La recente adozione del cosiddetto pacchetto sicurezza varato dal
governo Berlusconi ha riacceso i riflettori sulle politiche repressive
nei confronti degli immigrati e sulle norme con cui lo stato intende
gestire i flussi migratori nel nostro paese.
Partendo dall'infame presupposto che l'immigrazione è un
problema di ordine pubblico e che come tale va affrontato, il sistema
normativo si preoccupa di contenere e reprimere la libertà di
circolazione per adempiere ai dettati dell'Unione europea e per piegare
l'esistenza stessa degli immigrati alle esigenze del mercato del lavoro.
Non c'è bisogno di ribadire che la clandestinità in cui
si trovano migliaia di lavoratori immigrati non è una scelta di
vita bensì il naturale prodotto di un sistema che rende
praticamente impossibile l'ingresso regolare degli immigrati nel nostro
paese fornendo così al padronato una massa enorme di manodopera
a basso costo, senza diritti e perfettamente ricattabile. Ed è
qui che entrano in gioco i Centri di Permanenza Temporanea (CPT).
Istituiti nel 1998 dalla legge sull'immigrazione Turco-Napolitano (L.
40/1998 - governo di Centrosinistra ), i CPT sono strutture detentive
in cui vengono reclusi i cittadini stranieri sprovvisti di permesso di
soggiorno. Tale detenzione è finalizzata all'identificazione
dell'immigrato che deve essere rimpatriato. Il periodo previsto di
detenzione, che con questa legge era di trenta giorni, è stato
portato a sessanta dalla successiva legge Bossi-Fini (L. 189/2002 -
governo di Centrodestra), tuttora in vigore.
Nonostante i cittadini stranieri si trovino all'interno dei CPT con lo
status di trattenuti, la loro permanenza nella struttura corrisponde di
fatto a una detenzione perché sono privati della libertà
personale e sono sottoposti a un regime di coercizione che, tra le
altre cose, gli impedisce di ricevere visite e di far valere il
fondamentale diritto alla difesa legale.
I CPT hanno inaugurato in Italia lo stato della detenzione
amministrativa, sottoponendo a regime di privazione della
libertà persone che hanno violato una disposizione
amministrativa (ovvero il non possedere il permesso di soggiorno).
L'attuale dibattito sulla conversione della clandestinità in
reato penale prefigura uno scenario repressivo ancora più
soffocante alla luce della volontà di allungare fino a ben 18
mesi il periodo di detenzione nei CPT. Questi ultimi si appresterebbero
così a diventare dei Centri di Identificazione ed Espulsione
(CIE) e negli intendimenti del governo potrebbero trovare realizzazione
in aree militari dismesse. Così facendo, si assisterebbe a
un'ulteriore militarizzazione del controllo dello stato sugli
immigrati, un controllo che già oggi è assolutamente
intollerabile.
Attualmente, il funzionamento dei CPT è di competenza del
prefetto che affida, tramite convenzioni, i servizi di gestione della
struttura a soggetti privati, responsabili del rapporto con i detenuti
e del funzionamento materiale del centro.
Le forze dell'ordine (polizia e carabinieri) presidiano normalmente gli
spazi esterni alle strutture ma, nella prassi, il controllo da parte
del personale di pubblica sicurezza si estende direttamente anche negli
spazi interni. L'accesso ai CPT è formalmente vietato ad
amministratori di enti pubblici, giornalisti, operatori di
organizzazioni per i diritti umani e garanti per i diritti delle
persone detenute. Solo deputati e senatori, previa autorizzazione
prefettizia, possono visitare i CPT.
Oggi i CPT operativi in Italia sono dieci: Bari-Palese (196 posti),
Bologna (95), Caltanissetta (96), Lamezia Terme (75), Gradisca d'Isonzo
(136), Milano (112), Modena (60), Roma (300), Torino (92), Trapani
(57), gestiti per lo più dalla Croce Rossa, dalle Misericordie o
da altre cooperative e strutture di volontariato che hanno trovato
particolarmente redditizio il business della detenzione degli immigrati
prevista dalle leggi razziste. A questo elenco va aggiunta anche la
struttura di Lampedusa che, al pari di altre, ha solo mutato la propria
denominazione in "Centro di prima accoglienza" continuando a essere una
galera.
Nei dieci anni di esistenza dei CPT è successo di tutto
all'interno delle loro mura circondate da sbarre e filo spinato:
tentativi di fuga più o meno riusciti, ferimenti procurati
durante le evasioni, proteste sfociate in scontri anche durissimi con
le forze dell'ordine (cariche e lacrimogeni compresi), rappresaglie e
pestaggi da parte di polizia e carabinieri, somministrazione di
psicofarmaci da parte del personale sanitario al fine di stordire e
sedare i detenuti, abusi sessuali, decessi per mancanza di cure
adeguate, atti di autolesionismo e suicidi da parte degli immigrati,
vere e proprie stragi come quella in cui sei immigrati morirono a
Trapani nel 1999 in seguito a un incendio divampato durante una fuga.
In moltissimi casi la solidarietà antirazzista e
internazionalista ha fatto sì che quanto accaduto nei CPT sia
stato portato all'esterno, all'attenzione dell'opinione pubblica. Le
mobilitazioni antirazziste hanno avuto negli anni molti alti e bassi,
registrando alternativamente vittorie e sconfitte sempre parziali. La
repressione è stata spesso molto dura perché si tratta di
una lotta strutturale che va a toccare i nervi scoperti di un sistema -
quello del controllo della libertà di movimento – che non
è soltanto italiano ma anche e soprattutto europeo (se non
addirittura mondiale).
Ecco, quindi, cosa sono i CPT. Istituzioni totali in cui il potere
esercita il proprio dominio sulla base di leggi escludenti e razziste.
Posti abietti in cui si rischia di essere reclusi anche dopo una vita
di lavoro: è sufficiente essere licenziati e perdere, con il
contratto di lavoro, il permesso di soggiorno e – con esso - una vita
intera.
La casistica delle situazioni incresciose è potenzialmente
infinita. Ma dietro ogni numero c'è un individuo, con la sua
storia e il suo vissuto personale. Un vissuto fatto di sacrifici, di
speranze e di contraddizioni drammatiche come per qualunque emigrante.
Anche gli italiani sono stati emigranti e lo sono tuttora, ma sembra
che la maggior parte della gente se lo sia scordato.
Ecco cosa sono i CPT. Chiudiamoli!
TAZ laboratorio di comunicazione libertaria