Umanità Nova, n.18 del 18 maggio 2008, anno 88

Libano. Sul filo del rasoio


Le ultime notizie arrivate dal Libano hanno rilanciato nell'immaginario di tutti lo spettro di quella guerra civile che distrusse il paese dei Cedri tra il 1975 e il 1990. La situazione nel paese mediorientale è in stallo fin dal settembre dell'anno scorso quando il Parlamento iniziò a rinviare la data della proclamazione del nuovo presidente della Repubblica. Questa carica deve essere, secondo la Costituzione del 1956, ricoperta da un esponente della comunità cristiano maronita, una delle tre principali costitutive del paese multiconfessionale e orgoglioso di esserlo. L'attuale Presidente, ancora in carica nonostante la scadenza del mandato, è Emile Lahoud, storicamente legato alla Siria ma costretto dagli eventi seguiti all'assassinio dell'ex premier sunnita e filo saudita Rafik Hariri a nominare un governo composto da elementi sunniti e della destra maronita legati a Washington, Parigi, Riyad e Tel Aviv, attualmente presieduto dal premier palazzinaro Siniora.
Tale governo è ad oggi il principale ostacolo alla pacificazione del paese e alla fine dello stallo nella nomina del nuovo Presidente della Repubblica. Governo e opposizione, composta dagli sciiti dei partiti Hezbollah e Amal e da figure del nazionalismo maronita come George Haoun, sono infatti d'accordo da dicembre sulla nomina alla massima carica del paese del Generale Michel Suleyman, maronita, imparentato con il clan del Presidente siriano Assad ma stimato anche dagli esponenti politici della destra maronita e da quelli sunniti. L'unico gruppo contrario all'accordo è il partito Socialista della comunità Drusa guidato da Walid Jumblatt. Quest'ultimo è passato in modo apparentemente indolore dallo schieramento con Damasco e contro Tel Aviv all'epoca dell'invasione israeliana del paese, a quello con Washington in nome della fine dell'influenza siriana a Beirut e nel resto della nazione. Non a caso in questi giorni di violenze e di scontri anche armati tra le diverse fazioni locali il bersaglio principale è stato proprio la casa fortificata del leader druso, e proprio lui sembra dover ricoprire il ruolo di capro sacrificale nel caso governo ed opposizione trovassero lo spazio di un accordo per la gestione del paese. Voci rilanciate dai siti vicini ai servizi segreti israeliani, non a caso, lo danno in fuga da Beirut per rifugiarsi nella fortezza dello Chouf dove sono concentrati i drusi libanesi e dove è presente la sua principale capacità armata.
L'articolazione della crisi di questi giorni ci chiarisce molto sui movimenti in corso nel piccolo paese mediterraneo. In primo luogo la crisi è avvenuta per un palese quanto goffo tentativo governativo di limitare l'autonomia di Hezbollah, privando il partito sciita della propria centrale telefonica il cui uso è con tutta evidenza di tipo militare. In secondo luogo Hezbollah ha dimostrato tutte le sue capacità sul piano militare occupando in poche ore (non più di sei) l'intera Beirut Ovest, parte della città dove sono concentrate radio, televisioni e le maggiori Università. Tra l'altro una buona quota della popolazione maronita vive proprio in questi quartieri e nessun gesto ostile è stato compiuto nei loro confronti, mentre i locali notturni dell'élite sunnita sono stati devastati; segno simbolico che l'alleanza con Aoun regge e che invece i palazzinari sunniti e la loro corte dorata di wahabiti occidentalizzati vengono individuati come nemici da parte dei militanti sciiti. Di fronte a questa capacità di reazione il governo si è accorto di non poter affondare il colpo in quanto senza strumenti militari efficaci a colpire l'esercito militante di Nasrallah.
Il terzo elemento è quello centrale per comprendere chi abbia vinto il braccio di ferro di questi giorni: l'esercito non è intervenuto nella disputa e ha giocato un ruolo di esclusiva mediazione, chiedendo ad Hezbollah di ritirarsi dalle posizioni conquistate ma rifiutando di occupare la centrale telefonica del partito sciita, come invece richiesto dal governo, e di procedere nell'attacco contro le milizie del partito. L'autore di questa strategia è stato proprio Suleyman che in questo modo ha ribadito la sua volontà di porsi al di sopra delle fazioni e di rifiutare per l'esercito il ruolo di strumento politico di parte. In più si deve sottolineare che tale posizione ha evitato un conflitto intestino che sarebbe stato gravissimo dal momento che ogni fazione libanese controlla un certo numero di ufficiali e una certa quantità di armi.
In questo quadro la tattica scelta da Nasrallah si è rivelata vincente perché ha permesso ad Hezbollah di chiarire di fronte a tutti i protagonisti nazionali ed internazionali della crisi libanese la propria forza e le difficoltà che vi sarebbero nel tentativo di schiacciarla. Dal suo canto Suleyman ha rafforzato la sua candidatura e ora può permettersi di richiedere la nomina invece di aspettare che le fazioni trovino un accordo. Se oggi il Libano non è ancora sprofondato nuovamente nella guerra civile una parte significativa del merito può essere attribuita all'odierno capo di stato maggiore. Tale attitudine non è casuale in un esponente maronita dal momento che proprio l'antica comunità cristiana sa di essere nel centro di una tempesta possibile che, ove scoppiasse, rischierebbe di cancellarla per sempre dalla storia del paese. Il pericolo, però, non è insito in uno scontro religioso tra islamici e cristiani come qualche commentatore nostrano del "Foglio“ delira e spera, ma conseguenza delle divisioni interne al mondo maronita che porterebbero in caso di guerra civile al reciproco annientamento tra le fazioni interne alla comunità. Se ricordiamo, poi, che il Libano è un piccolo paese, non possiamo non capire che tale prospettiva comporterebbe un livello di guerra all'interno delle stesse famiglie che compongono la comunità maronita, con l'avvio di faide che si protrarrebbero per decenni. Se si assume questo quadro è del tutto evidente perché la leadership più sensata della comunità stia cercando da mesi di evitare la deflagrazione dello scontro tra partiti sunniti e partiti sciiti, scontro che porterebbe le varie fazioni maronite, viste le loro alleanze, a ritrovarsi in guerra anche loro.
In questo scenario si deve assumere che Hezbollah ha segnato un punto rendendo evidente che il governo Siniora non controlla l'esercito e che non è in grado di gestire il paese nonostante l'asse Washington-Parigi-Tel Aviv lo sostenga con forza. Nasrallah potrebbe a questo punto ottenere la testa di Siniora ed entrare in un nuovo governo di unità nazionale dal quale resterebbe invece escluso Jumblatt ormai identificato come uomo di Washington e che potrebbe in modo unificato arrivare alla nomina di Suleyman alla testa del paese. Si tratta di uno scenario credibile ma sul quale giocano ancora parecchie incognite: dal comportamento dei drusi di Jumblatt, a quello delle potenze protettrici delle varie fazioni: se una Siria sulla difensiva sembra ben disposta al compromesso, l'Arabia Saudita, grande protettrice del clan Hariri e di quello Siniora ancora recentemente ha evitato di inviare a Damasco per un vertice della Lega Araba una delegazione di rilievo, proprio allo scopo di evitare discussioni con Damasco sul Libano. Per quanto riguarda Israele e USA, poi, bisogna capire se i due governi, attualmente in crisi il primo per gli scandali legasti al Primo Ministro Olmert e il secondo per i pessimi risultati della guerra irachena, siano disposti ad accordare ai nemici locali una tregua che ora come ora sarebbe necessaria anche a loro. I segnali precedenti alla crisi con la richiesta israeliana al governo italiano, presente in Libano con la missione ONU Unifil , di cambiare regole d'ingaggio ed attaccare le milizie armate di Hezbollah, sembrano andare in senso contrario; l'approssimarsi delle elezioni presidenziali USA, però, rendono opaco lo scenario e predispongono all'attesa di quali saranno i nuovi equilibri interni alla superpotenza americana. Il nodo verrà probabilmente sciolto nelle prossime settimane se non nei prossimi giorni, ma non per questo il Libano cesserà di essere terreno di guerre manovrate dall'esterno e dall'interno per il controllo di un piccolo paese che permette però la gestione e l'intervento nell'insieme del mondo mediorientale.

Giacomo Catrame

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