Umanità Nova, n.15 del 27 aprile 2008, anno 88

Il rinvio a giudizio del mercenario ostaggio in Iraq. Ipocrisia di Stato


Salvatore Stefio, uno dei quattro contractor (leggasi mercenari) italiani che nel 2004 furono catturati dai ribelli iracheni, è stato rinviato a giudizio con l'accusa di "arruolamento o armamento non autorizzato a servizio di uno Stato estero", un reato per il quale sono previste pene fino a 15 anni di reclusione.
Con il suo socio Giampiero Spinelli, Stefio è accusato di aver arruolato Didri Forese e gli ex ostaggi italiani Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Fabrizio Quattrocchi. Come ricorderete, quella vicenda si concluse con la morte di Quattrocchi e la liberazione degli altri tre ostaggi dopo 56 giorni di prigionia.
A Stefio e a Spinelli la magistratura barese contesta di aver arruolato Agliana e Cupertino attraverso la Presidium corporation, una società con sede legale alle Seychelles (!). L'offerta era di portarli in territorio iracheno per farli militare, come fiancheggiatori, a favore delle truppe anglo-americane e contro la guerriglia locale.
Le reazioni dell'interessato al rinvio a giudizio sono state particolarmente scomposte. Stefio si è detto indignato, si è dichiarato vittima di una campagna diffamatoria e ha significativamente ricordato che tali insulti sono rivolti non solo e non tanto a lui, quanto alla figura del collega Quattrocchi, perito in Iraq e perciò insignito dal presidente Ciampi della medaglia d'oro al valor civile alla memoria.
Vero, proprio vero. Infatti, questa richiesta di rinvio a giudizio svela, nella sua essenza, la profonda ipocrisia che è propria delle istituzioni dello stato.
Il reato contestato – che è quello tipico dei mercenari – non entra nel merito di ciò che si fa in guerra, ovvero ammazzare ed essere ammazzati, ma affronta la questione su chi è legalmente autorizzato ad arruolare e a fare di ogni uomo un assassino. Solo lo stato può arruolare, formare eserciti e intraprendere politiche belliche scegliendo di volta in volta alleati e nemici. Solo lo stato può mandare al massacro e massacrare, tradire e depistare, arrestare o rilasciare. Ma tutto ciò che si muove nella zone grigia ai limiti della legalità statuale può comunque far comodo perché certi lavoretti sporchi possono essere utilmente affidati a chi gestisce il business della guerra evitando, laddove possibile, ulteriori coinvolgimenti delle truppe regolari.
Ma qualcosa, in quell'aprile del 2004, andò storto tra le sabbie irachene. E quando Quattrocchi fu ammazzato, la sua frase su come muore un italiano toccò le corde più barbare e reazionarie della retorica militarista tricolore al punto che, due anni dopo, il capo dello stato – su richiesta dell'allora ministro dell'interno Pisanu – conferì al Quattrocchi la medaglia d'oro con sommo gaudio di fascisti e teste vuote.
Oggi, la magistratura dà corpo a un concetto che gli antimilitaristi espressero subito senza troppi dubbi: le agenzie di sicurezza private, i contractor, le guardie private ingaggiate in Iraq e in altri teatri della guerra contemporanea non sono altro che la versione aggiornata dei soldati di ventura che, in ogni epoca, hanno dato ovunque il loro contributo a guerre, massacri, violenze. Oggi, l'intento della magistratura non è certo quello di mettere alla sbarra la guerra e i suoi orrori, ma di riaffermare la priorità dello stato su ogni altro soggetto belligerante ad esso formalmente esterno. A ben vedere, la medaglia a Quattrocchi e il procedimento giudiziario contro Stefio rappresentano in egual misura l'opportunismo di un sistema che – avocando a sé il monopolio legittimo della violenza – decide di volta in volta chi celebrare e chi perseguire purché si ribadisca che lo stato ha sempre ragione e che le sue guerre sono sempre giuste.

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