Le ultime notizie arrivate dal Libano hanno rilanciato nell'immaginario
di tutti lo spettro di quella guerra civile che distrusse il paese dei
Cedri tra il 1975 e il 1990. La situazione nel paese mediorientale
è in stallo fin dal settembre dell'anno scorso quando il
Parlamento iniziò a rinviare la data della proclamazione del
nuovo presidente della Repubblica. Questa carica deve essere, secondo
la Costituzione del 1956, ricoperta da un esponente della
comunità cristiano maronita, una delle tre principali
costitutive del paese multiconfessionale e orgoglioso di esserlo.
L'attuale Presidente, ancora in carica nonostante la scadenza del
mandato, è Emile Lahoud, storicamente legato alla Siria ma
costretto dagli eventi seguiti all'assassinio dell'ex premier sunnita e
filo saudita Rafik Hariri a nominare un governo composto da elementi
sunniti e della destra maronita legati a Washington, Parigi, Riyad e
Tel Aviv, attualmente presieduto dal premier palazzinaro Siniora.
Tale governo è ad oggi il principale ostacolo alla pacificazione
del paese e alla fine dello stallo nella nomina del nuovo Presidente
della Repubblica. Governo e opposizione, composta dagli sciiti dei
partiti Hezbollah e Amal e da figure del nazionalismo maronita come
George Haoun, sono infatti d'accordo da dicembre sulla nomina alla
massima carica del paese del Generale Michel Suleyman, maronita,
imparentato con il clan del Presidente siriano Assad ma stimato anche
dagli esponenti politici della destra maronita e da quelli sunniti.
L'unico gruppo contrario all'accordo è il partito Socialista
della comunità Drusa guidato da Walid Jumblatt. Quest'ultimo
è passato in modo apparentemente indolore dallo schieramento con
Damasco e contro Tel Aviv all'epoca dell'invasione israeliana del
paese, a quello con Washington in nome della fine dell'influenza
siriana a Beirut e nel resto della nazione. Non a caso in questi giorni
di violenze e di scontri anche armati tra le diverse fazioni locali il
bersaglio principale è stato proprio la casa fortificata del
leader druso, e proprio lui sembra dover ricoprire il ruolo di capro
sacrificale nel caso governo ed opposizione trovassero lo spazio di un
accordo per la gestione del paese. Voci rilanciate dai siti vicini ai
servizi segreti israeliani, non a caso, lo danno in fuga da Beirut per
rifugiarsi nella fortezza dello Chouf dove sono concentrati i drusi
libanesi e dove è presente la sua principale capacità
armata.
L'articolazione della crisi di questi giorni ci chiarisce molto sui
movimenti in corso nel piccolo paese mediterraneo. In primo luogo la
crisi è avvenuta per un palese quanto goffo tentativo
governativo di limitare l'autonomia di Hezbollah, privando il partito
sciita della propria centrale telefonica il cui uso è con tutta
evidenza di tipo militare. In secondo luogo Hezbollah ha dimostrato
tutte le sue capacità sul piano militare occupando in poche ore
(non più di sei) l'intera Beirut Ovest, parte della città
dove sono concentrate radio, televisioni e le maggiori
Università. Tra l'altro una buona quota della popolazione
maronita vive proprio in questi quartieri e nessun gesto ostile
è stato compiuto nei loro confronti, mentre i locali notturni
dell'élite sunnita sono stati devastati; segno simbolico che
l'alleanza con Aoun regge e che invece i palazzinari sunniti e la loro
corte dorata di wahabiti occidentalizzati vengono individuati come
nemici da parte dei militanti sciiti. Di fronte a questa
capacità di reazione il governo si è accorto di non poter
affondare il colpo in quanto senza strumenti militari efficaci a
colpire l'esercito militante di Nasrallah.
Il terzo elemento è quello centrale per comprendere chi abbia
vinto il braccio di ferro di questi giorni: l'esercito non è
intervenuto nella disputa e ha giocato un ruolo di esclusiva
mediazione, chiedendo ad Hezbollah di ritirarsi dalle posizioni
conquistate ma rifiutando di occupare la centrale telefonica del
partito sciita, come invece richiesto dal governo, e di procedere
nell'attacco contro le milizie del partito. L'autore di questa
strategia è stato proprio Suleyman che in questo modo ha
ribadito la sua volontà di porsi al di sopra delle fazioni e di
rifiutare per l'esercito il ruolo di strumento politico di parte. In
più si deve sottolineare che tale posizione ha evitato un
conflitto intestino che sarebbe stato gravissimo dal momento che ogni
fazione libanese controlla un certo numero di ufficiali e una certa
quantità di armi.
In questo quadro la tattica scelta da Nasrallah si è rivelata
vincente perché ha permesso ad Hezbollah di chiarire di fronte a
tutti i protagonisti nazionali ed internazionali della crisi libanese
la propria forza e le difficoltà che vi sarebbero nel tentativo
di schiacciarla. Dal suo canto Suleyman ha rafforzato la sua
candidatura e ora può permettersi di richiedere la nomina invece
di aspettare che le fazioni trovino un accordo. Se oggi il Libano non
è ancora sprofondato nuovamente nella guerra civile una parte
significativa del merito può essere attribuita all'odierno capo
di stato maggiore. Tale attitudine non è casuale in un esponente
maronita dal momento che proprio l'antica comunità cristiana sa
di essere nel centro di una tempesta possibile che, ove scoppiasse,
rischierebbe di cancellarla per sempre dalla storia del paese. Il
pericolo, però, non è insito in uno scontro religioso tra
islamici e cristiani come qualche commentatore nostrano del "Foglio“
delira e spera, ma conseguenza delle divisioni interne al mondo
maronita che porterebbero in caso di guerra civile al reciproco
annientamento tra le fazioni interne alla comunità. Se
ricordiamo, poi, che il Libano è un piccolo paese, non possiamo
non capire che tale prospettiva comporterebbe un livello di guerra
all'interno delle stesse famiglie che compongono la comunità
maronita, con l'avvio di faide che si protrarrebbero per decenni. Se si
assume questo quadro è del tutto evidente perché la
leadership più sensata della comunità stia cercando da
mesi di evitare la deflagrazione dello scontro tra partiti sunniti e
partiti sciiti, scontro che porterebbe le varie fazioni maronite, viste
le loro alleanze, a ritrovarsi in guerra anche loro.
In questo scenario si deve assumere che Hezbollah ha segnato un punto
rendendo evidente che il governo Siniora non controlla l'esercito e che
non è in grado di gestire il paese nonostante l'asse
Washington-Parigi-Tel Aviv lo sostenga con forza. Nasrallah potrebbe a
questo punto ottenere la testa di Siniora ed entrare in un nuovo
governo di unità nazionale dal quale resterebbe invece escluso
Jumblatt ormai identificato come uomo di Washington e che potrebbe in
modo unificato arrivare alla nomina di Suleyman alla testa del paese.
Si tratta di uno scenario credibile ma sul quale giocano ancora
parecchie incognite: dal comportamento dei drusi di Jumblatt, a quello
delle potenze protettrici delle varie fazioni: se una Siria sulla
difensiva sembra ben disposta al compromesso, l'Arabia Saudita, grande
protettrice del clan Hariri e di quello Siniora ancora recentemente ha
evitato di inviare a Damasco per un vertice della Lega Araba una
delegazione di rilievo, proprio allo scopo di evitare discussioni con
Damasco sul Libano. Per quanto riguarda Israele e USA, poi, bisogna
capire se i due governi, attualmente in crisi il primo per gli scandali
legasti al Primo Ministro Olmert e il secondo per i pessimi risultati
della guerra irachena, siano disposti ad accordare ai nemici locali una
tregua che ora come ora sarebbe necessaria anche a loro. I segnali
precedenti alla crisi con la richiesta israeliana al governo italiano,
presente in Libano con la missione ONU Unifil , di cambiare regole
d'ingaggio ed attaccare le milizie armate di Hezbollah, sembrano andare
in senso contrario; l'approssimarsi delle elezioni presidenziali USA,
però, rendono opaco lo scenario e predispongono all'attesa di
quali saranno i nuovi equilibri interni alla superpotenza americana. Il
nodo verrà probabilmente sciolto nelle prossime settimane se non
nei prossimi giorni, ma non per questo il Libano cesserà di
essere terreno di guerre manovrate dall'esterno e dall'interno per il
controllo di un piccolo paese che permette però la gestione e
l'intervento nell'insieme del mondo mediorientale.
Giacomo Catrame