In Italia, ogni tanto, si parla di inflazione. Benché sia un
termine ormai di uso comune, il concetto che sottintende è
rimasto incompreso ai più. Cerchiamo di capire meglio di che si
tratta.
La parola deriva dal latino e significa gonfiore. In economia indica l'aumento dei prezzi.
Spesso l'inflazione è indicata come percentuale d'incremento dei
prezzi sul periodo precedente: si dovrebbe dire "tasso d'inflazione",
ma tant'è.
Che la statistica, in generale, sia una semplificazione arbitraria
della realtà è cosa nota. Per quanto riguarda il calcolo
dell'inflazione, è inevitabile.
I prezzi dei prodotti non cambiano tutti allo stesso modo: alcuni
aumentano un po' di più, altri aumentano un po' meno, altri,
più raramente, diminuiscono. Per poter calcolare un incremento
medio bisogna capire quanto "pesa" l'incremento di ogni singolo
prodotto.
Però nessuno di noi compra, in maniera costante, le stesse
quantità, degli stessi prodotti, delle stesse marche. I prodotti
stessi cambiano (un processore di computer diventa più veloce,
un videoregistratore diventa un lettore di DVD). È già
difficile, quindi, calcolare quale sia il tasso d'inflazione
"personale"; figurarsi quando si tratta di determinare un "paniere" che
vada bene per tutti. Bastano poche differenze tra due individui simili
(abitare o meno in affitto, avere un figlio o no), per cambiare
completamente la struttura dei consumi di una persona rispetto ad
un'altra.
Cercare di rappresentare con un unico numero le diverse situazioni
è quindi comunque arbitrario, anche quando si usa una procedura
statisticamente corretta.
In Italia, poi, c'è un ulteriore complicazione, "politica".
L'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati
(che è uno dei diversi tassi d'inflazione calcolati dall'ISTAT,
l'ente statistico di stato) viene utilizzato come base di calcolo per
adeguare i salari in occasione dei rinnovi dei contratti di lavoro.
Senza addentrarci troppo nel meccanismo di adeguamento, basti sapere
che più alta è l'inflazione rilevata, più dovranno
aumentare i salari.
È evidente l'interesse di qualcuno a far sì che
l'inflazione sia sottostimata nella rilevazione: più basso
è il tasso d'inflazione rilevato rispetto a quello effettivo,
minori saranno i salari reali, maggiori saranno i profitti delle
imprese.
Per i meccanismi sopra riportati dell'arbitrarietà di qualsiasi
rilevazione dell'inflazione, l'ISTAT ha facile gioco nel falsificare i
dati: basta dare un peso maggiore ad alcuni prodotti e minore ad altri.
È questo il motivo per cui, nel paniere utilizzato dall'ISTAT,
l'aumento del costo dei mobili di una casa vale il 30% in più
dell'aumento del costo dell'affitto dello stesso appartamento. O che il
peso dell'aumento del costo della benzina sia un terzo inferiore al
peso dell'aumento del costo del meccanico.
In più, in una categoria merceologica, l'ISTAT non misura la
media dei prezzi, ma solo quello del prodotto più venduto di
quella categoria. Ora, in un mercato con pochi prodotti questo dato
può essere indicativo, ma in un mercato con molti prodotti
differenziati (pensiamo al mercato delle autovetture, o a quello delle
calzature) il fatto di essere il prodotto più venduto non dice
nulla rispetto all'andamento dei prezzi in quel mercato. Oltretutto il
prezzo non è indipendente dalle vendite di un prodotto: il fatto
di costare di meno può fare di un prodotto il più
venduto, sottostimando in questo modo l'inflazione per quel comparto.
Nell'indice dei prezzi non vengono poi considerate alcune spese (come
le assicurazioni, le spese di assistenza medica, il prezzo di acquisto
degli immobili) che, anche per questo motivo, sono cresciute
incontrollate negli ultimi anni ed hanno contribuito alla falcidia dei
bilanci familiari.
Insomma con questo sistema non c'è da meravigliarsi della
perdita del potere d'acquisto dei salari. Questa situazione risale al
1993, da quando è stato introdotto questo metodo di calcolo
degli aumenti retributivi, ma è diventata drammatica con
l'arrivo dell'euro. Solo negli ultimi 5 anni i salari reali sono
diminuiti di oltre il 15%. Ogni anno sono in aumento in Italia il
numero di famiglie considerate statisticamente "povere": con un potere
d'acquisto familiare inferiore alla metà della media delle
famiglie (che è già bassa di suo). Siamo arrivati a circa
l'11% di famiglie indigenti. D'altro canto, anche senza conoscere le
statistiche, basta farsi un giro per i mercatini rionali intorno
all'una di un giorno qualsiasi, per vedere pensionati rovistare nei
bidoni della spazzatura alla ricerca della merce invenduta appena
gettata.
Come spesso capita, se qualcuno ci rimette, qualcun altro ci guadagna:
parallelamente sta aumentando anche il numero dei ricchi in Italia.
Quelli che hanno disponibilità patrimoniali (escludendo gli
immobili) superiori ai 500.000 euro sono cresciuti, negli ultimi tre
anni, del 10%.
Questo aumento delle differenze di reddito avviene in maniera continua
e subdola. Ad ogni aumento dei prezzi tutti scaricano il maggior costo
sul prezzo di vendita della loro merce tranne i lavoratori dipendenti
che si trovano con il salario diminuito in termini reali. Se aumenta il
prezzo delle materie prime l'industriale aumenta il prezzo di vendita
all'ingrosso, se aumenta il prezzo di vendita all'ingrosso il
negoziante aumenta il prezzo di vendita al dettaglio, se aumenta il
prezzo di vendita al dettaglio il lavoratore dipendente (precario o
meno che sia) può solo diminuire la quantità consumata,
visto che il suo stipendio è rimasto uguale.
Il problema non è quindi che i prezzi salgano del 2% o del 3%, il problema è che non salgono salari e pensioni!
Ci attende nei prossimi mesi una crisi nera. In Italia non se ne
è parlato perché c'erano le elezioni. Con questo modello
produttivo basato sui salari bassissimi e precarietà; governo e
padronato punteranno, probabilmente, all'ulteriore compressione dei
costi della manodopera.
Questa scelta è intuitivamente suicida, anche da un punto di
vista capitalistico: se uno deve produrre investendo nel basso costo
della manodopera (e non nella tecnologia e nella qualificazione
professionale), apre una fabbrica in Cina e, magari, la chiude in
Italia.
L'uso di questo modello produttivo non farà che aggravare la
crisi e cercherà di caricarla tutta sulle spalle delle famiglie
a reddito fisso. O si riesce a rilanciare un ciclo di lotte per il
recupero del potere d'acquisto dei salari o vedremo un ulteriore
incremento della macelleria sociale cui stiamo assistendo da diversi
anni.
Fricche