Spesso un'immagine è talmente immediata, da dire molto di
più di tanti discorsi. Come, ad esempio, la recente foto del
ministro della difesa Ignazio La Russa in visita al contingente
italiano di stanza in Libano, nella quale lo si vede indossare,
anziché un neutro completo ministeriale in grisaglia, una
fiammante tuta mimetica con maglietta militare. Evidentemente non gli
era sembrato vero poter finalmente sfoggiare "in via ufficiale" una
divisa militare, soldato fra soldati, a inconfessata imitazione di quel
tale che per un ventennio di divise ne aveva indossate, anche se da
operetta, una collezione intera. Buffone questi, buffone quello!
Come si sa, la preoccupazione maggiore degli esponenti di Alleanza
nazionale, definitivamente giunti alla stanza dei bottoni e ben decisi
a non abbandonarla, è far dimenticare la passata militanza
neofascista. Dopo quasi cinquant'anni di saluti romani e di orgogliose
quanto patetiche esaltazioni della presunta grandezza dell'Italia
fascista, questi epigoni di Almirante e Romualdi oggi si fingono
pentiti del loro truculento passato, esibendo all'uopo una patente di
democratica tolleranza, di apertura alle idee e alla cultura, di
rispetto per i diversi e le diversità, tutte cose inconciliabili
con l'essenza e la natura della passata mentalità. Ma un conto
sono le parole e le dichiarazioni formali, e un conto i fatti. E sui
fatti, non c'è bisogno di dirlo, casca l'asino. Rovinosamente..
Non passa giorno, infatti, che una qualche incontenibile scivolata
venga a smascherarne l'indole, permettendo così di ricordare,
anche a chi non vorrebbe, la loro vera natura. Del resto, il fascismo
non è soltanto l'espressione formale di una ideologia o di un
progetto politico, ma anche, e a volte "maggioritariamente", una forma
mentis impastata di una sottocultura di "valori ideali" talmente nobili
ed alti da esprimersi, di norma, in termini di autoritarismo, violenza
e prevaricazione. E questa sottocultura, altrettanto inestirpabile
quanto un codice genetico, riaffiora senza pietà, costringendo
chi vorrebbe nasconderla, ad arrampicate sugli specchi tanto penose e
ridicole quanto prive di risultati.
Un giovane dall'aspetto alternativo viene massacrato a Verona da un
gruppo di neofascisti, inabili a risposte che non siano quelle della
pura violenza. Un fatto gravissimo, nella sua drammatica e gratuita
assurdità. Il presidente della Camera Gianfranco Fini,
scordandosi di essere l'onesto e civile democratico di cui si
favoleggia, osserva che delitto ben più grave è stato
bruciare una bandiera israeliana durante una manifestazione della
cosiddetta sinistra antagonista torinese. Va bene che la recente
amicizia degli ex fascisti con Israele è il pegno della politica
filoamericana del padrone, va bene che le loro visite ai luoghi
dell'orrore nazista sono un patetico tentativo di rinnegare le
gravissime complicità del fascismo nello sterminio degli ebrei,
va bene che l'innato e disgustoso antisemitismo comune ai fascisti di
tutte le fatte non può più essere pubblicamente esibito -
se non in qualche greve e stantia barzelletta sulla "rapacità"
dei rabbini - ma l'accostare l'incendio di un pezzo di stoffa con
l'omicidio di un giovane innocente, non è soltanto una evidente
strumentalizzazione politica, ma è anche, e soprattutto,
espressione di una scala di valori brutalmente aberrante. E viste le
premesse, anche l'infelice esordio da presidente della Camera, segnato
dall'insofferenza per le regole di quella democrazia a cui si "onora"
di appartenere, lascia prevedere altre, e altrettanto gravi, scivolate.
Il nuovo sindaco di Roma, già picchiatore fascista e affettuoso
genero dello stragista Pino Rauti, dopo essere stato festeggiato da
amici e compagni d'armi con i consueti saluti romani e i ridicoli eja
eja alalà, tra un'apertura a sinistra e un riconoscimento
all'avversario (ma che fatica dover fare i democratici!) prima ha speso
le solite parole omofobiche a proposito del Gay pride, poi è
inciampato nella glorificazione del fascismo, accreditando al ventennio
la modernizzazione del paese. Tralasciando per carità di patria
qualsiasi considerazione sulla stupidità di tale affermazione,
riaffiora ancora una volta, in questo figuro come nei suoi camerati,
una struggente nostalgia per il totalitario regime del manganello, del
confino, delle guerre di aggressione e… dei treni che arrivavano in
orario.
Questi esempi, anche se ancora pochi, assicurano tuttavia che non ne
mancheranno altri, a meno che, andando avanti nel tempo e rafforzandosi
questo surrogato di regime, i nostri neo-ex-post fascisti non
riterranno opportuno gettare la sgradita maschera della civile
convivenza, per riproporre, in piena libertà, il solito
armamentario fatto di parole tanto vuote quanto pericolose come
"onore", "patria", "identità". Parole vuote, certamente, ma al
riparo delle quali stanno concetti un po' più pieni e pesanti,
gli stessi che gli italiani hanno dovuto sperimentare per un intero
ventennio.
Massimo Ortalli