Umanità Nova, n.16 del 4 maggio 2008, anno 88

Primo Maggio. Né servi né padroni


Perchè il primo maggio non sia la rituale celebrazione di una "festa del lavoro" del secolo scorso, occorre prendere atto della situazione in cui si trova oggi il conflitto sociale. Ed il punto di partenza non può che essere il tentativo messo in atto da tempo, ma che oggi sembra riuscire, di cancellare la questione sociale dall'orizzonte delle società occidentali industrializzate, di democrazia e capitalismo "maturi". Si combinano qui l'onda lunga della fine della "utopia comunista" con lo svilupparsi di risposte sempre più reattive e reazionarie alla crisi economica che va maturando da anni. Da un lato, sembra essere venuta meno ogni "pensabilità" di un modo di vivere diverso da quello basato sul libero mercato e sulla democrazia liberale rappresentativa. Anzi, persino questa forma di organizzazione politica è alle corde, messa con le spalle al muro dalla necessità (o presunta tale) di "risposte immediate ed efficaci ai bisogni di una società 'complessa'", il cui modello di vita è "sotto attacco" da parte di molteplici nemici: dalla crisi economica, appunto, al terrorismo "fondamentalista". Non resta che il libero mercato per rispondere ai bisogni degli esseri umani; dato che il detto mercato è oggi come ieri basato sulla feroce competizione, è necessario attrezzarsi; ogni paese deve radunare le forze, mettere da parte le divisioni, nocive "a prescindere"; destra e sinistra, lavoratori subordinati e padroni, tutti uniti nel difendere la centralità dell'azienda come motore della società: il resto è "variabile dipendente".
Il resto si chiama lavoro vivo e ambiente: entrambi da sfruttare fino al midollo, per estrarne la "ricchezza della nazione", ricchezza che, come si sa, notoriamente resta in mani private. Dunque la contrapposizione tra detentori dei mezzi di produzione e prestatori di lavoro va archiviata come relitto di un passato, quello degli ultimi due secoli, che non deve più ritornare. Questo è il primo nodo della questione: il discorso mistificante di un "corporativismo di fatto" che puzza lontano un miglio di fascismo: ed infatti si accompagna con la diffidenza e l'aperta avversione persino nei confronti della democrazia parlamentare. Del resto se la società va governata come un'azienda, a comandare è uno solo, o comunque molto pochi..
Di contro a questa chiacchiera mistificante che tutti i mezzi di comunicazione di massa propinano da mattino a sera, sta la circostanza che il lavoro subordinato resta lo strumento attraverso cui la maggior parte delle persone si procura i mezzi di sostentamento, il denaro per casa, vestiti, ecc. ecc. E parliamo di lavoro subordinato non solo in senso giuridico, ma anche e, forse, sopratutto, in senso economico: giacché i milioni di lavoratori "autonomi" con un unico committente sono di fatto subordinati mascherati. La subordinazione, nel senso qui detto, è fenomeno sempre centrale del nostro mercato del lavoro: altro che "fine del lavoro"! E con la crisi che morde (per non parlare dei mutui sulla casa...) ed il "caro euro", per cercare di mantenere un tenore di vita decoroso l'unica strada offerta al lavoratore subordinato è quella di lavorare di più per avere una retribuzione all'altezza dei suoi (già modesti) bisogni. Così ecco la panacea della detassazione del lavoro straordinario; così ecco il trucco della detassazione del premio di produzione, le cui componenti sono basate sui bilanci aziendali, la cui redazione è totalmente in mano ai padroni stessi... Ecco l'altro nodo, cioè il fatto che la subordinazione sia una condizione che si va allargando, anziché restringendo.
La contraddizione è quindi quella di un fenomeno sociale che si espande e contemporaneamente viene mascherato, obliato, mistificato. Attenzione: la stessa circostanza che si parli quotidianamente dei morti sul lavoro sulla grande stampa o in televisione, è parte di una strategia di assuefazione e di spettacolarizzazione che fa scomparire la realtà quotidiana del lavoro sfruttato. Si incomincia a parlare anche dei salari che "non ce la fanno più" al tg delle 20, ma sempre per proporre le ricette confindustriali di cui sopra. Non si tratta, allora, per i subordinati di "bucare il video": tanti vogliono fare dei lavoratori un fenomeno mediatico come altri, in modo da sterilizzare la conflittualità intrinseca al modo di produzione in cui siamo immersi. Al lavoro non giova alcuna rappresentazione, potremmo dire. Non ha giovato essere snervato nella rappresentanza parlamentare e dei sindacati di stato concertativi. Non giova essere spettacolarizzato nella quotidiana mattanza. Perchè anche i morti, così, son tolti a coloro che, unici, potrebbero a ragione parlarne, celebrarli, piangerli, vendicarli: i loro compagni di lavoro. I subordinati devono partire da se stessi, incominciando ad impedire che in questo triste inizio di secolo persino la loro miseria e la loro morte siano oggetto di appropriazione altrui. E lacerando il velo su cui tutti i giorni viene proiettato il film scritto da altri che racconta di come vadano a braccetto per il bene comune padroni ed operai.

W.B.

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