Niente si salva dalla globalizzazione e dal fondamentalismo del
mercato, niente si salva dalle leggi del capitale e dalle regole
imposte dall'Occidente al mondo. Neppure la bontà degli
innocenti latticini. Le diossine, molecole di sintesi, entrano nel
sistema riproduttivo dei mammiferi ed hanno la tendenza subdola a
stabilizzarsi nel ciclo naturale a partire dall'aria e dall'acqua.
Qualcuno ha ipotizzato che, se andiamo avanti di questo passo, a
risentirne non sarà soltanto l'export di mozzarelle campane
verso la Corea, ma forse anche il latte… "materno" (?).
Sarà allora sufficiente avvertire – educatamente s'intende – gli
inquinatori che alla fin fine faranno del male anche a loro stessi? Il
veleno che respiriamo e che ci ritroviamo nel piatto (e poi negli
apparati genitali, nelle ghiandole mammarie…) e le polveri sottili,
insieme a tutto il resto, ci vengono rappresentati quasi come
fatalità, danno collaterale necessario, prezzo da pagare allo
sviluppo, o magari moneta di scambio da spendere in desiderabili
benefit della modernità. In realtà tutto questo è
solo la prevedibile conseguenza di uno sfruttamento disumano e
dissennato delle risorse. È la base dell'attuale assetto
economico mondiale, fondata su concezioni – per dirla con Murray
Bookchin – che relegano la natura nel ruolo di "spietato mercato
competitivo" stravolgendone l'originaria attitudine a "creativa e
feconda comunità biotica".
Si deve partire dal cibo come questione planetaria, paradigma delle
disuguaglianze e del "malsviluppo", per metterlo al centro della nostra
azione politica, sociale, culturale. "Buono, pulito e giusto" –
nell'efficace intuizione di un noto pamphlet di successo di Carlo
Petrini – stanno proprio a significare la necessaria
inscindibilità di questi concetti. Ora se applichiamo lo schema
alla realtà che ci circonda si constata con facilità che:
1) non tutto ciò che è "buono", con riferimento alla
genuinità ed alla gradevolezza organolettica, è
necessariamente "pulito", ossia prodotto con criteri eco-compatibili,
di onestà, trasparenza ed etica; 2) ciò che non è
pulito, guarda caso, non è nemmeno "giusto" in quanto inficiato
da comportamenti egoistici sul piano sociale ed economico, predatori
nei confronti dell'ambiente. Ergo, il prodotto "di nicchia" (secondo
questa accezione un po' beota) – sebbene risponda a un certo criterio
di effetto ritardante sull'omologazione – rappresenta un buono finto o,
nella migliore delle ipotesi, un buono provvisorio. Niente si salva.
La società dello spettacolo, intanto, ha già messo il
cibo al centro del suo agire quotidiano. Con i depistaggi e la falsa
informazione, con le chiamate a raccolta per la difesa strenua del
cosiddetto "made in Italy" e della sua insidiata reputazione. Ormai
perfino i più sprovveduti fra sindaci e presidenti di province e
regioni hanno capito che bisogna investire su comunicazione e immagine,
sull'enogastronomia come fattore identitario del territorio, come
"volano" e "per fare sistema". Nientemeno. Ed è naturalmente il
denaro pubblico che si spende per una promozione che va tutta a pro
delle aziende. La confusione mediatica, atta a disorientare i
consumatori, crea mobilitazione generale per la difesa del prodotto
nazionale contro le minacce esterne, non meglio identificate. E
comunque, ci fanno capire, se non ci saranno provvedimenti idonei di
salvaguardia e garanzia dei profitti ciò avrà una
ricaduta negativa, a partire dai livelli occupazionali nei settori
economici interessati e nel relativo indotto. Il discorso non cambia.
Sia che si parli della diossina nelle mozzarelle di bufala, oppure che
ci si riferisca al meno velenoso cabernet allegramente sostituito al
prezioso sangiovese grosso nelle bottiglie mito di brunello (indagati
Antinori, Argiano, Banfi, Frescobaldi… roba da 50 euro a bottiglia
minimo). Idem per il "chianti di Afragola", per i passiti adulterati di
Pantelleria prodotti dall'ex ministro dell'agricoltura Calogero Mannino
e dall'ex star del jetset giornalistico mondano Salvatore Murana. Se
questa è la situazione per i consumatori colti e raffinati, per
i poveracci non può andare certo meglio. "Velenitaly" (inchiesta
esplosiva ma non inaspettata de L'Espresso della scorsa settimana)
parla di "concimi, sostanze cancerogene, acqua, zucchero, acido
muriatico e solo un quinto di mosto" come ricetta base adoperata per la
produzione di 70 milioni di litri di "vino" a basso costo venduti in
tutta Italia. Ma non è una sorpresa e bastava fare due conti per
capirlo. In verità ci sembrava impossibile che, dopo lo storico
scandalo metanolo degli anni '80, quei noti signori si fossero tutti
riciclati in simpatici boy scout fissati con l'ecologia.
Il milieu associativo dei "poverologi" di casa nostra, o più
esattamente un loro ben identificato settore, si ostina a contenere il
problema del diritto universale al cibo nell'ambito di una mera
questione di accessibilità che, sebbene non degeneri sempre
nella deleteria carità pelosa, tuttavia esula totalmente dalla
questione centrale: ossia la qualità, ossia su cosa davvero si
mangi o si faccia per forza mangiare agli altri. Lo stress ambientale,
il riscaldamento globale, l'esaurimento delle risorse non rinnovabili
creano momentanei privilegi di pochi da una parte, morti e malattie
dall'altra, due facce della stessa medaglia. Anche nei paesi ricchi ed
esportatori di democrazia, in quelli per intenderci dove i poveri sono
grassi, il cibo di bassissima qualità (che sia deliberatamente
voluta o irresponsabilmente causata) è ormai quasi un
inamovibile dato antropologico culturale a cui lor signori vorrebbero
che ci rassegnassimo.
Le disuguaglianze ed i genocidi sociali su cui si è basato uno
"sviluppo" vocato alla distruzione ambientale minacciano la
sopravvivenza stessa del pianeta. Nei paesi poveri si è
verificata così la distruzione di saperi e di altri modi di
vivere per far posto a culture competitive il cui grado di
civiltà è dato solo dal mercato. Il danno maggiore
prodotto dal progresso industriale e post-industriale è stato
l'equazione donna-natura e la definizione di entrambe come passive,
inerti, materia prima da manipolare. Così il patriarcato
occidentale ha creato uno sviluppo "privo del principio femminile,
conservativo, ecologico e fondato sullo sfruttamento delle donne e
della natura" (Vandana Shiva).
Ai vecchi bacucchi del "socialismo in un paese solo" era persino troppo
facile spiegare che, per la nota legge dei vasi comunicanti, tale loro
progetto – sempre che fosse formulato in buona fede – avrebbe avuto
poche chance di realizzazione. Lo stesso discorso ci pare che oggi
possa valere per chi pensi che possano esistere "isole felici" o quasi,
da un punto di vista delle eco-compatibilità. Per chi insomma
ritenga possibile realizzare una vita di qualità per pochi ma
furbi (danarosi oppure acculturati), egoisticamente concepita, senza
porsi il problema della giustizia sociale. Per chi non consideri
essenziale pratiche antagoniste e critica radicale al sistema
capitalistico, responsabile principale della disarmonia fra esseri
umani e natura.
Ci piacciono i gruppi di acquisto solidale autogestiti e ammiriamo gli
eco-chef, ma forse questo non basta. Ci piacciono le iniziative di
ristorazione "a chilometri zero" ma nemmeno queste sono
sufficientemente credibili. L'assunto che il cibo locale, solo in
quanto tale, pesi meno sull'ambiente deve essere infatti dimostrato di
volta in volta, ingrediente per ingrediente. Visto che, oltre
l'inquinamento da trasporto, misurabile in emissioni di CO2, si
dovrebbe considerare anche l'impatto dovuto alle modalità di
produzione. Ad esempio, chi ci assicura che il nostro pinzimonio di
verdure colte a un tiro di schioppo da casa non sia inquinato dai
miasmi di qualche fabbrica o termovalorizzatore per rifiuti speciali?
Bisogna ripartire dalla sovranità alimentare territoriale e da
una applicazione seria e conseguente dei principi dell'ecologia sociale
che oggi conta su teorici libertari osannati da tutti (o quasi). Ed a
tale proposito sarà anche bene far capire a politici di mestiere
ed a rappresentanti delle cosiddette istituzioni che applaudire Vandana
Shiva da una parte mentre dall'altra si fanno spallucce sugli
inceneritori è un comportamento davvero poco elegante.
Giorgio Sacchetti