Umanità Nova, n.17 dell'11 maggio 2008, anno 88

Prezzi alle stelle. La speculazione che affama il mondo


Il rialzo dei prezzi delle materie prime prosegue ininterrotto. Il rincaro dei beni agricoli, dei cereali, del riso, del grano hanno acuito in modo terribile il problema della fame e della sopravvivenza in tutti i paesi esclusi dalle cintate frontiere dei Paesi ricchi. L'Egitto ed Il Vietnam hanno vietato l'esportazione di riso per poter sfamare la popolazione e le plebi urbane, dopo rivolte di massa guidate dalla necessità di mangiare. L'Argentina ha imposto gabelle elevate all'esportazione di soia, con il duplice scopo di tassare i ricchi esportatori di cereali (premiati dall'andamento dei prezzi) e di permettere forniture a prezzi calmierati per il mercato interno. Un imponente ciclo di rivolte urbane ha colpito Senegal, Haiti, Filippine, Marocco, Mauritania, Yemen, Guinea, Corea del Sud, mentre l'Asia intera vede ridursi in modo preoccupante le scorte del suo principale alimento, il riso, il cui prezzo è salito del 50% nelle ultime settimane. I cereali sono saliti del 42% nel 2007, i prodotti caseari dell'80%. Negli Usa 28 milioni di americani percepiscono buoni pasto per mangiare.
Quello che sta accadendo sul mercato dei beni agricoli è l'effetto dirompente di una serie di scelte politiche che nel corso degli ultimi decenni hanno finito per aggravare il problema della fame per miliardi di persone, in ogni parte del globo, in particolare per quei 3 miliardi di persone che vivono di riso, pane e tortillas. Il rincaro dei prezzi degli alimentari dipende in parte dal rincaro dei carburanti e dei combustibili necessari per trasportarli in giro per il mondo, generalmente su tratte sempre più lunghe e costose, per criteri di produzione e distribuzione che appaiono dissennati e irrazionali, spesso persino antieconomici, ma rispondenti a logiche di puro profitto e convenienza politica.
Che dire delle politiche agricole dei paesi avanzati? La Cee ha attuato per decenni una politica comunitaria basata su pochi, inaccettabili principi: proteggere i produttori agricoli, favorirne la riduzione, sussidiare i sopravvissuti, bloccare le frontiere alle importazioni dal resto del mondo. Milioni di contadini sono andati via dalle campagne, migliaia di aziende hanno chiuso, l'agricoltura è stata trasformata secondo criteri industriali, il costo per i contribuenti è stato enorme e la produttività del settore è stata perseguita con prezzi salati: intensificazione dello sfruttamento del suolo, abbandono del presidio del territorio, decadimento della qualità della produzione e, quindi, di ciò che mangiamo. La politica Usa non ha usato mezzi diversi, ha solo aperto con maggior vigore agli O.G.M. ed alla conversione delle produzioni agricole verso utilizzo dei cereali come fonte combustibile, per fare fronte al rincaro dei prezzi energetici. Il mais finisce nel serbatoio, anziché nella pancia degli umani.
I paesi del Sud del mondo hanno rivendicato inutilmente per anni un diverso meccanismo di funzionamento dello scambio globale, chiedendo di poter vendere i loro prodotti a prezzi equi su mercati aperti, ma la sola risposta è stata l'invasione dei prodotti "sussidiati" del nord che, "donati" o venduti al loro interno, hanno provocato la rovina generalizzata dei loro produttori, impossibilitati a competere con agricolture meccanizzate ad alta intensità tecnologica. Il mantra liberista sosteneva la validità universale di un modello in cui l'abbondanza di beni a basso costo permetteva di approvvigionarsi a prezzi contenuti, senza preoccuparsi di costruire la propria indipendenza alimentare con investimenti mirati. Ora ci si trova in una situazione imprevista e la realtà provvede da sola a ridurre in polvere la razionalità del modello teorico: nelle periferie del mondo abbiamo le rivolte per fame, nelle cittadelle dell'occidente l'impennata dell'inflazione da beni alimentari (ed energetici).
Il rialzo dei prezzi delle materie prime, in generale, include tutte le "commodities", interessa i beni agricoli, i metalli industriali, il gas, il petrolio, tutti i beni primari indispensabili per alimentare il ciclo industriale ed il funzionamento delle economie, emergenti e mature. Questo rialzo è imputabile a cause contingenti e a cause strutturali. Le cause contingenti sono indubbiamente legate alla speculazione finanziaria ed alle sue bizzarrie. Ormai ogni merce è trattata sui mercati future, è l'elemento reale sottostante a miliardi di transazioni finanziarie che non hanno alcuna attinenza con produzione, consumo, utilizzo o trasformazione fisica di quella particolare derrata alimentare, metallo industriale, metallo prezioso, combustibile energetico. Dal succo di arancia di "Una poltrona per due", ai pozzi petroliferi di "Syriana", la finanza ha disegnato una parabola di proporzioni enormi, che brucia nel suoi vortici capitali reali e capitali virtuali, facendoli crescere e dilatare, ma anche, spesso e volentieri, riducendoli a zero. In questa fase di fuga dalle borse e dalla finanza drogata dei sub-prime, le materie prime e i beni fisici sembrano un golfo tranquillo di ancoraggio, per parcheggi temporanei della liquidità. Vedere il petrolio salire da 38 dollari (2004) a 120 dollari al barile (2008), rappresenta un evento certo poco frequente, ma spiegabile con l'enorme massa di capitale speculativo in cerca di porti sicuri, che non disdegna oggi di comprare derivati sul cotone, sulla soia, sul frumento, sul riso, piuttosto che sull'alluminio o sul rame. Su queste classi di attività, su questi investimenti, non vanno oggi solo movimenti speculativi, del tipo mordi e fuggi. In tutti i portafogli "istituzionali", dalle banche alle assicurazioni, dagli hedge fund ai fondi pensione, è diventato normale inserire una certa quota di strumenti legati alle materie prime. È la prima volta che accade in modo strutturato: questo significa che, poco per volta, tutti quelli che gestiscono dei capitali inseriscono un comparto dedicato a questo settore. Un dato che spinge a pensare ad un fenomeno non transitorio, ma duraturo e costante. Un dato che fa pensare ad una lunga fase di prezzi alti per un elevato numero di beni primari.
Inoltre le ragioni strutturali del rialzo dei prezzi stanno in quello che possiamo definire il fenomeno globalizzazione e che si trova ad un punto di svolta rispetto al passato: un vero salto di paradigma. Abbiamo sempre pensato alla globalizzazione come ad un elemento calmieratore dei prezzi: l'abbondanza sul mercato globale di materie prime e forza lavoro a basso costo ha abbassato inflazione e salari per una lunga fase, nelle economie mature. Tutto lascia pensare che quella fase sia finita. Dal 2002 ad oggi l'accelerazione alla crescita nelle economie emergenti ha cominciato a far salire la pressione sui prezzi: la domanda globale di beni e servizi è salita, così come le esigenze di una popolazione attiva, integrata nella forza lavoro mondiale, in veloce espansione. I dirigenti cinesi a caccia di contratti per comprare materie prime in giro per Asia, Africa e America Latina ne sono la palese dimostrazione. La domanda dei BRIC e delle altre economie emergenti sembra in grado di tenere oltre il 4% il tasso di crescita dell'economia mondiale nel 2008, nonostante gli Usa veleggino attorno allo 0,5% e l'Unione Europea attorno al 1.5%. Le recessione mondiale in atto sarà probabilmente attutita dai mercati emergenti.
In Europa la spinta all'inflazione sta determinando scenari complicati. Sebbene l'euro abbia toccato massimi storici nei confronti del dollaro (moneta in cui vengono ancora fatturate, a dire il vero sempre di meno, le merci scambiate sui mercati internazionali), i tassi d'inflazione stanno inesorabilmente salendo. A marzo ha toccato il 3.6% su base annua, il massimo storico da quando esiste l'euro. L'inflazione reale e quella percepita sono molto superiori. L'allarme sui prezzi impedisce un calo dei tassi (come quello attuato dalla Fed), uno dei principali strumenti per dare ossigeno all'economia, agli investimenti, ai consumi, ai debitori strozzati da mutui sempre più cari. Il rallentamento è più forte in Italia, Spagna, Irlanda, Regno Unito: i paesi più deboli e quelli più legati ad una crescita basata sull'edilizia, sull'immobiliare, sulla finanza. La recessione viene aggravata in Italia da una crisi dei consumi, che a sua volta dipende dalla caduta del salario reale, di proporzioni pesanti e gravi. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, i salari hanno perso in 25 anni una quota pari ad 8 punti percentuali nella ripartizione del Pil, qualcosa come 120 miliardi di euro l'anno, cioè oltre 5.000 euro l'anno per ogni lavoratore. Il ritardo dei salari italiani è un caso da manuale, un effetto certamente imputabile alla concertazione, al modello di contrattazione centralizzata al ribasso che ha "risolto", a partire dai primi anni '90, l'anomalia italiana. L'abbandono della scala mobile nel 1992 ne segnò il paradigmatico inizio, 15 anni dopo la accettazione del salario come variabile dipendente da parte di Lama, nel 1977.
Ora gli effetti sono evidenti a tutti: eppure si pensa di proseguire su questa strada, con un nuovo modello di contrattazione che svuota il contratto nazionale per assegnare le poche risorse salariali in sede aziendale, con straordinario detassato e un premio aziendale per le poche imprese dove esiste la contrattazione integrativa. La Bce, dal canto suo, tuona contro ogni forma di indicizzazione dei salari e delle pensioni, un modo che prosegua indisturbato lo spostamento di reddito da salario a profitto.
L'esito delle più recenti elezioni, prima in Francia, ora anche in Italia e Regno Unito, segnala il forte senso di disagio, insicurezza, sfiducia, rifiuto della politica istituzionale con cui larghi strati delle classi popolari vivono questa fase di deterioramento del clima sociale. Una sinistra capace di pensare solo al risanamento finanziario e incapace di rappresentare i bisogni più elementari delle classi subalterne ha pagato il prezzo dei propri errori e dei propri inganni. Ai movimenti l'arduo compito di trovare canali nuovi e vincenti, per presentarsi nuovamente da protagonisti sulla scena sociale, opporsi all'impoverimento ed alla precarizzazione, riprendersi reddito e libertà, imporre una redistribuzione tangibile della ricchezza sociale.

Renato Strumia

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