Lunedì 10 marzo 2008: il Dalai-lama, la più alta
autorità religiosa tibetana ma anche capo del governo tibetano
in esilio – pronuncia dalla sua capitale in India, Dharamsala, un
virulento discorso contro il regime di Pechino denunciando il
"genocidio culturale" in corso e l'aumento della popolazione non
tibetana d'origine cinese han che riduce "i tibetani ad essere una
insignificante minoranza nel loro paese". Contemporaneamente, a Lhassa,
un centinaio di monaci buddisti prendono parte ad una marcia
commemorativa del 49° anniversario del fallito sollevamento della
popolazione tibetana contro l'esercito di occupazione cinese e la
precipitosa fuga del Dalai-lama in India. Settanta dimostranti sono
arrestati. L'indomani circa 500 monaci manifestano reclamando la
liberazione dei loro "fratelli" arrestati e sono dispersi dai
lacrimogeni sparati dalle forze di sicurezza cinesi. Da parte sua, il
13 marzo, la polizia indiana stoppa nel giro di tre giorni la marcia
simbolica di alcune centinaia di rifugiati tibetani partiti da
Dharamsala in direzione della loro madrepatria. Venerdì 14
marzo, nuova manifestazione nel centro di Lhassa ma questa volta i
monaci sono scavalcati da giovani tibetani radicali che se la prendono
con negozi cinesi, han e hui (minoranza musulmana insediata in Tibet da
circa cinque secoli). L'esercito cinese occupa in fretta la capitale
tibetana e l'indomani apre il fuoco sui monaci ridiscesi in piazza.
Parallelamente, altre manifestazioni che raggruppano migliaia di
persone che brandiscono le bandiere tibetane si svolgono nel Sichuan,
il Gansu, le Qinghai e lo Yunnan, provincie limitrofe alla "regione
autonoma del Tibet".
Bisogna ricordare che quest'ultima, popolata da due milioni e mezzo di
abitanti, ricopre meno della metà del Tibet storico dopo il
Trattato del 1951 che faceva seguito alla "pacifica riunificazione",
eufemismo ufficiale della conquista militare da parte dell'esercito di
Mao, avvenuta l'anno precedente, al fine di "liberare il Tibet dal
servaggio e dall'oppressione teocratica".
Il Tibet storico ricopre un quarto della superficie del territorio
cinese, raggruppa cinque milioni e mezzo di abitanti, e, indipendente
per lungo tempo, è entrato nell'orbita cinese solo a partire
dall'inizio del XVIII secolo; ha anche ritrovato una indipendenza di
fatto tra la fine della dinastia dei Qing nel 1911 e il 1950.
Controllare il Tibet, significava per la giovane Repubblica popolare
cinese darsi un terreno strategico con i suoi 3mila chilometri di
frontiere, tenendo a debita distanza l'India. Il suo nome cinese
"Xizang", significa: Casa dei Tesori dell'Ovest. Esso nasconde in
effetti importanti giacimenti di cromo, di rame e di ferro, e le sue
riserve di borace, uranio e litio sono le più ricche del mondo.
È anche la "fontana" dell'Asia: dieci dei più grandi
fiumi asiatici nascono in questa regione costituendo una fonte
idraulica di primaria importanza.
Queste manifestazioni dovevano essere duramente represse, anche nel
sangue, per paura del contagio. Il regime di Pechino è fuori di
se a cinque mesi dai Giochi Olimpici che devono consacrare il ritorno
in primo piano della nazione cinese sulla scena internazionale.
Considerato che i comunicati di "Radio Free Asia", pro-tibetana, e
dell'agenzia progovernativa "Nuova Cina" sono totalmente
contraddittori, e visto il black-out imposto dalle autorità
cinesi, bisogna rifarsi alla Rete per recuperare informazioni da parte
di turisti o dei pochi giornalisti che si trovavano in Tibet e che poi
sono stati espulsi. In ogni caso, quello che è certo, è
che siamo di fronte alle più grandi manifestazioni dopo quelle
dei moti del marzo 1989 "celebranti" il 30° anniversario della fuga
del Dalai Lama, moti repressi con il pugno di ferro dal segretario
regionale del Partito comunista cinese che non era altro che l'attuale
presidente della Repubblica, Hu Jintao…
La posta in palio oggi, è la sopravvivenza della cultura e
dell'identità tibetana in un mondo cinese che agisce come un
rullo compressore con il formidabile boom economico di questi ultimi
venti anni e la scoperta da parte dei giovani tibetani delle "delizie"
della società dei consumi. A Lhassa, una città sconvolta
e irta di gru che la stanno trasformando in città "moderna" se
non addirittura "high tech", gli han sono ormai maggioritari,
controllano la maggior parte dei commerci e regolano il mercato del
lavoro usando il criterio: "parlare mandarino", la lingua ufficiale
cinese. A partire dalla scuola di primo grado, l'insegnamento si fa
d'altra parte in mandarino mentre il tibetano non è utilizzato
nell'amministrazione pubblica; i funzionari pubblici non hanno il
diritto di praticare il buddismo e nei monasteri vengono organizzati
corsi di educazione patriottica. È vietato tenere foto del
Dalai-Lama, in pubblico come in privato. Ritenendosi discriminati,
considerati come cittadini di serie B nel loro stesso paese, riscaldati
dalle parole di accusa del Dalai Lama ma disprezzando la filosofia
buddista non violenta, gruppi di giovani tibetani non hanno esitato a
saccheggiare, bruciare i negozi e le moto, bastonare i cinesi capitati
a tiro durante le manifestazioni ma anche a linciarli in alcuni casi.
Bilancio: una decina di cinesi uccisi da una parte, un centinaio, forse
anche più , di tibetani dall'altra. Di colpo, mentre le
autorità cinesi alzano i toni annunciando una severa repressione
, il Dalai Lama apre al "dialogo", assicurando che egli ricerca solo
una reale autonomia e non l'indipendenza e rifiutandosi di sostenere
gli appelli al boicottaggio delle Olimpiadi, il grande assillo delle
autorità cinesi. Queste devono fare i conti con una opinione
pubblica internazionale sempre più guadagnata dalla causa
tibetana, almeno nella sfera occidentale come testimoniano le
manifestazioni durante il percorso della fiamma olimpica in Francia e
in Gran Bretagna, e mentre senza la proposta di vere sanzioni
economiche il mercato cinese continua ad attirare tutti coloro che vi
vedono facili guadagni, sembra disegnarsi un boicottaggio simbolico
della cerimonia d'apertura dei giochi l'8 agosto.
Se l'occupazione militare cinese e la sanguinosa repressione devono
essere effettivamente denunciati con forza e il popolo tibetano deve
avere la nostra solidarietà, non dobbiamo dimenticare che il
regime tibetano precedente alla "riunificazione" non era che una
teocrazia fondata su una forma di servaggio con dei contadini attaccati
ereditariamente alla terra e assoggettati a pesanti tasse che
permettevano di mantenere le caste del clero e della nobiltà, e
che la religione, qui come altrove, è sempre
strumentalizzata dalla classe dei potenti per asservire il popolo
e impedire ogni rimessa in discussione dell'ordine stabilito.
Jean-Jacques Gandini
(traduzione di Denis)