Perchè il primo maggio non sia la rituale celebrazione di una
"festa del lavoro" del secolo scorso, occorre prendere atto della
situazione in cui si trova oggi il conflitto sociale. Ed il punto di
partenza non può che essere il tentativo messo in atto da tempo,
ma che oggi sembra riuscire, di cancellare la questione sociale
dall'orizzonte delle società occidentali industrializzate, di
democrazia e capitalismo "maturi". Si combinano qui l'onda lunga della
fine della "utopia comunista" con lo svilupparsi di risposte sempre
più reattive e reazionarie alla crisi economica che va maturando
da anni. Da un lato, sembra essere venuta meno ogni
"pensabilità" di un modo di vivere diverso da quello basato sul
libero mercato e sulla democrazia liberale rappresentativa. Anzi,
persino questa forma di organizzazione politica è alle corde,
messa con le spalle al muro dalla necessità (o presunta tale) di
"risposte immediate ed efficaci ai bisogni di una società
'complessa'", il cui modello di vita è "sotto attacco" da parte
di molteplici nemici: dalla crisi economica, appunto, al terrorismo
"fondamentalista". Non resta che il libero mercato per rispondere ai
bisogni degli esseri umani; dato che il detto mercato è oggi
come ieri basato sulla feroce competizione, è necessario
attrezzarsi; ogni paese deve radunare le forze, mettere da parte le
divisioni, nocive "a prescindere"; destra e sinistra, lavoratori
subordinati e padroni, tutti uniti nel difendere la centralità
dell'azienda come motore della società: il resto è
"variabile dipendente".
Il resto si chiama lavoro vivo e ambiente: entrambi da sfruttare fino
al midollo, per estrarne la "ricchezza della nazione", ricchezza che,
come si sa, notoriamente resta in mani private. Dunque la
contrapposizione tra detentori dei mezzi di produzione e prestatori di
lavoro va archiviata come relitto di un passato, quello degli ultimi
due secoli, che non deve più ritornare. Questo è il primo
nodo della questione: il discorso mistificante di un "corporativismo di
fatto" che puzza lontano un miglio di fascismo: ed infatti si
accompagna con la diffidenza e l'aperta avversione persino nei
confronti della democrazia parlamentare. Del resto se la società
va governata come un'azienda, a comandare è uno solo, o comunque
molto pochi..
Di contro a questa chiacchiera mistificante che tutti i mezzi di
comunicazione di massa propinano da mattino a sera, sta la circostanza
che il lavoro subordinato resta lo strumento attraverso cui la maggior
parte delle persone si procura i mezzi di sostentamento, il denaro per
casa, vestiti, ecc. ecc. E parliamo di lavoro subordinato non solo in
senso giuridico, ma anche e, forse, sopratutto, in senso economico:
giacché i milioni di lavoratori "autonomi" con un unico
committente sono di fatto subordinati mascherati. La subordinazione,
nel senso qui detto, è fenomeno sempre centrale del nostro
mercato del lavoro: altro che "fine del lavoro"! E con la crisi che
morde (per non parlare dei mutui sulla casa...) ed il "caro euro", per
cercare di mantenere un tenore di vita decoroso l'unica strada offerta
al lavoratore subordinato è quella di lavorare di più per
avere una retribuzione all'altezza dei suoi (già modesti)
bisogni. Così ecco la panacea della detassazione del lavoro
straordinario; così ecco il trucco della detassazione del premio
di produzione, le cui componenti sono basate sui bilanci aziendali, la
cui redazione è totalmente in mano ai padroni stessi... Ecco
l'altro nodo, cioè il fatto che la subordinazione sia una
condizione che si va allargando, anziché restringendo.
La contraddizione è quindi quella di un fenomeno sociale che si
espande e contemporaneamente viene mascherato, obliato, mistificato.
Attenzione: la stessa circostanza che si parli quotidianamente dei
morti sul lavoro sulla grande stampa o in televisione, è parte
di una strategia di assuefazione e di spettacolarizzazione che fa
scomparire la realtà quotidiana del lavoro sfruttato. Si
incomincia a parlare anche dei salari che "non ce la fanno più"
al tg delle 20, ma sempre per proporre le ricette confindustriali di
cui sopra. Non si tratta, allora, per i subordinati di "bucare il
video": tanti vogliono fare dei lavoratori un fenomeno mediatico come
altri, in modo da sterilizzare la conflittualità intrinseca al
modo di produzione in cui siamo immersi. Al lavoro non giova alcuna
rappresentazione, potremmo dire. Non ha giovato essere snervato nella
rappresentanza parlamentare e dei sindacati di stato concertativi. Non
giova essere spettacolarizzato nella quotidiana mattanza. Perchè
anche i morti, così, son tolti a coloro che, unici, potrebbero a
ragione parlarne, celebrarli, piangerli, vendicarli: i loro compagni di
lavoro. I subordinati devono partire da se stessi, incominciando ad
impedire che in questo triste inizio di secolo persino la loro miseria
e la loro morte siano oggetto di appropriazione altrui. E lacerando il
velo su cui tutti i giorni viene proiettato il film scritto da altri
che racconta di come vadano a braccetto per il bene comune padroni ed
operai.
W.B.