Su un muro della piazza del mercato di S. Ambrogio campeggia una
scritta rossa in campo bianco: "scegli di contare, non votare!". Una
bella scritta, che capovolge il senso comune e induce alla riflessione.
Il mito democratico ha il suo fulcro nel rito elettorale, nell'urna
come emblema di libertà. Il discrimine tra i regimi dittatoriali
e quelli liberali è dato dalla possibilità di effettuare
elezioni. Le elezioni sono il momento supremo in cui si esercita la
cittadinanza, in cui il proprio parere "conta". Si tratta di un inganno
che gli anarchici denunciano da sempre e che tanti, forse i più,
riconoscono come tale. Chi crede, votando, di contare davvero qualcosa?
Chi crede di incidere sulle scelte che vengono effettuate in suo nome e
senza il suo consenso? Pochi, pochissimi. I più esprimono la
rassegnata ed impotente sapienza da bar del "sono tutti uguali", del
"non ce n'è uno che non mangi e si faccia i propri interessi", e
così via. Sono i rassegnati al sistema, quelli che ogni giorno
recitano la stessa litania in strada, nelle pause del lavoro, con amici
e parenti. Quelli che si credono furbi perché sanno che il mondo
è dei furbi. Quelli che poi votano e passano i successivi
quattro anni a lamentarsene, a promettere che non lo faranno
più, che è stata l'ultima volta. Sono quelli del "non mi
fregano più" e passano il tempo in ginocchio.
Oltre ai disincantati da bar ci sono i disincantati impegnati, quelli
che passano mesi a rosicare se andare o non andare, se turarsi il naso
o fuggire alla puzza. Sono il tristissimo popolo della sinistra, quello
dei sempre traditi, quelli delle speranze imbalsamate come la mummia di
Lenin, quelli che non vorrebbero ma alla fine ci vanno lo stesso,
perché il meno peggio e meglio del peggio. Sono gli stessi che
magari ti trovi insieme nelle assemblee, nelle lotte, quelli che,
quando possono, scelgono di agire in prima persona, di non delegare, di
fare della politica il luogo della partecipazione diretta. Brave
persone schiacciate da maldipancia morali. Le stesse che poi
bestemmiano santi e madonne quando Fausto va alla parata del 2 giugno
con il distintivo arcobaleno, quando ti aprono un nuovo cpt, quando
cacciano i poveri dalle strade, quando bruciano i campi rom, quando la
guerra va avanti con il voto dei loro "rappresentanti". Li anima
l'imperativo del "realismo", la necessità di fermare le destre,
andando sempre più a destra, accettando, sia pure cristonando,
le peggiori porcherie: dalla devastazione e saccheggio del territorio
alla rapina quotidiana della servitù salariata, dalla guerra
vestita da pace alla pace sociale, la guerra non dichiarata che ogni
giorno ammazza sul fronte del lavoro.
L'imperativo del "realismo" rende ciechi. Una follia che affonda le
radici nella convinzione che il disordine in cui siamo forzati a
vivere, l'orrore statuale e capitalista, sia intrascendibile, uno
spazio chiuso, dove non è possibile il conflitto, dove persino
l'esodo pare negato.
La grande capacità plastica della democrazia è riuscita
là dove hanno fallito le più feroci dittature. La
democrazia non spezza ma piega, rende duttili ad un mondo che –
astutamente - non pretende il essere il migliore di quelli auspicabili
ma il solo decente tra quelli possibili. La democrazia è
costitutivamente il "meno peggio", il luogo della rassegnazione
inevitabile, programmata, e, alla fin fine, scelta. Fuori, oltre,
c'è il caos. Così in troppi finiscono con il decidere
scientemente di non contare ma di essere contati. Ogni quattro anni.
Questa situazione interroga la nostra capacità critica come
anarchici, la mette costantemente alla prova, pretende che sappia farsi
più acuta. Di fronte allo stridere isterico delle sirene del
"realismo" fantastico, della democrazia trionfante, di fronte alla
politica del maldipancia, all'etica del meno peggio, il duro realismo
dell'utopia, che si esalta nelle lotte quotidiane, nelle esperienze di
autonomia dall'istituito, fa fatica a rompere la rassegnazione
all'oggi. Non la rompe perché si scontra con la convinzione che
non vi sia spazio per un altro mondo. L'altro mondo possibile
echeggiato nelle lotte del movimento no global si è in fretta
acquattato tra le pieghe della compatibilità con l'esistente: si
è così frantumata una carica sovversiva che non poteva
che andar oltre, alludere ad una trasformazione rivoluzionaria o
decadere.
La rassegnazione all'oggi è figlia dell'incapacità ad
aprire – nell'immediato – spazi di sottrazione conflittuale alla morsa
del dominio.
Chi si tura il naso andando a votare, non sa poi prescindere dalla
scelta istituzionale, a ricorrere, non foss'altro come garante e
paraculo, al solito santo in paradiso, magari operaio, magari no
global, magari "compagno". Così movimenti di lotta, che, talora,
sul territorio, sanno esprimere cariche decisamente radicali, finiscono
con l'essere invischiati nella logica della fedeltà, dell'amico
buono, che magari vorrebbe ma non può, anche se fa il ministro o
il deputato. Sempre vergini anche dopo aver affondato le mani nella
merda del palazzo.
Chi sceglie di votare sceglie di porsi sotto tutela, e di porre sotto
tutela i movimenti sociali. Lo fa per realismo, ma il suo è il
realismo dei suicidi. Meglio, decisamente meglio, navigare nelle acque
poco note dell'utopia, per contare, non per essere contati.
Ma.Ma.