La riforma del sistema psichiatrico italiano, che, con la legge 180
del 1978, ha visto l'abolizione dei Manicomi, si è rivelata
più verbale che materiale, riguardando solo i luoghi della
psichiatria, non i trattamenti e le logiche sottostanti.
Con la chiusura degli Ospedali Psichiatrici si è verificata una
trasformazione che ha visto sorgere tutta una serie di piccole
strutture preposte all'accoglienza dei vecchi e nuovi utenti della
psichiatria, quali case famiglia, Centri di Salute Mentale (CSM),
centri diurni, reparti ospedalieri, comunità terapeutiche, ecc,
all'interno dei quali continuano a perpetuarsi sia l'etichetta di
"malato mentale" sia i metodi coercitivi e violenti della psichiatria.
Si sono conservati dispositivi e strumenti propri dei manicomi, quali
la gestione del tempo quotidiano, dei soldi, l'obbligo delle cure e il
ricorso alla contenzione fisica.
La legge Basaglia non ha intaccato il fenomeno dell'internamento,
mantenendo inalterato il principio di manicomialità in base al
quale chiunque può essere arbitrariamente etichettato come
"malato mentale" e rinchiuso. Mentre l'articolo 32 della Costituzione
sancisce il diritto alla libera scelta del luogo di cura e la
volontarietà delle cure mediche, con la legge 180 e la
successiva 833 si sono stabiliti dei casi in cui il ricovero può
essere effettuato indipendentemente dalla volontà
dell'individuo: è il caso del TSO (Trattamento Sanitario
Obbligatorio) e dell'ASO (Accertamento Sanitario Obbligatorio).
Nel 1882 la popolazione dei degenti psichiatrici era calcolata intorno
alle 24.118 persone. Nel 1914 tale cifra raggiunse i 54.311 individui,
per impennare ancora toccando, nel 1934, gli 80.000 internati. Su
queste stime si mantenne fino al 1971, anno in cui cominciò a
decrescere gradualmente fino a raggiungere nel 1978 i 54.000 internati,
con un movimento annuo di ricoverati che ammontava a circa 190.000
persone. Nel 1978 esistevano in Italia un centinaio di istituti
(Ospedali Psichiatrici Provinciali) con una capacità di circa
80.000 posti letto.
Oggi il numero degli internati nel sistema post-manicomiale è
difficilmente calcolabile perché con l'introduzione del TSO il
flusso in entrata ed in uscita dai reparti nell'arco dell'anno si
è fortemente accelerato, mentre la diffusione dei trattamenti
psichiatrici extra-ospedalieri è enorme e riguarda ormai
più di 600.000 persone.
Il regime terapeutico imposto dal TSO ha una durata di 7 giorni e
può essere effettuato solo all'interno di reparti psichiatrici
di ospedali pubblici. Deve essere disposto con provvedimento del
Sindaco del Comune di residenza su proposta motivata da un medico e
convalidata da uno psichiatra operante nella struttura sanitaria
pubblica. Dopo aver firmato la richiesta di TSO, il Sindaco deve
inviare il provvedimento e le certificazioni mediche al Giudice
Tutelare operante sul territorio il quale deve notificare il
provvedimento e decidere se convalidarlo o meno entro 48 ore. Lo stesso
procedimento deve essere seguito nel caso in cui il TSO sia rinnovato
oltre i 7 giorni.
La legge stabilisce che il ricovero coatto può essere eseguito
solo se sussistono contemporaneamente tre condizioni: l'individuo
presenta alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi
terapeutici, l'individuo rifiuta la terapia psichiatrica, l'individuo
non può essere assistito in altro modo rispetto al ricovero
ospedaliero. Subito ci troviamo di fronte ad un problema: chi determina
lo "stato di necessità" e l'urgenza dell'intervento terapeutico?
E, in che modo si dimostra che il ricovero ospedaliero è l'unica
soluzione possibile? Risulta evidente che le condizioni di attuazione
di un TSO rimandano, di fatto, al giudizio esclusivo ed arbitrario di
uno psichiatra, giudizio al quale il Sindaco, che dovrebbe insieme al
Giudice Tutelare agire da garante del paziente, di norma non si oppone.
Per la persona coinvolta l'unica possibilità di sottrarsi al TSO
sta nell'accettazione della terapia al fine di far decadere una delle
tre condizioni, ma è frequente che il provvedimento sia
mantenuto anche se il paziente non rifiuta la terapia.
Se, in teoria, la legge prevede il ricovero coatto solo in casi
limitati e dietro il rispetto rigoroso di alcune condizioni, la
realtà testimoniata da chi la psichiatria la subisce è
ben diversa. Con grande facilità le procedure giuridiche e
mediche vengono aggirate: nella maggior parte dei casi i ricoveri
coatti sono eseguiti senza rispettare le norme che li regolano e
seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi nessuno
è a conoscenza delle normative e dei diritti del ricoverato.
Spesso il paziente non viene informato di poter lasciare il reparto
dopo lo scadere dei sette giorni ed è trattenuto
inconsapevolmente in regime di TSV (Trattamento Sanitario Volontario).
Persone che si recano in reparto in regime di TSV sono poi trattenute
in TSO al momento in cui richiedono di andarsene. Diffusa è la
pratica di far passare, tramite pressioni e ricatti, quelli che
sarebbero ricoveri obbligati per ricoveri volontari: si spinge
cioè l'individuo a ricoverarsi volontariamente minacciandolo di
intervenire altrimenti con un TSO. La funzione dell'ASO è
generalmente quella di portare la persona in reparto, dove sarà
poi trattenuta in regime di TSV o TSO secondo la propria
accondiscendenza agli psichiatri. Esemplificativa la vicenda di M. R.,
condotto al CSM di Livorno per un ASO il 30 gennaio 2008: M. in quella
occasione accettò il ricovero volontario per non incorrere in un
TSO, ma il 6 febbraio, alla sua richiesta di uscire, gli venne
notificato un TSO che lo costrinse a rimanere in reparto per altre due
settimane.
L'obbligo di cura oggi non si limita più alla reclusione in una
struttura, ma si trasforma nell'impossibilità effettiva di
modificare o sospendere il trattamento psichiatrico per la costante
minaccia di ricorso al ricovero coatto cui ci si avvale alla stregua di
strumento di oppressione e punizione.
L'attuale situazione è frutto non solo del potere psichiatrico e
della totale mancanza di informazioni in merito all'istituzione
psichiatrica, ma anche delle pressioni e intimidazioni più o
meno dirette che le persone finiscono per subire in ambito familiare e
sociale.
Un altro dato non può essere tralasciato: il grado di
spersonalizzazione ed alienazione che si raggiunge durante una
settimana di TSO ha pochi eguali. Il ricovero coatto rimane un atto di
violenza e rappresenta un grande trauma per chi lo subisce. Insieme al
bombardamento farmacologico che mira ad annullare la coscienza di
sé della persona e a renderla docile ai ritmi e alle regole
ospedaliere, per i pazienti considerati "agitati" si ricorre ancora
all'isolamento e alla contenzione fisica. Riprovevole la vicenda del
giugno 2006 che vide G. Casu, un venditore ambulante ricoverato in TSO
a Cagliari, morire dopo sette giorni di contenzione fisica e
farmacologica. A seguito di questo tragico episodio il primario del
reparto è stato sospeso dall'incarico e rinviato a giudizio per
omicidio colposo insieme ad una collega psichiatra.
Purtroppo i casi di morte in TSO non sono pochi. Volendone citare
alcuni ricordiamo E. Idehen, morto nel maggio 2007 a Bologna: l'uomo si
era sottoposto volontariamente alle cure, ma alla richiesta di andare a
casa i medici decisero per il TSO facendo intervenire la polizia alle
sue insistenze; la versione ufficiale sul decesso parla di una crisi
cardiaca avvenuta mentre infermieri e poliziotti tentavano di portare
l'uomo nel letto di contenzione. Nel giugno 2007 a Empoli segue la
morte per arresto cardiocircolatorio di Roberto Melino, un ragazzo di
24 anni: il giovane era entrato in reparto in TSV, tramutato, come nel
caso precedente, in TSO alla richiesta di andare a casa; resta da
chiarire se il decesso sia avvenuto per cause naturali o in seguito
alla somministrazione di qualche farmaco.
Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud Pisa
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