Lo sgombero della baraccopoli di Bovisa all'inizio di aprile è
stata l'ultima delle macro-operazioni contro i rom condotta
dall'amministrazione milanese.
Era il 1998 quando il primo gruppo di rom-rumeni (circa una trentina di
famiglie), in seguito all'incendio della loro baraccopoli, diedero vita
all'occupazione delle case di via de Castillia nel quartiere Isola.
Da allora in poi, un popolo intero che il regime di Ceausescu aveva
reso stanziale, ha conosciuto un vero e proprio nomadismo
metropolitano, tentando si resistere agli incessanti assalti xenofobi
che istituzioni e mass-media hanno portato con scientificità e
accanimento tali da non aver nulla da invidiare al ventennio
nazi-fascista, con un susseguirsi incessante di sgomberi, occupazioni,
barricate e arresti, lotte di piazza e deportazioni.
Sconfitte e vittorie si sono intrecciate indissolubilmente,
contribuendo a scrivere una pagina di storia lungi dall'essere
terminata e in cui, non ci stancheremo mai di ripeterlo, l'occupazione
e l'autodifesa di via Adda hanno senz'altro rappresentato il punto
più alto di resistenza nella storia italiana di questo popolo
martoriato.
Un intero stabile venne occupato nel giugno del 2002 e in poco tempo
arrivò a ospitare 300 persone. Di per sé era una delle
tante esperienze che i rom hanno dovuto inventarsi per sopravvivere. Ma
via Adda ha lasciato il segno per la sua capacità di
autorganizzazione, per la costruzione di un consiglio di autogestione
che, con tutti i suoi limiti, ha rappresentato un vero e proprio
contropotere dal basso, capace di respingere gli assalti armati del
potere grazie all'autodifesa permanente; capace allo stesso tempo di
diventare soggetto politico agente in città, spingendo la
comunità rom ad un protagonismo di piazza mai registrato prima
(in particolare nelle manifestazioni contro la guerra e in occasione
degli scioperi generali), cancellando nei fatti la linea politica di
questura comune e prefettura che cercava, con tutti i mezzi necessari
di spingere i rom fuori dalla città.
Via Adda invece era situata proprio sotto il pirellone, nel cuore
finanziario della metropoli, simbolo concreto del fatto che, se si
lotta e ci si autorganizza… anche l'impensabile può succedere.
Dopo lo sgombero di via Adda, compiuto con un'operazione militare senza
precedenti (circa 1500 uomini impegnati) si è aperta una
stagione di continui sgomberi e deportazioni di massa, interrotte nei
fatti solo dall'ingresso della Romania in Europa. Solo i reduci di
quell'esperienza, organizzati intorno alla campagna "via Adda non si
cancella" sono in qualche modo riusciti a resistere senza piegarsi ai
tentativi di pulizia etnica da una parte e di internamento democratico
nei campi lager comunali dall'altra.
In ogni caso, anche se gli assalti del potere hanno certamente lasciato
il segno nella struttura sociale (e forse nella psiche) dei rom, non
hanno affatto raggiunto l'obiettivo di limitarne il numero, né
di allontanarli dalla metropoli. Anzi.
Spinti da un impoverimento crescente del loro paese d'origine,
"aiutati" dall'apertura delle frontiere con la Romania e forti di
riferimenti organizzati che in Milano hanno probabilmente la roccaforte
più importante a livello nazionale, il loro numero si è
moltiplicato, in 10 anni di circa 50 volte. Oggi parliamo di una
comunità che, solo nella metropoli, conta circa 5000 persone; e
la cifra raddoppia se calcolata rispetto all'intera provincia.
Il quadro attuale
Dicevamo di Bovisa. Dopo lo sgombero, le 150 famiglie che vi abitavano
hanno dato vita ad una vera e propria diaspora metropolitana. In parte
si sono divise in alcune delle situazioni pre-esistenti; altre hanno
dato vita a nuovi insediamenti, mentre solo una piccola minoranza ha
lasciato l'Italia.
Il mosaico della comunità quindi si arricchisce e si complica e possiamo ricondurlo a tre categorie distinte.
1) I campi comunali il cui simbolo è quello di via
Barzaghi-Triboniano. Un campo che nella sua lunga storia ha vissuto tre
sgomberi (l'ultimo diede vita alle barricate del giugno 2007) e che, a
fronte di condizioni strutturali di vivibilità senz'altro
migliori che in passato (per spazio abitabile, elettrificazione e
servizi), è soggetto al regolamento semi-carcerario che va sotto
il nome di "Patto per la legalità e la solidarietà".
Un'invenzione di Caritas e istituzioni locali che vieta la
possibilità di ospitare parenti, di praticare la questua, di
organizzare feste, di operare modifiche alla struttura del campo (per
esempio costruire verande), di incorrere in guai di natura legale e,
nei fatti, di organizzare attività politiche indipendenti.
Insomma un vero e proprio lager, modello di sperimentazione di
controllo sociale e che non manca di far sentire i suoi effetti
repressivi: in un anno 7 famiglie sono state espulse per averlo violato.
Il ricatto è enorme, ma la protesta comincia a serpeggiare e a
organizzarsi nonostante il clima poliziesco instaurato da Caritas e
Comune; e siamo convinti che, presto o tardi, ne vedremo nuovamente
delle belle.
2) Le baraccopoli abusive, che ormai contornano l'intera città e
che vivono la costante minaccia di sgombero, esattamente come Bovisa.
Insediamenti dove cresce la percentuale di operai, in nero e non solo,
prefigurando una condizione che potrebbe presto riguardare una massa
lavoratrice ben più ampia e variegata. Un monito per l'intera
classe lavoratrice schiacciata dalla tenaglia dei salari da fame e dai
prezzi esorbitanti delle case.
Per loro le prospettive immediate oscillano tra sempre più
improbabili ipotesi di creazione di nuove enclavi controllate (tipo
Barzaghi per capirci) e l'applicazione di accordi riguardanti un loro
trasferimento forzato in Romania, con campi allestiti grazie a fondi
della comunità europea e gestiti, guarda caso, sempre dalla
Caritas,
In ogni caso si dovrà passare per sgomberi di massa, con
possibilità crescenti che si scatenino nuove lotte
autorganizzate.
3) Le occupazioni di case, che, dopo lo sgombero di via Adda, hanno il
loro indiscusso punto di forza nella cascina Bareggiate, occupata dopo
tre mesi dalla caduta del fortino di via Adda dai reduci di
quell'esperienza. Nel corso di quattro anni ci sono stati ben tre
tentativi di sgombero (tutti respinti) e molteplici campagne
intimidatorie, politico-mediatiche e giudiziarie, spesso mettendo nel
mirino i bambini. E anche in questo caso è solo grazie
all'autorganizzazione che l'occupazione continua a resistere e che non
c'è mai stato spazio né per gli aguzzini della Caritas,
né per gli avvoltoi dell'associazionismo pacifista che cercano
sistematicamente di ricondurre la lotta negli alvei istituzionali,
condannando i rom alla subalternità e… alla morte lenta.
Più recentemente, all'esperienza di cascina Bareggiate si sono
affiancate un altro paio di situazioni, che, anche se di consistenza
numerica e politica minore, contribuiscono senza dubbio a indicare la
strada, l'unica percorribile, all'intera comunità.
Conclusioni
Come in ogni guerra ancora in corso, nessuno può prevederne gli
esiti finali. Dipenderà da molti fattori; e per le stesse
ragioni che hanno spinto i rom di cascina Bareggiate a partecipare allo
sciopero generale del 9 novembre, quello determinante sarà lo
schieramento attivo della parte più combattiva del proletariato,
capace finalmente di scrollarsi di dosso i veleni del razzismo e di
fare leva sulle proprie capacità in quanto classe
internazionale. Ma non si può guardare a questa prospettiva in
termini astratti, attendisti o ideologici. E quindi, ancora una volta,
spetterà ai rom farsi carico del proprio destino, proseguire
nella battaglia per la casa, autodeterminarsi in quanto parte
integrante della classe lavoratrice, avviare un serio percorso di
unificazione, sapendo di non essere soli.
La battaglia è aperta e la campagna "Via Adda non si cancella"
ha sempre più motivi per proseguire il percorso iniziato ormai
da anni e ha bisogno del sostegno politico di tutti i sinceri
rivoluzionari.
Fabio Zerbini