"La fine di un ordine genera possibilità. Vi è un momento, non troppo
lungo, in cui fra la fine di un modo di produzione e il consolidarsi di
un altro, appare l'infinita possibilità di altri mondi e modi di
produzione... In questo caso la libertà non è assenza di regole ma
moltiplicazione di mondi, di ordini, di regola. É il potere corrosivo
dell'eresia ben più potente dell'agnostico ritirarsi di fronte
all'assoluto. Ma solo in quell'attimo è dato di vedere il nuovo. Dopo,
i frammenti si ricompongono e la macchina sociale ricomincia a
lavorare... E spesso l'alba ha gli stessi colori del tramonto."
Franco Lattanzi
Il
28 aprile è morto Franco Lattanzi, più noto come Sbancor. Era molto
conosciuto come autore di alcuni interessanti libri - American
nightmare. Incubo americano, Diario di guerra e critica della guerra
umanitaria - e collaboratore di alcune riviste e liste di discussione.
Nel
merito del suo funerale il compagno Fabio Iacopucci ci scrive: "Durante
il rito funebre celebrato in un'abbazia gotica vicino al suo paese
natale, Sonnino, la giovanissima figlia Sara, mentre il prete
officiava, è venuta dalla nostra parte: "avete voi la bandiera?" ci ha
chiesto, l'ho tirata fuori da sotto il giubbotto e lei, forse
dodici/tredici anni, l'ha stesa con amore e delicatezza sulla bara non
curandosi affatto dell'espressione seria e perplessa del pretino."
Eppure
Franco Lattanzi non era, da molti anni, un militante anarchico nel
senso stretto del tempo. Eppure il suo rapporto con le radici della sua
formazione era fortissimo. Era una persona sicuramente interessante e
complessa.
Per quanto mi concerne, lo conobbi all'inizio degli
anni '70 in un'occasione per me singolare, un convegno organizzato
dalla rivista "L'Erba Voglio".
Franco veniva dalla Federazione
Comunista Libertaria di Roma, uno dei gruppi allora definiti
piattaformisti del movimento anarchico. Nonostante i piattaformisti
fossero o, almeno, fossero ritenuti una versione bolscevizzante
dell'anarchismo, il gruppo piattaformista romano, e Franco in
particolare, tendeva ad un superamento del movimento anarchico
specifico ed ad un'adesione ad un più ampio movimento di opposizione
sociale, quello che, in maniera per la verità imprecisa, venne anche
definito come l'autonomia diffusa.
In quell'occasione nacque un
sodalizio molto forte. Entrambi, pur venendo da esperienze alquanto
diverse, ci proponevamo una ridefinizione di una prassi e di
un'elaborazione libertarie che ci sembravano allora, magari con qualche
presunzione da parte nostra, inadeguate al livello dello scontro
politico e sociale del tempo.
In quegli anni tentammo di
ripercorrere una serie di elaborazioni teoriche del passato
dall'anarchismo classista e comunista al consiliarismo passando per
l'unionismo industriale degli IWW e per l'elaborazione della sinistra
antiburocratica degli anni '50 e '60 come quella rappresentata dalla
rivista "Socialisme ou Barbarie". Questo mentre eravamo impegnati 25
ore al giorno nelle lotte e nel confronto con altre posizioni teoriche
e politiche.
Dal nostro incontro, e soprattutto dalla nostra
collaborazione con diversi altri compagni, nacque, in particolare, la
versione stampata della rivista "Collegamenti per l'organizzazione
diretta di classe" che, sino al 1976 era uscita come un bollettino
ciclostilato essenzialmente milanese.
La redazione della rivista era
allora un laboratorio politico per noi appassionante, un luogo di
confronto di idee, di ricerche, di esperienze.
Franco in
quell'ambiente giocava un ruolo importante. Una solida preparazione,
una straordinaria curiosità intellettuale, una qualità notevolissima
dell'esposizione e della scrittura ne facevano un redattore di primo
piano e, soprattutto, un interlocutore in mille avventure politiche ed
esistenziali.
La redazione allora era, è opportuno ricordarlo, prima
un collettivo politico che un luogo di studio. La definizione "per
l'organizzazione diretta di classe" era presa assolutamente sul serio.
La
redazione di Roma della rivista portava nella discussione un'attitudine
parzialmente diversa rispetto a quelle "nordiste", una maggior
attenzione al quadro politico e l'ambizione di svolgere un ruolo nelle
vicende della sinistra sovversiva del tempo che erano sostanzialmente
assenti nella componente classista dura dei compagni del nord.
Ricordo
ancora le risate che ci facevamo quando Franco raccontava che
diffondeva con altri il primo numero della rivista durante i fatti del
'77 romano pubblicizzandola come rivista moralista e fabbrichista.
Franco
non era solo, in quegli anni, un compagno. Era anche un amico della
lunga adolescenza che accompagnava il maggio rampante italiano. Con lui
se ne combinavano di tutti i colori dalle mangiate pantagrueliche,
alcune delle quali meriterebbero una narrazione, a parte alle avventure
con le signorine che, in più di un'occasione, furono le stesse.
Con
lui e con Gianni Carrozza, il terzo membro più stretto del nostro
sodalizio, conquistammo sul campo il soprannome di "I tre mandarini" ad
opera di un ruspigante gruppo di operai toscani più classisti, almeno
nelle intenzioni, di noi e decidemmo di dar vita ad una rivista
letteraria dallo stesso titolo, rivista che non vide mai la luce.
Assieme
vivemmo la fine del maggio rampante e le prime lotte del precariato
sociale, la nascita di "Collegamenti Wobbly", scoprimmo assieme, lo
cito, che i colori del tramonto sono simili a quelli dell'alba.
Prendemmo
poi strade diverse, lui divenne un importante dirigente bancario, per
un verso e "Sbancor", il critico corrosivo della politica
internazionale, per l'altro e il mutare stesso del nostro stile di vita
portò a diradare i rapporti.
Restò un'amicizia importante e una
serie di incontri anche se non frequenti. Mi parlava a volte dei suoi
libri e delle sue ricerche, delle sue curiosità e delle sue
inquietudini.
Sapevo di suoi problemi di salute e di sue sofferenze
interiori e sin da quando lo avevo conosciuto mi era chiaro che il suo
vitalismo, come sovente avviene ai vitalismi, era la maschera di
tensioni profonde e di un sostanziale male di vivere.
Con lui, è
buffo ricordarlo, giocavo a volte la parte del saggio. Ora non potrò
più tirargli metaforicamente le orecchie e sentire le sue risposte a
volte ironiche a volte ciniche e la cosa mi mancherà molto.
Cosimo Scarinzi