Nel mese appena trascorso, l'astensionista si è trovato spesso
nella situazione paradossale di sentirsi addossare la
responsabilità della presenza o meno, in Parlamento, della
Sinistra Arcobaleno, contenitore elettorale di Prc, PdCI, Verdi, SD.
Dopo la conta dei voti, scopriamo che non sono stati gli astensionisti,
o almeno, che essi hanno solo concorso alla sparizione "violenta" del
suddetto cartello rosso-verde: un altro partito ha fatto l'asso
pigliatutto nell'elettorato tradizionalmente "di sinistra" ed è
la Lega Nord.
Alcuni dati, in Veneto, forniscono un quadro preciso e inquietante del
colpo grosso leghista, secondo partito regionale per la Camera e terzo
per il Senato.
In particolare, Verona è la città che incorona il
Carroccio con 187.164 voti, una percentuale di 33,04%, seguita da
Vicenza con il 31,12%, Treviso con il 30,95% e Padova con il 24,07%.
La percentuale regionale per la Camera è complessivamente di 27,09% e al Senato di 26,05%.
La Padania in questi giorni pubblica un'intervista a Rosi Mauro,
senatrice della Lega Nord e segretario generale del Sindacato Padano,
la quale sostiene che "è necessario tornare alla gabbie
salariali, a quella contrattazione regionale che adegua i salari e le
pensioni al reale costo della vita".
Possibile che le lavoratrici e i lavoratori siano impazziti al punto da
credere che le "gabbie salariali" siano la soluzione al crollo dei
salari e alla recessione economica in corso?
Spesso, in tempi lontani, si è fatto ricorso al potere del mito,
del simbolico, per spiegare processi reali molto complessi. Proviamo a
percorrere lo stesso sentiero e affidiamoci ad un cartello elettorale.
Un indiano, con tanto di copricapo pennuto coloratissimo e dal volto
rugoso e autorevole, fa da sfondo al manifesto elettorale della Lega
Nord. A caratteri cubitali c'è scritto: "loro (gli indiani,
n.d.a) non hanno potuto mettere regole all'immigrazione. Ora vivono
nelle riserve! Pensaci!"
Pierre André Taguieff, studioso del razzismo, chiama
"ritorsione" una siffatta strategia, ovvero l'utilizzo strumentale
della lotta di liberazione di una minoranza oggettivamente oppressa e
occupata nel proprio territorio per giustificare - in questo caso - la
propria lotta razzista e regionalista.
Alain de Benoist sostiene che "si ha diritto a dichiararsi a favore del
Black Power a condizione che si sia disposti a fare altrettanto con il
White Power, lo Yellow Power o il Red Power", e aggiungerebbero i
solerti leghisti, anche con il Padano Power.
Cosa c'entra un manifesto elettorale con i voti scippati dalla Lega al bacino elettorale arcobaleno?
In qualche forma, anche implicita, tutto ciò è legato dal minimo comune denominatore dell'egemonia culturale.
La domanda sottesa allo sfondamento padano in settori operai,
proletarizzati, tradizionalmente "di sinistra", è come abbiano
fatto a raggiungerli e a conquistarne la fiducia.
Non certo con un manifesto elettorale, sia chiaro. Ma l'utilizzo
spregiudicato di un immaginario "vicino" all'idea di liberazione che
è percepita a sinistra indica qualcosa. Non è nuovo,
certamente, l'uso di terminologie, concetti, finanche acronimi/nomi di
organizzazioni di destra mutuate indebitamente dalla sinistra
rivoluzionaria.
Forse il problema, per metà, trova una risposta anche in questo
strategico utilizzo di analisi e strategie sinistresche (ormai
"sinistrate") verso la "classe" di riferimento della sinistra
parlamentare.
Infatti, se da una parte si abbandona ogni riferimento analitico nei
confronti della "classe", dall'altra essa stessa non trova nella sua
storia culturale, politica, sindacale Pci-ista gli anticorpi necessari
per "leggere" la tentazione del differenzialismo regionale, xenofobo e
omofobo della Lega.
Aver votato per due anni (almeno) missioni di guerra in varie parti del
mondo sancisce qualcosa di più implicito della inammissibile
accettazione di morti civili inermi. Sancisce la fine
dell'internazionalismo operaio, quel principio secondo il quale ogni
lavoratore/lavoratrice è unito/a contro la classe padronale
multinazionale. In questo modo, intanto, si demolisce una delle
fondamenta portanti dell'uguaglianza di classe, che dovrebbe esistere
al di là di differenze etniche, religiose, sessuali, culturali
ecc…
Da parte sua la Cgil ha aperto la strada a tale involuzione, sostenendo
strenuamente l'economia nazionale e persino il made in Italy, a scapito
ovviamente dei lavoratori salariati degli altri Paesi.
Il colpo di grazia al traballante edificio classista-internazionalista
viene sferrato, infine, dalla triplice confederale, con l'accettazione
sciagurata di contratti atipici, precari, differenziati per migranti o
nativi suprematisti bianchi (e non, ovviamente, donne). Anche in questo
caso finisce nelle macerie la percezione, prima ancora che "la
coscienza", di essere "una" classe, di essere uguali perché tali
ci rende il vivere oggettivamente sotto l'oppressione della classe dei
proprietari.
Difficilmente un precario si sente uguale ad un lavoratore a tempo
indeterminato, così come una donna nei confronti di entrambi,
anche a diverso contratto, per non parlare di un migrante e così
via.
A fronte di una assenza così vasta di pratica politica, ideale,
analitica, culturale, il leghismo ha potuto sostenere facilmente le
ragioni di un regionalismo contro tutti gli altri, declinandolo sulla
sicurezza, sul contratto di lavoro ecc...
Se un lavoratore italiano può disinteressarsi alla sorte di
altri lavoratori colpiti dalle bombe, perché allora un padano
non può guadagnare più di un toscano o valere più
di un extracomunitario?
Il passo è breve quando si parla di quantità e non di qualità, quando i vasi sono "comunicanti".
È troppo facile scoprire oggi che la classe operaia o il bacino
elettorale dei sinistri istituzionali è razzista e omofobo, la
verità è che il Re è nudo e le
responsabilità sono adeguatamente da spartire tra chi ha
egemonizzato quel bacino per decine d'anni. Fino a scoprire, questa si
è una scoperta che speriamo acquisita, che rincorrendo la
politica della destra la si favorisce sino a giungere alla propria
autoliquidazione (aggiungeremmo, senza TFR).
Chi, invece, proprio non ci sta a liquidare la Lega come fenomeno da
buttare via senza tanti cerimoniali è Luca Casarini, portavoce
di coloro che dieci anni fa si definivano "Autonomi Padani" (e anche
"indiani padani").
In un'intervista di qualche giorno fa, con la benedizione di Massimo
Cacciari, il caporione disobbediente ha invocato "una Lega di
sinistra", evidentemente riferendosi all'incasso di voti ottenuti dal
partito padano ai danni "della sinistra ideologica alla Bertinotti". Ma
da dove viene questa tentazione di recuperare consensi
destro-sinistreschi?
È noto come il fenomeno "Lega" fosse stato notato da Casarini
&co nella geniale ed innovativa prospettiva politica del
"federalismo municipale" di cui Venezia-Mestre rappresentava il
laboratorio. All'epoca si rifiutava di considerare la Lega come mero
fenomeno ideologico-culturale, mentre altro era ritenuto "il cuore del
problema": il "potere costituente" della Lega, la capacità di
inventare ex novo una utopia, seppur "negativa".
L'utopia, positiva, alla quale mirano i leghisti di sinistra sembra
essere quella di cavalcare la proposta interclassista e fortemente
legata al territorio, della quale la Lega è sostenitrice, e
partecipare al banchetto lucroso proposto da Cacciari, prima con il
Partito del Nord Est, ed ancora oggi con la proposta di riforma in
senso federale dello Stato, grazie alla quale il maggiore potere
attribuito alle autonomie locali (Sindaci e Comuni in primis)
consentirebbe ai disobbedienti di occupare un posto a "sinistra". Con
buona pace della lotta al capitalismo e al neoliberismo.
Del resto, nella corsa a chi rincorre chi, si rischia di avere i
capogiri e trovarsi esattamente dalla parte sbagliata della barricata.
Una critica s-legata