La settimana appena trascorsa è stata caratterizzata, in campo
economico, da una successione di disvelamenti. Finalmente le più
autorevoli autorità del comando capitalistico hanno dovuto
ammettere di brancolare nel buio e di non sapere che pesci pigliare per
arrestare la perversa spirale che sta trascinando nel gorgo quella che
un tempo veniva definita crescita economica. Il formale fallimento del
fondo olandese della Carlyle ed il sostanziale fallimento della
importante banca americana Bear Stearns hanno innescato una esplosione
di panico che sta crescendo di ampiezza e intensità. I dati
dell'economia reale cominciano a dimostrare che la crisi non è
circoscritta all'economia di carta, che non si tratta di un semplice
episodio di turbolenza finanziaria legata allo scricchiolio di qualche
operatore troppo disinvolto o innovativo, ma di un fenomeno esteso e
grave, capace di colpire in profondità ad ogni latitudine.
Le statistiche dell'occupazione americana, sempre così ottimiste
e incoraggianti, non possono più nascondere la banale
verità: a febbraio sono scomparse decine di migliaia di posti di
lavoro (63.000 per la precisione), ma non solo più nel settore
primario o manifatturiero, come di norma, bensì nel mitico
settore terziario, quello che negli anni precedenti aveva sempre
assorbito almeno parte dell'occupazione distrutta negli altri due
settori. Inoltre si è scoperto e rivelato ufficialmente che il
tasso di disoccupazione è stabile al 4,8% solo nelle
statistiche, perché le statistiche sono false e fuorvianti: la
gente è così scoraggiata che non si iscrive neanche nelle
liste di collocamento, perché le considera inutili per trovare
lavoro. Un panel di 51 esimi economisti, intervistati sulle prospettive
economiche, vota in maggioranza per una recessione già in corso,
mentre sembra illusorio pensare che già dall'estate la
situazione sia destinata a migliorare.
Robert Manning, grande esperto dell'indebitamento privato, sostiene che
per il consumatore Usa il peggio deve ancora venire, perché
l'apice della crisi dei mutui non arriverà che nel 2009, mentre
intanto sarà esplosa anche la crisi delle carte di credito, che
sono regolate per il 60% con la rateizzazione dei pagamenti. Negli
ultimi sei/dodici mesi hanno avuto problemi di insolvenza quelle fasce
marginali di popolazione che sono entrati come acquirenti nel mercato
immobiliare, senza avere mezzi freschi e capacità reddituale,
cioè senza averne i presupposti minimi: la loro breve e infelice
partecipazione al sogno americano è stata resa possibile solo da
un incosciente alleggerimento dei criteri creditizi standard, che hanno
consentito agli intermediari finanziari di farsi una concorrenza
spietata per acquisire quote di mercato, senza badare alle conseguenze.
Nei prossimi mesi rischia invece di entrare in crisi una fascia ben
più ampia dei proprietari di case, gente che avrebbe dovuto
avere un mutuo di 300/400 mila dollari, mentre lo ha contratto per
600/800 mila, quando la loro casa vale a mala pena 500.000 dollari. La
tentazione di mollare tutto e di lasciare la casa ai creditori è
forte, mentre le banche non sanno che farsene di un immobile svalutato.
È per questo che Bernanke sta implorando le banche di non
pignorare più le case ed il governo federale di intervenire per
sostenere i mutuatari, in modo che il circolo perverso tra escussione
del pegno, sfratto dell'inquilino, svendita del bene sul mercato,
esplosione degli immobili invenduti, non si chiuda nel peggiore dei
modi.
Se questa è la drammatica situazione dell'economia americana,
piegata dalla costosissima guerra in Iraq, dal crollo del dollaro,
dalla crisi dei subprime e dalla recessione incombente, nel resto del
mondo non vediamo scenari molto migliori. Sono ormai numerosi gli
analisti che giudicano questa recessione molto peggiore di quella
seguita all'11 settembre.
Il superamento della recessione precedente, durata meno di sei mesi,
è stato reso possibile da un dollaro ancora molto forte (il
massimo del dollaro sull'euro, al cambio di 0,82, è stato
toccato nell'ottobre del 2000, ed ha stazionato vicino a quei livelli
per 2/3 anni), da una politica di drastico abbassamento dei tassi di
interesse e da una situazione di bilancio, ereditata da Clinton, ancora
in avanzo primario. Il dollaro forte permise di abbassare i tassi senza
imbarcare inflazione e la macchina del consumo americano
funzionò come locomotiva per l'economia mondiale, tirandosi
dietro l'Europa, l'Asia e gli altri paesi emergenti. Il rincaro delle
materie prime, base formidabile per lo sviluppo di Australia, Russia,
Brasile, Sudafrica, paesi Opec e così via, ha stabilizzato i
debiti dei paesi ricchi di risorse naturali, mentre i grandi produttori
manifatturieri dell'Estremo Oriente e del Sud-est asiatico, Cina e
India in testa, crescevano trainati dalla domanda americana.
Tutto questo sembra appartenere al passato. La domanda centrale
è ora: riuscirà l'economia mondiale a trovare altre
locomotive? L'Europa potrebbe essere la candidata ideale, ma tutto
lascia pensare che questo ruolo non le si addica. La banca centrale
europea è abbarbicata su linee monetariste concentrate sulla
lotta all'inflazione. L'inflazione ufficiale europea è al 3,3% e
la crescita economica prevista per il 2008 è soggetta a continue
revisioni al ribasso: nessuno si azzarda a pronosticare cifre superiori
al 2%, ma di recente si è parlato di 1,8% come ipotesi
ottimistica. Sappiamo che sono dati addomesticati, che l'inflazione
reale e quella percepita sono molto superiori, che l'inflazione
relativa ai beni di più ampio consumo si avvicina al 5% e per
alcuni beni essenziali, come luce, gas e carburanti, la dinamica dei
prezzi assume traiettorie assai più accelerate. Tuttavia il
mantra delle autorità monetarie europee continua a ripetere
giaculatorie sulla necessità di risanare i conti pubblici e
flessibilizzare il mercato del lavoro, mentre occorrerebbe con urgenza
una politica di accomodamento monetario e di espansione fiscale che
fosse in grado di prevenire il blocco dell'economia.
Anziché imprimere un impulso positivo che contribuisca alla
tenuta della domanda mondiale, la Bce si preoccupa dei rinnovi
contrattuali (soprattutto in Germania, dove qualche sciopero serio
viene perlomeno minacciato, anche se non realizzato) e in specifico
della rinnovata richiesta di avere un meccanismo automatico di
indicizzazione dei salari ai prezzi, per difendere il potere d'acquisto
delle retribuzioni. Spauracchio che la Bce considera spaventoso,
perché il rincaro dei prezzi, l'aumento dei profitti e la
spartizione della rendita non devono essere "alterati" da meccanismi
automatici che rischierebbero di difendere i salari e la loro quota sul
reddito complessivo. No, secondo la Bce, non si tratta di fare
ripartire i consumi in funzione anticongiunturale, si tratta invece di
produrre a condizioni vantaggiose per consentire alle merci europee una
maggiore competitività sui mercati mondiali. Una posizione che
riflette la rendita di posizione degli industriali tutti ed in
particolare di quelli tedeschi, ben poco spaventati dalla rivalutazione
dell'euro e convinti di poter continuare a macinare profitti, per la
qualità delle merci che esportano e per il carniere ben ripieno
di ordini per i mesi a venire.
In Italia la situazione è molto diversa. Negli ultimi dieci
anni, i tassi di crescita economica sono stati sempre,
sistematicamente, ben al di sotto della media europea, in genere
attorno alla metà del valore. La debolezza strutturale del
nostro capitalismo e la pesantezza del debito pubblico (e quindi dello
sforzo fiscale per il rientro) hanno reso sempre più fragile la
struttura produttiva. In un quadro di compressione dei consumi,
garantito dalla concertazione e dal collaborazionismo sindacale, gli
industriali hanno ottenuto dai governi in carica le misure via via
ritenute più utili. Mentre le aziende costrette a competere sul
mercato aperto hanno delocalizzato, abbassando i costi e cercando
mercato di sbocco nuovi, la parte più "pesante" del sistema
delle imprese ha ottenuto una struttura di incentivi per "rimanere" e
incrementare qui i propri profitti, usando tutta la gamma degli
incentivi possibili, dai contratti d'area, al cuneo fiscale, dai
finanziamenti alla ricerca, dalla precarizzasione del lavoro
all'abbassamento della tassazione d'impresa. L'esito di questa costante
pressione si può agevolmente riscontrare nell'ingente ripresa
dei profitti degli ultimi 3-4 anni, ma anche nella debolissima
performance economica complessiva: si parla di tassi di crescita dello
0,7% nel 2008, ma anche di scenari di caduta fino al -0,2%. Il
fortissimo prelievo fiscale della cura Padoa-Schioppa ha depresso i
consumi e impoverito la società, colpendo sicuramente l'evasione
e l'elusione, ma anche i redditi reali dei salariati, tramite
l'imposizione indiretta, il rincaro dei servizi pubblici e della
tassazione locale, il rialzo dei prezzi su merci e tariffe.
Arriviamo dunque fragili ad una recessione che si preannuncia pesante e
non abbiamo strumenti disponibili per una difesa possibile. I due
schieramenti politici in campo hanno proposte identiche su taglio della
spesa pubblica, libertà di mercato, flessibilità del
lavoro e sostegno all'impresa. Già Berlusconi promette una nuova
versione, più cruda, della riforma pensionistica, con una Maroni
due, la vendetta. Sul fronte opposto, l'ottimismo vacuo di Veltroni non
è più in grado di abbindolare nessuno. Oggi è
evidente che non esistono i presupposti per un blocco sociale e
politico di contrasto, che punti sulla difesa del welfare, dei consumi
e dei redditi delle classi subalterne.
Siamo dunque davvero in mare aperto, in una situazione nuova, con
davanti problemi, nemici, attacchi di vecchia data: in questo contesto
difficilissimo sarà decisiva la capacità di elaborare in
tempi rapidi una strategia collettiva di risposta, sia alla turbolenza
selvaggia della finanza derivata, che alla deriva recessiva del
capitalismo globalizzato.
Renato Strumia