Umanità Nova, n.11 del 23 marzo 2008, anno 88

Crisi economica. Venti di tempesta


La settimana appena trascorsa è stata caratterizzata, in campo economico, da una successione di disvelamenti. Finalmente le più autorevoli autorità del comando capitalistico hanno dovuto ammettere di brancolare nel buio e di non sapere che pesci pigliare per arrestare la perversa spirale che sta trascinando nel gorgo quella che un tempo veniva definita crescita economica. Il formale fallimento del fondo olandese della Carlyle ed il sostanziale fallimento della importante banca americana Bear Stearns hanno innescato una esplosione di panico che sta crescendo di ampiezza e intensità. I dati dell'economia reale cominciano a dimostrare che la crisi non è circoscritta all'economia di carta, che non si tratta di un semplice episodio di turbolenza finanziaria legata allo scricchiolio di qualche operatore troppo disinvolto o innovativo, ma di un fenomeno esteso e grave, capace di colpire in profondità ad ogni latitudine.
Le statistiche dell'occupazione americana, sempre così ottimiste e incoraggianti, non possono più nascondere la banale verità: a febbraio sono scomparse decine di migliaia di posti di lavoro (63.000 per la precisione), ma non solo più nel settore primario o manifatturiero, come di norma, bensì nel mitico settore terziario, quello che negli anni precedenti aveva sempre assorbito almeno parte dell'occupazione distrutta negli altri due settori. Inoltre si è scoperto e rivelato ufficialmente che il tasso di disoccupazione è stabile al 4,8% solo nelle statistiche, perché le statistiche sono false e fuorvianti: la gente è così scoraggiata che non si iscrive neanche nelle liste di collocamento, perché le considera inutili per trovare lavoro. Un panel di 51 esimi economisti, intervistati sulle prospettive economiche, vota in maggioranza per una recessione già in corso, mentre sembra illusorio pensare che già dall'estate la situazione sia destinata a migliorare.
Robert Manning, grande esperto dell'indebitamento privato, sostiene che per il consumatore Usa il peggio deve ancora venire, perché l'apice della crisi dei mutui non arriverà che nel 2009, mentre intanto sarà esplosa anche la crisi delle carte di credito, che sono regolate per il 60% con la rateizzazione dei pagamenti. Negli ultimi sei/dodici mesi hanno avuto problemi di insolvenza quelle fasce marginali di popolazione che sono entrati come acquirenti nel mercato immobiliare, senza avere mezzi freschi e capacità reddituale, cioè senza averne i presupposti minimi: la loro breve e infelice partecipazione al sogno americano è stata resa possibile solo da un incosciente alleggerimento dei criteri creditizi standard, che hanno consentito agli intermediari finanziari di farsi una concorrenza spietata per acquisire quote di mercato, senza badare alle conseguenze.
Nei prossimi mesi rischia invece di entrare in crisi una fascia ben più ampia dei proprietari di case, gente che avrebbe dovuto avere un mutuo di 300/400 mila dollari, mentre lo ha contratto per 600/800 mila, quando la loro casa vale a mala pena 500.000 dollari. La tentazione di mollare tutto e di lasciare la casa ai creditori è forte, mentre le banche non sanno che farsene di un immobile svalutato. È per questo che Bernanke sta implorando le banche di non pignorare più le case ed il governo federale di intervenire per sostenere i mutuatari, in modo che il circolo perverso tra escussione del pegno, sfratto dell'inquilino, svendita del bene sul mercato, esplosione degli immobili invenduti, non si chiuda nel peggiore dei modi.
Se questa è la drammatica situazione dell'economia americana, piegata dalla costosissima guerra in Iraq, dal crollo del dollaro, dalla crisi dei subprime e dalla recessione incombente, nel resto del mondo non vediamo scenari molto migliori. Sono ormai numerosi gli analisti che giudicano questa recessione molto peggiore di quella seguita all'11 settembre.
Il superamento della recessione precedente, durata meno di sei mesi, è stato reso possibile da un dollaro ancora molto forte (il massimo del dollaro sull'euro, al cambio di 0,82, è stato toccato nell'ottobre del 2000, ed ha stazionato vicino a quei livelli per 2/3 anni), da una politica di drastico abbassamento dei tassi di interesse e da una situazione di bilancio, ereditata da Clinton, ancora in avanzo primario. Il dollaro forte permise di abbassare i tassi senza imbarcare inflazione e la macchina del consumo americano funzionò come locomotiva per l'economia mondiale, tirandosi dietro l'Europa, l'Asia e gli altri paesi emergenti. Il rincaro delle materie prime, base formidabile per lo sviluppo di Australia, Russia, Brasile, Sudafrica, paesi Opec e così via, ha stabilizzato i debiti dei paesi ricchi di risorse naturali, mentre i grandi produttori manifatturieri dell'Estremo Oriente e del Sud-est asiatico, Cina e India in testa, crescevano trainati dalla domanda americana.
Tutto questo sembra appartenere al passato. La domanda centrale è ora: riuscirà l'economia mondiale a trovare altre locomotive? L'Europa potrebbe essere la candidata ideale, ma tutto lascia pensare che questo ruolo non le si addica. La banca centrale europea è abbarbicata su linee monetariste concentrate sulla lotta all'inflazione. L'inflazione ufficiale europea è al 3,3% e la crescita economica prevista per il 2008 è soggetta a continue revisioni al ribasso: nessuno si azzarda a pronosticare cifre superiori al 2%, ma di recente si è parlato di 1,8% come ipotesi ottimistica. Sappiamo che sono dati addomesticati, che l'inflazione reale e quella percepita sono molto superiori, che l'inflazione relativa ai beni di più ampio consumo si avvicina al 5% e per alcuni beni essenziali, come luce, gas e carburanti, la dinamica dei prezzi assume traiettorie assai più accelerate. Tuttavia il mantra delle autorità monetarie europee continua a ripetere giaculatorie sulla necessità di risanare i conti pubblici e flessibilizzare il mercato del lavoro, mentre occorrerebbe con urgenza una politica di accomodamento monetario e di espansione fiscale che fosse in grado di prevenire il blocco dell'economia.
Anziché imprimere un impulso positivo che contribuisca alla tenuta della domanda mondiale, la Bce si preoccupa dei rinnovi contrattuali (soprattutto in Germania, dove qualche sciopero serio viene perlomeno minacciato, anche se non realizzato) e in specifico della rinnovata richiesta di avere un meccanismo automatico di indicizzazione dei salari ai prezzi, per difendere il potere d'acquisto delle retribuzioni. Spauracchio che la Bce considera spaventoso, perché il rincaro dei prezzi, l'aumento dei profitti e la spartizione della rendita non devono essere "alterati" da meccanismi automatici che rischierebbero di difendere i salari e la loro quota sul reddito complessivo. No, secondo la Bce, non si tratta di fare ripartire i consumi in funzione anticongiunturale, si tratta invece di produrre a condizioni vantaggiose per consentire alle merci europee una maggiore competitività sui mercati mondiali. Una posizione che riflette la rendita di posizione degli industriali tutti ed in particolare di quelli tedeschi, ben poco spaventati dalla rivalutazione dell'euro e convinti di poter continuare a macinare profitti, per la qualità delle merci che esportano e per il carniere ben ripieno di ordini per i mesi a venire.
In Italia la situazione è molto diversa. Negli ultimi dieci anni, i tassi di crescita economica sono stati sempre, sistematicamente, ben al di sotto della media europea, in genere attorno alla metà del valore. La debolezza strutturale del nostro capitalismo e la pesantezza del debito pubblico (e quindi dello sforzo fiscale per il rientro) hanno reso sempre più fragile la struttura produttiva. In un quadro di compressione dei consumi, garantito dalla concertazione e dal collaborazionismo sindacale, gli industriali hanno ottenuto dai governi in carica le misure via via ritenute più utili. Mentre le aziende costrette a competere sul mercato aperto hanno delocalizzato, abbassando i costi e cercando mercato di sbocco nuovi, la parte più "pesante" del sistema delle imprese ha ottenuto una struttura di incentivi per "rimanere" e incrementare qui i propri profitti, usando tutta la gamma degli incentivi possibili, dai contratti d'area, al cuneo fiscale, dai finanziamenti alla ricerca, dalla precarizzasione del lavoro all'abbassamento della tassazione d'impresa. L'esito di questa costante pressione si può agevolmente riscontrare nell'ingente ripresa dei profitti degli ultimi 3-4 anni, ma anche nella debolissima performance economica complessiva: si parla di tassi di crescita dello 0,7% nel 2008, ma anche di scenari di caduta fino al -0,2%. Il fortissimo prelievo fiscale della cura Padoa-Schioppa ha depresso i consumi e impoverito la società, colpendo sicuramente l'evasione e l'elusione, ma anche i redditi reali dei salariati, tramite l'imposizione indiretta, il rincaro dei servizi pubblici e della tassazione locale, il rialzo dei prezzi su merci e tariffe.
Arriviamo dunque fragili ad una recessione che si preannuncia pesante e non abbiamo strumenti disponibili per una difesa possibile. I due schieramenti politici in campo hanno proposte identiche su taglio della spesa pubblica, libertà di mercato, flessibilità del lavoro e sostegno all'impresa. Già Berlusconi promette una nuova versione, più cruda, della riforma pensionistica, con una Maroni due, la vendetta. Sul fronte opposto, l'ottimismo vacuo di Veltroni non è più in grado di abbindolare nessuno. Oggi è evidente che non esistono i presupposti per un blocco sociale e politico di contrasto, che punti sulla difesa del welfare, dei consumi e dei redditi delle classi subalterne.
Siamo dunque davvero in mare aperto, in una situazione nuova, con davanti problemi, nemici, attacchi di vecchia data: in questo contesto difficilissimo sarà decisiva la capacità di elaborare in tempi rapidi una strategia collettiva di risposta, sia alla turbolenza selvaggia della finanza derivata, che alla deriva recessiva del capitalismo globalizzato. 

Renato Strumia

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