Umanità Nova, n.16 del 4 maggio 2008, anno 88

Tibet: tra monaci e ribelli metropolitani. Rivolta e repressione


Lunedì 10 marzo 2008: il Dalai-lama, la più alta autorità religiosa tibetana ma anche capo del governo tibetano in esilio – pronuncia dalla sua capitale in India, Dharamsala, un virulento discorso contro il regime di Pechino denunciando il "genocidio culturale" in corso e l'aumento della popolazione non tibetana d'origine cinese han che riduce "i tibetani ad essere una insignificante minoranza nel loro paese". Contemporaneamente, a Lhassa, un centinaio di monaci buddisti prendono parte ad una marcia commemorativa del 49° anniversario del fallito sollevamento della popolazione tibetana contro l'esercito di occupazione cinese e la precipitosa fuga del Dalai-lama in India. Settanta dimostranti sono arrestati. L'indomani circa 500 monaci manifestano reclamando la liberazione dei loro "fratelli" arrestati e sono dispersi dai lacrimogeni sparati dalle forze di sicurezza cinesi. Da parte sua, il 13 marzo, la polizia indiana stoppa nel giro di tre giorni la marcia simbolica di alcune centinaia di rifugiati tibetani partiti da Dharamsala in direzione della loro madrepatria. Venerdì 14 marzo, nuova manifestazione nel centro di Lhassa ma questa volta i monaci sono scavalcati da giovani tibetani radicali che se la prendono con negozi cinesi, han e hui (minoranza musulmana insediata in Tibet da circa cinque secoli). L'esercito cinese occupa in fretta la capitale tibetana e l'indomani apre il fuoco sui monaci ridiscesi in piazza. Parallelamente, altre manifestazioni che raggruppano migliaia di persone che brandiscono le bandiere tibetane si svolgono nel Sichuan, il Gansu, le Qinghai e lo Yunnan, provincie limitrofe alla "regione autonoma del Tibet".
Bisogna ricordare che quest'ultima, popolata da due milioni e mezzo di abitanti, ricopre meno della metà del Tibet storico dopo il Trattato del 1951 che faceva seguito alla "pacifica riunificazione", eufemismo ufficiale della conquista militare da parte dell'esercito di Mao, avvenuta l'anno precedente, al fine di "liberare il Tibet dal servaggio e dall'oppressione teocratica".
Il Tibet storico ricopre un quarto della superficie del territorio cinese, raggruppa cinque milioni e mezzo di abitanti, e, indipendente per lungo tempo, è entrato nell'orbita cinese solo a partire dall'inizio del XVIII secolo; ha anche ritrovato una indipendenza di fatto tra la fine della dinastia dei Qing nel 1911 e il 1950. Controllare il Tibet, significava per la giovane Repubblica popolare cinese darsi un terreno strategico con i suoi 3mila chilometri di frontiere, tenendo a debita distanza l'India. Il suo nome cinese "Xizang", significa: Casa dei Tesori dell'Ovest. Esso nasconde in effetti importanti giacimenti di cromo, di rame e di ferro, e le sue riserve di borace, uranio e litio sono le più ricche del mondo. È anche la "fontana" dell'Asia: dieci dei più grandi fiumi asiatici nascono in questa regione costituendo una fonte idraulica di primaria importanza.
Queste manifestazioni dovevano essere duramente represse, anche nel sangue, per paura del contagio. Il regime di Pechino è fuori di se a cinque mesi dai Giochi Olimpici che devono consacrare il ritorno in primo piano della nazione cinese sulla scena internazionale. Considerato che i comunicati di "Radio Free Asia", pro-tibetana, e dell'agenzia progovernativa "Nuova Cina" sono totalmente contraddittori, e visto il black-out imposto dalle autorità cinesi, bisogna rifarsi alla Rete per recuperare informazioni da parte di turisti o dei pochi giornalisti che si trovavano in Tibet e che poi sono stati espulsi. In ogni caso, quello che è certo, è che siamo di fronte alle più grandi manifestazioni dopo quelle dei moti del marzo 1989 "celebranti" il 30° anniversario della fuga del Dalai Lama, moti repressi con il pugno di ferro dal segretario regionale del Partito comunista cinese che non era altro che l'attuale presidente della Repubblica, Hu Jintao…
La posta in palio oggi, è la sopravvivenza della cultura e dell'identità tibetana in un mondo cinese che agisce come un rullo compressore con il formidabile boom economico di questi ultimi venti anni e la scoperta da parte dei giovani tibetani delle "delizie" della società dei consumi. A Lhassa, una città sconvolta e irta di gru che la stanno trasformando in città "moderna" se non addirittura "high tech", gli han sono ormai maggioritari, controllano la maggior parte dei commerci e regolano il mercato del lavoro usando il criterio: "parlare mandarino", la lingua ufficiale cinese. A partire dalla scuola di primo grado, l'insegnamento si fa d'altra parte in mandarino mentre il tibetano non è utilizzato nell'amministrazione pubblica; i funzionari pubblici non hanno il diritto di praticare il buddismo e nei monasteri vengono organizzati corsi di educazione patriottica. È vietato tenere foto del Dalai-Lama, in pubblico come in privato. Ritenendosi discriminati, considerati come cittadini di serie B nel loro stesso paese, riscaldati dalle parole di accusa del Dalai Lama ma disprezzando la filosofia buddista non violenta, gruppi di giovani tibetani non hanno esitato a saccheggiare, bruciare i negozi e le moto, bastonare i cinesi capitati a tiro durante le manifestazioni ma anche a linciarli in alcuni casi. Bilancio: una decina di cinesi uccisi da una parte, un centinaio, forse anche più , di tibetani dall'altra. Di colpo, mentre le autorità cinesi alzano i toni annunciando una severa repressione , il Dalai Lama apre al "dialogo", assicurando che egli ricerca solo una reale autonomia e non l'indipendenza e rifiutandosi di sostenere gli appelli al boicottaggio delle Olimpiadi, il grande assillo delle autorità cinesi. Queste devono fare i conti con una opinione pubblica internazionale sempre più guadagnata dalla causa tibetana, almeno nella sfera occidentale come testimoniano le manifestazioni durante il percorso della fiamma olimpica in Francia e in Gran Bretagna, e mentre senza la proposta di vere sanzioni economiche il mercato cinese continua ad attirare tutti coloro che vi vedono facili guadagni, sembra disegnarsi un boicottaggio simbolico della cerimonia d'apertura dei giochi l'8 agosto.
Se l'occupazione militare cinese e la sanguinosa repressione devono essere effettivamente denunciati con forza e il popolo tibetano deve avere la nostra solidarietà, non dobbiamo dimenticare che il regime tibetano precedente alla "riunificazione" non era che una teocrazia fondata su una forma di servaggio con dei contadini attaccati ereditariamente alla terra e assoggettati a pesanti tasse che permettevano di mantenere le caste del clero e della nobiltà, e che la religione, qui come altrove, è sempre strumentalizzata  dalla classe dei potenti per asservire il popolo e impedire ogni rimessa in discussione dell'ordine stabilito.

Jean-Jacques Gandini
(traduzione di Denis)

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