War does not determine who is right - only who is left.
La guerra non decide chi ha ragione ma solo chi sopravvive.
(Bertrand Russell)
A 60 anni dall'inizio della guerra civile tra le sponde del
Mediterraneo e le rive del fiume Giordano, il conflitto irrisolto tra
le popolazioni che, dopo il ritiro delle truppe coloniali britanniche,
si trovavano in quella che per gli uni è la Palestina e per gli
altri è Israele, conferma la validità della massima di
Russell. Le ragioni delle armi sono solo le ragioni del più
forte, di quello che sopravvive. Che il "diritto" discenda dalla forza,
dalla violenta imposizione su chi non lo accetta come tale è
nella natura dello stato di Israele, come nella natura di tutti gli
Stati. Sebbene vi sia chi sostiene che Israele non è uno stato
come gli altri, tuttavia la storia di Israele non è diversa da
quella di tante tra le entità statuali costituitesi sulle
spoglie del colonialismo. Guerre civili e dispute territoriali hanno
attraversato ed attraversano mezza Africa eppure nessuno pensa che
questi stati siano "speciali". Certo, nel lontano 1948 quelli che
volevano lo stato di Israele erano per lo più immigrati, alcuni
dei quali profughi di guerra portati in medio oriente da carrette del
mare cui venne affidato un dolente carico umano di scampati ebrei ai
lager nazisti. Negare loro il "diritto" a trasferirsi in medioriente,
non è diverso dal negarlo a chi oggi arriva in Italia, fuggendo
la fame, la guerra, le persecuzioni. È bene ricordarlo,
perché la libera circolazione degli uomini non può essere
un assioma a validità variabile.
60 anni dopo i discendenti di quei profughi sono padroni dei territori
contesi allora, hanno il controllo militare di Gerusalemme, della
Cisgiordania e di Gaza, conquistate dopo la guerra dei 6 giorni nel
l967. Sebbene abbiano recentemente smantellato le colonie di Gaza,
quelle costruite in Cisgiordania sono ormai parte integrante del
territorio israeliano separate da un mostruoso muro dai territori
abitati dai palestinesi. Quel Muro è il simbolo concreto di una
politica di apartheid – di separazione razzista dalle popolazioni
palestinesi. Gaza è un'immensa prigione a cielo aperto, stretta
nella morsa della fame e della sete. Un inferno. In Cisgiordania, in
Libano, in Giordania e in molti altri luoghi vivono i palestinesi che
persero la guerra nel 1948 e abbandonarono i loro villaggi e le loro
case. I palestinesi che non fuggirono vivono in Israele con lo status
di cittadini di serie b.
Negare ai profughi palestinesi di questa guerra senza fine il "diritto"
a stabilirsi nuovamente nei territori da cui fuggirono i loro padri non
è diverso dal negarlo agli ebrei che scelsero queste terre per
costruire il loro futuro.
Purtroppo l'essere stati vittime del razzismo non predispone
all'accettazione dell'altro. Ogni terrone trova sempre qualcuno
più terrone di lui.
Ho voluto ribadire alcuni fatti ovvi e ben noti perché, come
sappiamo, le parole che dicono le cose, e, ancor più i concetti,
non sono mai neutri. È quindi raro che si usi il termine guerra
civile per definire il conflitto post coloniale in Medio Oriente,
perché il farlo renderebbe eguali i contendenti, fuori da ogni
logica nazionalista, fuori da ogni pretesa di definire il diritto alla
terra in base all'appartenenza a questo o a quel gruppo etnico e/o
religioso. Fuori dalla pretesa di fissare confini e sventolare
bandiere. Purtroppo è oggi difficile costruire un discorso sul
conflitto tra lo stato di Israele e l'entità nazionale
palestinese che sappia prefigurarne un superamento reale. È
difficile perché le proposte sul tappeto, dall'ormai remoto "due
stati per due popoli" all'attuale proposta di "un unico stato per due
nazionalità", eludono la questione di fondo, che è quella
dell'accettazione dell'altro, in una prospettiva laica e libertaria.
Una bella utopia? Probabile. Tuttavia i sostenitori del realismo,
dovrebbero riflettere su quanto poco "realistico" sia il ritenere che
un conflitto mortale per l'egemonia di un territorio possa terminare in
modo diverso dall'asservimento/annientamento di una delle due parti –
presumibilmente la più debole militarmente – se non si affronta
il nodo del razzismo profondo che segna sin dalle origini questa
guerra, chiudendo le porte a qualsiasi prospettiva di convivenza.
Eppure la drammatica situazione della popolazione palestinese,
l'urgenza di porre fine all'apartheid imporrebbe uno sforzo concreto in
tal senso, sostenenendo chi concretamente lotta per costruire
un'opposizione all'occupazione che sia al contempo opposizione ad ogni
forma di nazionalismo. La lunga stagione di azioni contro la
costruzione del Muro in Cisgiordania, che ha visto protagonisti, tra
gli altri, gli "Anarchici contro il Muro", è un esempio di lotta
congiunta tra palestinesi e israeliani. Una lotta difficile, pagata con
la repressione, contrastata sia dall'esercito israeliano che dagli
attivisti di Hamas, accomunati dal timore che il muro della separazione
finisca paradossalmente con l'unire chi dovrebbe invece dividere.
Torino è stata recentemente attraversata dalla questione della
guerra civile in atto in medio oriente perché la decisione
dell'annuale Fiera del Libro di invitare come ospite d'onore Israele in
occasione del 60 anniversario della sua costituzione ha suscitato ampie
polemiche, al punto da far nascere una campagna di boicottaggio
culminata in un corteo nazionale il 10 maggio. Nonostante il grande
battage pubblicitario ed il consueto corollario allarmistico montato
dai media, l'iniziativa è stata assai modesta, ben al di sotto
delle aspettative. Una bomba carta, deflagrata sui giornali, ma
incapace di reggere la prova della strada.
Un'occasione perduta. Non tanto per la scarsa partecipazione al corteo
e al presidio giornaliero davanti alla Fiera – di questi tempi le
grandi masse volgono altrove i loro occhi - , quanto per il ripetersi
ormai logoro di un rito nazionalista, al quale una sinistra senza
troppe prospettive affida le proprie sorti. Il corteo era un unico
sventolio di bandiere palestinesi, segno inequivocabile di schieramento
con una delle due parti in conflitto. Lo stare con il più debole
non conferisce un crisma di moralità, perché il sostenere
la nascita di uno stato – quale esso sia – significa schierarsi con chi
sostiene il "diritto" al monopolio della violenza su un dato
territorio, significa schierarsi contro la prospettiva di
un'umanità realmente internazionale. Significa seppellire sotto
un sudario di bandiere quel che rimane della storia della lotta di
emancipazione degli sfruttati e degli oppressi contro ogni forma di
sfruttamento e oppressione.
Il primo maggio a Torino, gli autonomi avevano fatto l'ormai rituale
rogo di bandiere israeliane e statunitensi, l'11 maggio alla Fiera
della Libro gli israeliani si vantavano di aver venduto duemila
bandiere, molte più dei partecipanti al corteo.
In questa penosa guerra dei vessilli si dimentica che in nome di queste
bandiere si ammazza e si muore. Sarebbe tempo di bruciarle tutte:
quelle palestinesi e quelle con la stella di Davide. Senza dimenticare
il tricolore, nel cui nome i governi dello stato italiano deportano i
migranti e fanno la guerra in Afganistan.
ma.ma.