Hassan stava male, molto male. I suoi compagni hanno gridato, gridato e
gridato. Urla nella notte di Torino, urla tra le sbarre del nuovo CPT
di Corso Brunelleschi, urla nel silenzio e nell'indifferenza.
Dopo ore di agonia Hassan muore. Il medico, chiamato inutilmente nella
notte, arriva solo il mattino successivo, e non può far altro
che constatarne la morte.
È l'ultimo atto della vita di un immigrato di 38 anni, un
clandestino senza documenti, tossico, uno dei tanti che una legge
razzista condanna alla deportazione. La sua storia probabilmente
sarebbe finita così, senza clamore, in una livida giornata di
maggio dal sapore di autunno, con la pioggia che tira fuori odore di
terra e asfalto dal miserabile viale alberato che separa i muri del Cpt
dalle case di fronte.
Mohammed Al Huari, iracheno di Falluja, detenuto al CPT in una cella
vicina a quella di Hassan, non si rassegna, non vuole ingoiare la
rabbia di una morte così. Dice "qui siamo come in un canile,
dove se abbai, nessuno ti ascolta". Mohammed parla con un giornalista,
che decide di raccontare la sua storia.
Lui era vicino ad Hassan, la sua cella è la numero 2 della zona
rossa del "nuovo" CPT, la struttura in muratura inaugurata
clandestinamente il lunedì precedente, che sostituisce le
baracche di lamiera che negli ultimi 9 anni hanno "ospitato" gli
immigrati in attesa di deportazione.
Il magrebino sta male, ha la febbre alta, non si regge in piedi sin
dalla mattina di venerdì 23 maggio. Un medico lo vede solo alle
"tre del pomeriggio. Gli viene dato un antibiotico. Ma verso sera
invece che guarire, peggiora". Dalla cartella clinica mostrata
all'europarlamentare Agnoletto, che entra al CPT lunedì 26,
risulta che anche al mattino Hassan sarebbe stato visitato da un medico
che gli avrebbe prescritto un antipiretico ed un antibiotico ad ampio
spettro. Ma dopo la visita del pomeriggio Hassan è abbandonato
nel letto dove consuma la sua agonia. Il suo corpo viene ritrovato da
un altro ragazzo, venuto a chiamarlo per passargli una telefonata del
fratello. Ha la bava alla bocca, mani e piedi sono blu. Segno
inequivocabile di ipossia, una grave carenza di ossigeno nel sangue:
con ogni probabilità Hassan è morto di polmonite.
Il sindaco Chiamparino dichiara che si è trattato di una
disgrazia, che sarebbe potuto succedere anche in ospedale, che nessuno
deve strumentalizzare. In nessun ospedale un malato che agonizza
è lasciato senza cure dal pomeriggio al giorno successivo. Se
accadesse i paramedici e i medici responsabili sarebbero accusati di
omissione di soccorso. Ossia di omicidio. Come quello perpetrato dalla
Croce Rossa nel CPT di Corso Brunelleschi nella notte tra il 23 e il 24
maggio.
Antonio Baldacci, responsabile del Cpt per la Croce Rossa, che lo ha in
gestione, ha dichiarato ai giornali che al Cpt c'è assistenza
medica 24 su 24, ha detto che nessuno li ha chiamati, che tutti
dormivano.
Mohammed Al Huari risponde che i prigionieri hanno chiesto aiuto
intorno "a mezzanotte e mezza, per venti minuti almeno. Abbiamo urlato
a lungo: io ho perso la voce a forza di gridare".
La replica di Baldacci trasuda razzismo e paura: descrive i suoi
"ospiti" come "clandestini abituati a dire bugie: mentono su data di
nascita, nazionalità, nome. Per loro è facile ed abituale
non dire la verità. Non vedo perché si debba credere alle
storie che raccontano. Vogliono solo creare il caos."
La parola di un secondino in divisa della Croce Rossa vale di
più di quella di trenta clandestini che dichiarano di voler
testimoniare, che chiedono si visionino le telecamere piazzate
all'interno del cpt.
Uno di loro ha i polsi fasciati, un profondo taglio al mento e cammina
a fatica. Il giorno precedente alla morte di Hassan aveva deciso di
rinunciare all'ospitalità di Baldacci, scavalcando il muro.
Subito preso, viene picchiato selvaggiamente. I poliziotti ovviamente
dichiarano che è caduto. Chi fugge e non ce la fa inciampa e
cade sempre.
Domenica piove ancora.
La notizia di quello che è successo al CPT comincia a girare.
Sui muri della sede della Croce Rossa in via Bologna compaiono delle
scritte: "assassini!" "chiudere i Cpt". Da allora la polizia mette
sotto sorveglianza la sede dell'organizzazione umanitaria che gestisce
una prigione. Niente di strano: al tempo della guerra chiamata pace,
anche la pace prende il sapore della guerra, arruolando tutti quelli
che ci stanno.
Un veloce tam tam e una cinquantina di persone si ritrova davanti al
CPT, davanti ad un muro alto, sporco, oltre il quale stanno le
cancellate che ingabbiano l'area dove sono rinchiuse 62 persone. Dalla
mattina i prigionieri rifiutano il cibo per denunciare l'omicidio di
Hassan.
Fuori la pioggia non da tregua. Si grida, di battono i pali della luce,
si parla al microfono. Un numero di telefono riesce a filtrare oltre il
muro. Uno e poi un altro e poi ancora altri chiamano, raccontano le
loro storie. Parlano di quello che è successo, della loro vita
spezzata, del futuro che si chiude. Uno dice: "non mi ricordo nemmeno
più l'arabo: mi mandano in Marocco a fare il barbone.
Perché?". Un altro parla del ragazzo che ha cercato di scappare,
di come l'hanno pestato. Tutti vogliono giustizia per Hassan.
Tra noi fuori e loro dentro c'è un muro e lungo il muro i cani
da guardia dello Stato. L'impotenza dei pochi solidali rode le
coscienze di chi sa di essere dalla parte dei salvati mentre altri –
ogni giorno – vengono sommersi.
In serata la rivolta cresce: materassi e suppellettili vengono
distrutti, i prigionieri si legano al collo lenzuola minacciando di
impiccarsi. Un ragazzo si appende davvero ma gli altri lo tirano
giù.
Nei due giorni successivi lo sciopero prosegue ed il filo della
comunicazione con i reclusi resta aperto: per telefono ci dicono che
vengono negate loro le cure, che la Croce Rossa non si avvicina. Il
numero del CPT è sommerso di chiamate di solidali che chiedono
che un medico visiti i malati: la Croce Rossa cede e chi sta male viene
visitato. Una piccola vittoria della solidarietà.
Martedì sera davanti al CPT siamo in tanti, qualche centinaio.
Si grida ancora, si sparano fuochi d'artificio, ci si telefona.
"Libertà. Libertà" e l'aria della sera, nella breve
tregua della pioggia, per un attimo trema.
Domani si ricomincia, perché oggi più che mai ogni giorno
è emergenza, ogni giorno è resistenza. Per Hassan e
quelli come lui, ma anche per la libertà e la dignità di
tutti noi.
Hassan non era il suo vero nome, ma quello che ha dato ai suoi
carcerieri nella speranza di sfuggire, almeno per un po', alla
deportazione. Il Cpt lo ha ucciso e lui con questo nome c'è
morto. La sua famiglia in Tunisia lo ricorderà per quello che
era, ma noi qui, in quest'Italia feroce, lo ricorderemo come Hassan.
Uno dei tanti Hassan che quest'epoca di sangue e barbarie si è
inghiottita.
Maria Matteo