Umanità Nova, n.14 del 20 aprile 2008, anno 88

Fra mozzarelle sospette e brunelli allungati... Cibo e veleni nella società dello spettacolo


Niente si salva dalla globalizzazione e dal fondamentalismo del mercato, niente si salva dalle leggi del capitale e dalle regole imposte dall'Occidente al mondo. Neppure la bontà degli innocenti latticini. Le diossine, molecole di sintesi, entrano nel sistema riproduttivo dei mammiferi ed hanno la tendenza subdola a stabilizzarsi nel ciclo naturale a partire dall'aria e dall'acqua. Qualcuno ha ipotizzato che, se andiamo avanti di questo passo, a risentirne non sarà soltanto l'export di mozzarelle campane verso la Corea, ma forse anche il latte… "materno" (?).
Sarà allora sufficiente avvertire – educatamente s'intende – gli inquinatori che alla fin fine faranno del male anche a loro stessi? Il veleno che respiriamo e che ci ritroviamo nel piatto (e poi negli apparati genitali, nelle ghiandole mammarie…) e le polveri sottili, insieme a tutto il resto, ci vengono rappresentati quasi come fatalità, danno collaterale necessario, prezzo da pagare allo sviluppo, o magari moneta di scambio da spendere in desiderabili benefit della modernità. In realtà tutto questo è solo la prevedibile conseguenza di uno sfruttamento disumano e dissennato delle risorse. È la base dell'attuale assetto economico mondiale, fondata su concezioni – per dirla con Murray Bookchin – che relegano la natura nel ruolo di "spietato mercato competitivo" stravolgendone l'originaria attitudine a "creativa e feconda comunità biotica".
Si deve partire dal cibo come questione planetaria, paradigma delle disuguaglianze e del "malsviluppo", per metterlo al centro della nostra azione politica, sociale, culturale. "Buono, pulito e giusto" – nell'efficace intuizione di un noto pamphlet di successo di Carlo Petrini – stanno proprio a significare la necessaria inscindibilità di questi concetti. Ora se applichiamo lo schema alla realtà che ci circonda si constata con facilità che: 1) non tutto ciò che è "buono", con riferimento alla genuinità ed alla gradevolezza organolettica, è necessariamente "pulito", ossia prodotto con criteri eco-compatibili, di onestà, trasparenza ed etica; 2) ciò che non è pulito, guarda caso, non è nemmeno "giusto" in quanto inficiato da comportamenti egoistici sul piano sociale ed economico, predatori nei confronti dell'ambiente. Ergo, il prodotto "di nicchia" (secondo questa accezione un po' beota) – sebbene risponda a un certo criterio di effetto ritardante sull'omologazione – rappresenta un buono finto o, nella migliore delle ipotesi, un buono provvisorio. Niente si salva.
La società dello spettacolo, intanto, ha già messo il cibo al centro del suo agire quotidiano. Con i depistaggi e la falsa informazione, con le chiamate a raccolta per la difesa strenua del cosiddetto "made in Italy" e della sua insidiata reputazione. Ormai perfino i più sprovveduti fra sindaci e presidenti di province e regioni hanno capito che bisogna investire su comunicazione e immagine, sull'enogastronomia come fattore identitario del territorio, come "volano" e "per fare sistema". Nientemeno. Ed è naturalmente il denaro pubblico che si spende per una promozione che va tutta a pro delle aziende. La confusione mediatica, atta a disorientare i consumatori, crea mobilitazione generale per la difesa del prodotto nazionale contro le minacce esterne, non meglio identificate. E comunque, ci fanno capire, se non ci saranno provvedimenti idonei di salvaguardia e garanzia dei profitti ciò avrà una ricaduta negativa, a partire dai livelli occupazionali nei settori economici interessati e nel relativo indotto. Il discorso non cambia. Sia che si parli della diossina nelle mozzarelle di bufala, oppure che ci si riferisca al meno velenoso cabernet allegramente sostituito al prezioso sangiovese grosso nelle bottiglie mito di brunello (indagati Antinori, Argiano, Banfi, Frescobaldi… roba da 50 euro a bottiglia minimo). Idem per il "chianti di Afragola", per i passiti adulterati di Pantelleria prodotti dall'ex ministro dell'agricoltura Calogero Mannino e dall'ex star del jetset giornalistico mondano Salvatore Murana. Se questa è la situazione per i consumatori colti e raffinati, per i poveracci non può andare certo meglio. "Velenitaly" (inchiesta esplosiva ma non inaspettata de L'Espresso della scorsa settimana) parla di "concimi, sostanze cancerogene, acqua, zucchero, acido muriatico e solo un quinto di mosto" come ricetta base adoperata per la produzione di 70 milioni di litri di "vino" a basso costo venduti in tutta Italia. Ma non è una sorpresa e bastava fare due conti per capirlo. In verità ci sembrava impossibile che, dopo lo storico scandalo metanolo degli anni '80, quei noti signori si fossero tutti riciclati in simpatici boy scout fissati con l'ecologia.
Il milieu associativo dei "poverologi" di casa nostra, o più esattamente un loro ben identificato settore, si ostina a contenere il problema del diritto universale al cibo nell'ambito di una mera questione di accessibilità che, sebbene non degeneri sempre nella deleteria carità pelosa, tuttavia esula totalmente dalla questione centrale: ossia la qualità, ossia su cosa davvero si mangi o si faccia per forza mangiare agli altri. Lo stress ambientale, il riscaldamento globale, l'esaurimento delle risorse non rinnovabili creano momentanei privilegi di pochi da una parte, morti e malattie dall'altra, due facce della stessa medaglia. Anche nei paesi ricchi ed esportatori di democrazia, in quelli per intenderci dove i poveri sono grassi, il cibo di bassissima qualità (che sia deliberatamente voluta o irresponsabilmente causata) è ormai quasi un inamovibile dato antropologico culturale a cui lor signori vorrebbero che ci rassegnassimo.
Le disuguaglianze ed i genocidi sociali su cui si è basato uno "sviluppo" vocato alla distruzione ambientale minacciano la sopravvivenza stessa del pianeta. Nei paesi poveri si è verificata così la distruzione di saperi e di altri modi di vivere per far posto a culture competitive il cui grado di civiltà è dato solo dal mercato. Il danno maggiore prodotto dal progresso industriale e post-industriale è stato l'equazione donna-natura e la definizione di entrambe come passive, inerti, materia prima da manipolare. Così il patriarcato occidentale ha creato uno sviluppo "privo del principio femminile, conservativo, ecologico e fondato sullo sfruttamento delle donne e della natura" (Vandana Shiva).
Ai vecchi bacucchi del "socialismo in un paese solo" era persino troppo facile spiegare che, per la nota legge dei vasi comunicanti, tale loro progetto – sempre che fosse formulato in buona fede – avrebbe avuto poche chance di realizzazione. Lo stesso discorso ci pare che oggi possa valere per chi pensi che possano esistere "isole felici" o quasi, da un punto di vista delle eco-compatibilità. Per chi insomma ritenga possibile realizzare una vita di qualità per pochi ma furbi (danarosi oppure acculturati), egoisticamente concepita, senza porsi il problema della giustizia sociale. Per chi non consideri essenziale pratiche antagoniste e critica radicale al sistema capitalistico, responsabile principale della disarmonia fra esseri umani e natura.
Ci piacciono i gruppi di acquisto solidale autogestiti e ammiriamo gli eco-chef, ma forse questo non basta. Ci piacciono le iniziative di ristorazione "a chilometri zero" ma nemmeno queste sono sufficientemente credibili. L'assunto che il cibo locale, solo in quanto tale, pesi meno sull'ambiente deve essere infatti dimostrato di volta in volta, ingrediente per ingrediente. Visto che, oltre l'inquinamento da trasporto, misurabile in emissioni di CO2, si dovrebbe considerare anche l'impatto dovuto alle modalità di produzione. Ad esempio, chi ci assicura che il nostro pinzimonio di verdure colte a un tiro di schioppo da casa non sia inquinato dai miasmi di qualche fabbrica o termovalorizzatore per rifiuti speciali? Bisogna ripartire dalla sovranità alimentare territoriale e da una applicazione seria e conseguente dei principi dell'ecologia sociale che oggi conta su teorici libertari osannati da tutti (o quasi). Ed a tale proposito sarà anche bene far capire a politici di mestiere ed a rappresentanti delle cosiddette istituzioni che applaudire Vandana Shiva da una parte mentre dall'altra si fanno spallucce sugli inceneritori è un comportamento davvero poco elegante.

Giorgio Sacchetti

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