Il rialzo dei prezzi delle materie prime prosegue ininterrotto. Il
rincaro dei beni agricoli, dei cereali, del riso, del grano hanno
acuito in modo terribile il problema della fame e della sopravvivenza
in tutti i paesi esclusi dalle cintate frontiere dei Paesi ricchi.
L'Egitto ed Il Vietnam hanno vietato l'esportazione di riso per poter
sfamare la popolazione e le plebi urbane, dopo rivolte di massa guidate
dalla necessità di mangiare. L'Argentina ha imposto gabelle
elevate all'esportazione di soia, con il duplice scopo di tassare i
ricchi esportatori di cereali (premiati dall'andamento dei prezzi) e di
permettere forniture a prezzi calmierati per il mercato interno. Un
imponente ciclo di rivolte urbane ha colpito Senegal, Haiti, Filippine,
Marocco, Mauritania, Yemen, Guinea, Corea del Sud, mentre l'Asia intera
vede ridursi in modo preoccupante le scorte del suo principale
alimento, il riso, il cui prezzo è salito del 50% nelle ultime
settimane. I cereali sono saliti del 42% nel 2007, i prodotti caseari
dell'80%. Negli Usa 28 milioni di americani percepiscono buoni pasto
per mangiare.
Quello che sta accadendo sul mercato dei beni agricoli è
l'effetto dirompente di una serie di scelte politiche che nel corso
degli ultimi decenni hanno finito per aggravare il problema della fame
per miliardi di persone, in ogni parte del globo, in particolare per
quei 3 miliardi di persone che vivono di riso, pane e tortillas. Il
rincaro dei prezzi degli alimentari dipende in parte dal rincaro dei
carburanti e dei combustibili necessari per trasportarli in giro per il
mondo, generalmente su tratte sempre più lunghe e costose, per
criteri di produzione e distribuzione che appaiono dissennati e
irrazionali, spesso persino antieconomici, ma rispondenti a logiche di
puro profitto e convenienza politica.
Che dire delle politiche agricole dei paesi avanzati? La Cee ha attuato
per decenni una politica comunitaria basata su pochi, inaccettabili
principi: proteggere i produttori agricoli, favorirne la riduzione,
sussidiare i sopravvissuti, bloccare le frontiere alle importazioni dal
resto del mondo. Milioni di contadini sono andati via dalle campagne,
migliaia di aziende hanno chiuso, l'agricoltura è stata
trasformata secondo criteri industriali, il costo per i contribuenti
è stato enorme e la produttività del settore è
stata perseguita con prezzi salati: intensificazione dello sfruttamento
del suolo, abbandono del presidio del territorio, decadimento della
qualità della produzione e, quindi, di ciò che mangiamo.
La politica Usa non ha usato mezzi diversi, ha solo aperto con maggior
vigore agli O.G.M. ed alla conversione delle produzioni agricole verso
utilizzo dei cereali come fonte combustibile, per fare fronte al
rincaro dei prezzi energetici. Il mais finisce nel serbatoio,
anziché nella pancia degli umani.
I paesi del Sud del mondo hanno rivendicato inutilmente per anni un
diverso meccanismo di funzionamento dello scambio globale, chiedendo di
poter vendere i loro prodotti a prezzi equi su mercati aperti, ma la
sola risposta è stata l'invasione dei prodotti "sussidiati" del
nord che, "donati" o venduti al loro interno, hanno provocato la rovina
generalizzata dei loro produttori, impossibilitati a competere con
agricolture meccanizzate ad alta intensità tecnologica. Il
mantra liberista sosteneva la validità universale di un modello
in cui l'abbondanza di beni a basso costo permetteva di
approvvigionarsi a prezzi contenuti, senza preoccuparsi di costruire la
propria indipendenza alimentare con investimenti mirati. Ora ci si
trova in una situazione imprevista e la realtà provvede da sola
a ridurre in polvere la razionalità del modello teorico: nelle
periferie del mondo abbiamo le rivolte per fame, nelle cittadelle
dell'occidente l'impennata dell'inflazione da beni alimentari (ed
energetici).
Il rialzo dei prezzi delle materie prime, in generale, include tutte le
"commodities", interessa i beni agricoli, i metalli industriali, il
gas, il petrolio, tutti i beni primari indispensabili per alimentare il
ciclo industriale ed il funzionamento delle economie, emergenti e
mature. Questo rialzo è imputabile a cause contingenti e a cause
strutturali. Le cause contingenti sono indubbiamente legate alla
speculazione finanziaria ed alle sue bizzarrie. Ormai ogni merce
è trattata sui mercati future, è l'elemento reale
sottostante a miliardi di transazioni finanziarie che non hanno alcuna
attinenza con produzione, consumo, utilizzo o trasformazione fisica di
quella particolare derrata alimentare, metallo industriale, metallo
prezioso, combustibile energetico. Dal succo di arancia di "Una
poltrona per due", ai pozzi petroliferi di "Syriana", la finanza ha
disegnato una parabola di proporzioni enormi, che brucia nel suoi
vortici capitali reali e capitali virtuali, facendoli crescere e
dilatare, ma anche, spesso e volentieri, riducendoli a zero. In questa
fase di fuga dalle borse e dalla finanza drogata dei sub-prime, le
materie prime e i beni fisici sembrano un golfo tranquillo di
ancoraggio, per parcheggi temporanei della liquidità. Vedere il
petrolio salire da 38 dollari (2004) a 120 dollari al barile (2008),
rappresenta un evento certo poco frequente, ma spiegabile con l'enorme
massa di capitale speculativo in cerca di porti sicuri, che non
disdegna oggi di comprare derivati sul cotone, sulla soia, sul
frumento, sul riso, piuttosto che sull'alluminio o sul rame. Su queste
classi di attività, su questi investimenti, non vanno oggi solo
movimenti speculativi, del tipo mordi e fuggi. In tutti i portafogli
"istituzionali", dalle banche alle assicurazioni, dagli hedge fund ai
fondi pensione, è diventato normale inserire una certa quota di
strumenti legati alle materie prime. È la prima volta che accade
in modo strutturato: questo significa che, poco per volta, tutti quelli
che gestiscono dei capitali inseriscono un comparto dedicato a questo
settore. Un dato che spinge a pensare ad un fenomeno non transitorio,
ma duraturo e costante. Un dato che fa pensare ad una lunga fase di
prezzi alti per un elevato numero di beni primari.
Inoltre le ragioni strutturali del rialzo dei prezzi stanno in quello
che possiamo definire il fenomeno globalizzazione e che si trova ad un
punto di svolta rispetto al passato: un vero salto di paradigma.
Abbiamo sempre pensato alla globalizzazione come ad un elemento
calmieratore dei prezzi: l'abbondanza sul mercato globale di materie
prime e forza lavoro a basso costo ha abbassato inflazione e salari per
una lunga fase, nelle economie mature. Tutto lascia pensare che quella
fase sia finita. Dal 2002 ad oggi l'accelerazione alla crescita nelle
economie emergenti ha cominciato a far salire la pressione sui prezzi:
la domanda globale di beni e servizi è salita, così come
le esigenze di una popolazione attiva, integrata nella forza lavoro
mondiale, in veloce espansione. I dirigenti cinesi a caccia di
contratti per comprare materie prime in giro per Asia, Africa e America
Latina ne sono la palese dimostrazione. La domanda dei BRIC e delle
altre economie emergenti sembra in grado di tenere oltre il 4% il tasso
di crescita dell'economia mondiale nel 2008, nonostante gli Usa
veleggino attorno allo 0,5% e l'Unione Europea attorno al 1.5%. Le
recessione mondiale in atto sarà probabilmente attutita dai
mercati emergenti.
In Europa la spinta all'inflazione sta determinando scenari complicati.
Sebbene l'euro abbia toccato massimi storici nei confronti del dollaro
(moneta in cui vengono ancora fatturate, a dire il vero sempre di meno,
le merci scambiate sui mercati internazionali), i tassi d'inflazione
stanno inesorabilmente salendo. A marzo ha toccato il 3.6% su base
annua, il massimo storico da quando esiste l'euro. L'inflazione reale e
quella percepita sono molto superiori. L'allarme sui prezzi impedisce
un calo dei tassi (come quello attuato dalla Fed), uno dei principali
strumenti per dare ossigeno all'economia, agli investimenti, ai
consumi, ai debitori strozzati da mutui sempre più cari. Il
rallentamento è più forte in Italia, Spagna, Irlanda,
Regno Unito: i paesi più deboli e quelli più legati ad
una crescita basata sull'edilizia, sull'immobiliare, sulla finanza. La
recessione viene aggravata in Italia da una crisi dei consumi, che a
sua volta dipende dalla caduta del salario reale, di proporzioni
pesanti e gravi. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, i
salari hanno perso in 25 anni una quota pari ad 8 punti percentuali
nella ripartizione del Pil, qualcosa come 120 miliardi di euro l'anno,
cioè oltre 5.000 euro l'anno per ogni lavoratore. Il ritardo dei
salari italiani è un caso da manuale, un effetto certamente
imputabile alla concertazione, al modello di contrattazione
centralizzata al ribasso che ha "risolto", a partire dai primi anni
'90, l'anomalia italiana. L'abbandono della scala mobile nel 1992 ne
segnò il paradigmatico inizio, 15 anni dopo la accettazione del
salario come variabile dipendente da parte di Lama, nel 1977.
Ora gli effetti sono evidenti a tutti: eppure si pensa di proseguire su
questa strada, con un nuovo modello di contrattazione che svuota il
contratto nazionale per assegnare le poche risorse salariali in sede
aziendale, con straordinario detassato e un premio aziendale per le
poche imprese dove esiste la contrattazione integrativa. La Bce, dal
canto suo, tuona contro ogni forma di indicizzazione dei salari e delle
pensioni, un modo che prosegua indisturbato lo spostamento di reddito
da salario a profitto.
L'esito delle più recenti elezioni, prima in Francia, ora anche
in Italia e Regno Unito, segnala il forte senso di disagio,
insicurezza, sfiducia, rifiuto della politica istituzionale con cui
larghi strati delle classi popolari vivono questa fase di
deterioramento del clima sociale. Una sinistra capace di pensare solo
al risanamento finanziario e incapace di rappresentare i bisogni
più elementari delle classi subalterne ha pagato il prezzo dei
propri errori e dei propri inganni. Ai movimenti l'arduo compito di
trovare canali nuovi e vincenti, per presentarsi nuovamente da
protagonisti sulla scena sociale, opporsi all'impoverimento ed alla
precarizzazione, riprendersi reddito e libertà, imporre una
redistribuzione tangibile della ricchezza sociale.
Renato Strumia