Umanità Nova, n.13 del 13 aprile 2008, anno 88

Il realismo dell'utopia. Elezioni: chi conta e chi viene contato


Su un muro della piazza del mercato di S. Ambrogio campeggia una scritta rossa in campo bianco: "scegli di contare, non votare!". Una bella scritta, che capovolge il senso comune e induce alla riflessione. Il mito democratico ha il suo fulcro nel rito elettorale, nell'urna come emblema di libertà. Il discrimine tra i regimi dittatoriali e quelli liberali è dato dalla possibilità di effettuare elezioni. Le elezioni sono il momento supremo in cui si esercita la cittadinanza, in cui il proprio parere "conta". Si tratta di un inganno che gli anarchici denunciano da sempre e che tanti, forse i più, riconoscono come tale. Chi crede, votando, di contare davvero qualcosa? Chi crede di incidere sulle scelte che vengono effettuate in suo nome e senza il suo consenso? Pochi, pochissimi. I più esprimono la rassegnata ed impotente sapienza da bar del "sono tutti uguali", del "non ce n'è uno che non mangi e si faccia i propri interessi", e così via. Sono i rassegnati al sistema, quelli che ogni giorno recitano la stessa litania in strada, nelle pause del lavoro, con amici e parenti. Quelli che si credono furbi perché sanno che il mondo è dei furbi. Quelli che poi votano e passano i successivi quattro anni a lamentarsene, a promettere che non lo faranno più, che è stata l'ultima volta. Sono quelli del "non mi fregano più" e passano il tempo in ginocchio.
Oltre ai disincantati da bar ci sono i disincantati impegnati, quelli che passano mesi a rosicare se andare o non andare, se turarsi il naso o fuggire alla puzza. Sono il tristissimo popolo della sinistra, quello dei sempre traditi, quelli delle speranze imbalsamate come la mummia di Lenin, quelli che non vorrebbero ma alla fine ci vanno lo stesso, perché il meno peggio e meglio del peggio. Sono gli stessi che magari ti trovi insieme nelle assemblee, nelle lotte, quelli che, quando possono, scelgono di agire in prima persona, di non delegare, di fare della politica il luogo della partecipazione diretta. Brave persone schiacciate da maldipancia morali. Le stesse che poi bestemmiano santi e madonne quando Fausto va alla parata del 2 giugno con il distintivo arcobaleno, quando ti aprono un nuovo cpt, quando cacciano i poveri dalle strade, quando bruciano i campi rom, quando la guerra va avanti con il voto dei loro "rappresentanti". Li anima l'imperativo del "realismo", la necessità di fermare le destre, andando sempre più a destra, accettando, sia pure cristonando, le peggiori porcherie: dalla devastazione e saccheggio del territorio alla rapina quotidiana della servitù salariata, dalla guerra vestita da pace alla pace sociale, la guerra non dichiarata che ogni giorno ammazza sul fronte del lavoro.
L'imperativo del "realismo" rende ciechi. Una follia che affonda le radici nella convinzione che il disordine in cui siamo forzati a vivere, l'orrore statuale e capitalista, sia intrascendibile, uno spazio chiuso, dove non è possibile il conflitto, dove persino l'esodo pare negato.
La grande capacità plastica della democrazia è riuscita là dove hanno fallito le più feroci dittature. La democrazia non spezza ma piega, rende duttili ad un mondo che – astutamente - non pretende il essere il migliore di quelli auspicabili ma il solo decente tra quelli possibili. La democrazia è costitutivamente il "meno peggio", il luogo della rassegnazione inevitabile, programmata, e, alla fin fine, scelta. Fuori, oltre, c'è il caos. Così in troppi finiscono con il decidere scientemente di non contare ma di essere contati. Ogni quattro anni.
Questa situazione interroga la nostra capacità critica come anarchici, la mette costantemente alla prova, pretende che sappia farsi più acuta. Di fronte allo stridere isterico delle sirene del "realismo" fantastico, della democrazia trionfante, di fronte alla politica del maldipancia, all'etica del meno peggio, il duro realismo dell'utopia, che si esalta nelle lotte quotidiane, nelle esperienze di autonomia dall'istituito, fa fatica a rompere la rassegnazione all'oggi. Non la rompe perché si scontra con la convinzione che non vi sia spazio per un altro mondo. L'altro mondo possibile echeggiato nelle lotte del movimento no global si è in fretta acquattato tra le pieghe della compatibilità con l'esistente: si è così frantumata una carica sovversiva che non poteva che andar oltre, alludere ad una trasformazione rivoluzionaria o decadere.
La rassegnazione all'oggi è figlia dell'incapacità ad aprire – nell'immediato – spazi di sottrazione conflittuale alla morsa del dominio.
Chi si tura il naso andando a votare, non sa poi prescindere dalla scelta istituzionale, a ricorrere, non foss'altro come garante e paraculo, al solito santo in paradiso, magari operaio, magari no global, magari "compagno". Così movimenti di lotta, che, talora, sul territorio, sanno esprimere cariche decisamente radicali, finiscono con l'essere invischiati nella logica della fedeltà, dell'amico buono, che magari vorrebbe ma non può, anche se fa il ministro o il deputato. Sempre vergini anche dopo aver affondato le mani nella merda del palazzo.
Chi sceglie di votare sceglie di porsi sotto tutela, e di porre sotto tutela i movimenti sociali. Lo fa per realismo, ma il suo è il realismo dei suicidi. Meglio, decisamente meglio, navigare nelle acque poco note dell'utopia, per contare, non per essere contati.

Ma.Ma.

home | sommario | comunicati | archivio | link | contatti