fondamentalmente egualitario, è quella che più si adatta a regioni come quella del Medio oriente, costituite da un mosaico di popoli e di culture, con la sua pratica della libera associazione su basi egualitarie tra individui e gruppi sociali.
La ripartizione delle ricchezze e l'autogestione generalizzata sono le tappe fondamentali per dare forza alla proposta federalista in un territorio dove ricchezza e miseria si intrecciano, dove il tema della distribuzione dell'acqua, del petrolio e delle terre fertili, rivestono un'importanza nodale.
La proposta di un nuovo stato palestinese, tra l'altro dalle dimensioni ridotte, a chiazze di leopardo distanti le une dalle altre, se apparentemente sembra un passo in avanti nella liberazione di un popolo oppresso e sfruttato, in realtà è una nuova gabbia che rafforzerà i sentimenti nazionalisti facendo perdere la consapevolezza degli interessi di classe e dell'importanza della lotta sociale contro i dominatori e gli sfruttatori di ogni tipo e di ogni etnia. Non esiste liberazione economica e sociale del proletariato al di fuori dalla sua autorganizzazione in classe e la sua cristallizzazione nelle comunità nazionali interclassiste è la tomba di ogni progetto di rivoluzione sociale. Ma per rendere credibile questa impostazione occorre mobilitarsi per fare cessare la situazione intollerabile nella quale si trovano i lavoratori, le donne, gli uomini, i bambini in Palestina, affinché tacciano le armi, cessino il regime di occupazione militare israeliana, di oppressione e di emarginazione della popolazione araba, sconfiggendo nel contempo i rigurgiti antiebraici che pescano persino nel negazionismo, alimentando una ignoranza diffusa sul mondo ebraico che è un sistema complesso di individui, di valori e di pensieri, al pari di tutti i sistemi che affondano le loro radici nel corpo stesso dell'umanità, come il cristianesimo o l'Islam, per rimanere nel campo delle religioni, o come l'illuminismo o lo stesso materialismo, per quanto riguarda il pensiero laico e libertario.

Max. Var.

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