Umanità Nova, n.18 del 18 maggio 2008, anno 88

Un sudario di bandiere. Israele, la Fiera del Libro, il boicottaggio


War does not determine who is right - only who is left.
La guerra non decide chi ha ragione ma solo chi sopravvive.
(Bertrand Russell)

A 60 anni dall'inizio della guerra civile tra le sponde del Mediterraneo e le rive del fiume Giordano, il conflitto irrisolto tra le popolazioni che, dopo il ritiro delle truppe coloniali britanniche, si trovavano in quella che per gli uni è la Palestina e per gli altri è Israele, conferma la validità della massima di Russell. Le ragioni delle armi sono solo le ragioni del più forte, di quello che sopravvive. Che il "diritto" discenda dalla forza, dalla violenta imposizione su chi non lo accetta come tale è nella natura dello stato di Israele, come nella natura di tutti gli Stati. Sebbene vi sia chi sostiene che Israele non è uno stato come gli altri, tuttavia la storia di Israele non è diversa da quella di tante tra le entità statuali costituitesi sulle spoglie del colonialismo. Guerre civili e dispute territoriali hanno attraversato ed attraversano mezza Africa eppure nessuno pensa che questi stati siano "speciali". Certo, nel lontano 1948 quelli che volevano lo stato di Israele erano per lo più immigrati, alcuni dei quali profughi di guerra portati in medio oriente da carrette del mare cui venne affidato un dolente carico umano di scampati ebrei ai lager nazisti. Negare loro il "diritto" a trasferirsi in medioriente, non è diverso dal negarlo a chi oggi arriva in Italia, fuggendo la fame, la guerra, le persecuzioni. È bene ricordarlo, perché la libera circolazione degli uomini non può essere un assioma a validità variabile.
60 anni dopo i discendenti di quei profughi sono padroni dei territori contesi allora, hanno il controllo militare di Gerusalemme, della Cisgiordania e di Gaza, conquistate dopo la guerra dei 6 giorni nel l967. Sebbene abbiano recentemente smantellato le colonie di Gaza, quelle costruite in Cisgiordania sono ormai parte integrante del territorio israeliano separate da un mostruoso muro dai territori abitati dai palestinesi. Quel Muro è il simbolo concreto di una politica di apartheid – di separazione razzista dalle popolazioni palestinesi. Gaza è un'immensa prigione a cielo aperto, stretta nella morsa della fame e della sete. Un inferno. In Cisgiordania, in Libano, in Giordania e in molti altri luoghi vivono i palestinesi che persero la guerra nel 1948 e abbandonarono i loro villaggi e le loro case. I palestinesi che non fuggirono vivono in Israele con lo status di cittadini di serie b.
Negare ai profughi palestinesi di questa guerra senza fine il "diritto" a stabilirsi nuovamente nei territori da cui fuggirono i loro padri non è diverso dal negarlo agli ebrei che scelsero queste terre per costruire il loro futuro.
Purtroppo l'essere stati vittime del razzismo non predispone all'accettazione dell'altro. Ogni terrone trova sempre qualcuno più terrone di lui.
Ho voluto ribadire alcuni fatti ovvi e ben noti perché, come sappiamo, le parole che dicono le cose, e, ancor più i concetti, non sono mai neutri. È quindi raro che si usi il termine guerra civile per definire il conflitto post coloniale in Medio Oriente, perché il farlo renderebbe eguali i contendenti, fuori da ogni logica nazionalista, fuori da ogni pretesa di definire il diritto alla terra in base all'appartenenza a questo o a quel gruppo etnico e/o religioso. Fuori dalla pretesa di fissare confini e sventolare bandiere. Purtroppo è oggi difficile costruire un discorso sul conflitto tra lo stato di Israele e l'entità nazionale palestinese che sappia prefigurarne un superamento reale. È difficile perché le proposte sul tappeto, dall'ormai remoto "due stati per due popoli" all'attuale proposta di "un unico stato per due nazionalità", eludono la questione di fondo, che è quella dell'accettazione dell'altro, in una prospettiva laica e libertaria. Una bella utopia? Probabile. Tuttavia i sostenitori del realismo, dovrebbero riflettere su quanto poco "realistico" sia il ritenere che un conflitto mortale per l'egemonia di un territorio possa terminare in modo diverso dall'asservimento/annientamento di una delle due parti – presumibilmente la più debole militarmente – se non si affronta il nodo del razzismo profondo che segna sin dalle origini questa guerra, chiudendo le porte a qualsiasi prospettiva di convivenza.
Eppure la drammatica situazione della popolazione palestinese, l'urgenza di porre fine all'apartheid imporrebbe uno sforzo concreto in tal senso, sostenenendo chi concretamente lotta per costruire un'opposizione all'occupazione che sia al contempo opposizione ad ogni forma di nazionalismo. La lunga stagione di azioni contro la costruzione del Muro in Cisgiordania, che ha visto protagonisti, tra gli altri, gli "Anarchici contro il Muro", è un esempio di lotta congiunta tra palestinesi e israeliani. Una lotta difficile, pagata con la repressione, contrastata sia dall'esercito israeliano che dagli attivisti di Hamas, accomunati dal timore che il muro della separazione finisca paradossalmente con l'unire chi dovrebbe invece dividere.
Torino è stata recentemente attraversata dalla questione della guerra civile in atto in medio oriente perché la decisione dell'annuale Fiera del Libro di invitare come ospite d'onore Israele in occasione del 60 anniversario della sua costituzione ha suscitato ampie polemiche, al punto da far nascere una campagna di boicottaggio culminata in un corteo nazionale il 10 maggio. Nonostante il grande battage pubblicitario ed il consueto corollario allarmistico montato dai media, l'iniziativa è stata assai modesta, ben al di sotto delle aspettative. Una bomba carta, deflagrata sui giornali, ma incapace di reggere la prova della strada.
Un'occasione perduta. Non tanto per la scarsa partecipazione al corteo e al presidio giornaliero davanti alla Fiera – di questi tempi le grandi masse volgono altrove i loro occhi - , quanto per il ripetersi ormai logoro di un rito nazionalista, al quale una sinistra senza troppe prospettive affida le proprie sorti. Il corteo era un unico sventolio di bandiere palestinesi, segno inequivocabile di schieramento con una delle due parti in conflitto. Lo stare con il più debole non conferisce un crisma di moralità, perché il sostenere la nascita di uno stato – quale esso sia – significa schierarsi con chi sostiene il "diritto" al monopolio della violenza su un dato territorio, significa schierarsi contro la prospettiva di un'umanità realmente internazionale. Significa seppellire sotto un sudario di bandiere quel che rimane della storia della lotta di emancipazione degli sfruttati e degli oppressi contro ogni forma di sfruttamento e oppressione.
Il primo maggio a Torino, gli autonomi avevano fatto l'ormai rituale rogo di bandiere israeliane e statunitensi, l'11 maggio alla Fiera della Libro gli israeliani si vantavano di aver venduto duemila bandiere, molte più dei partecipanti al corteo.
In questa penosa guerra dei vessilli si dimentica che in nome di queste bandiere si ammazza e si muore. Sarebbe tempo di bruciarle tutte: quelle palestinesi e quelle con la stella di Davide. Senza dimenticare il tricolore, nel cui nome i governi dello stato italiano deportano i migranti e fanno la guerra in Afganistan.

ma.ma.

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