Sullo scorso numero di UN riferimmo del cedimento di una delle
colonne portanti del palazzo Politeama, al cui interno sono i locali
del gruppo Germinal di Carrara e la sede dell'omonimo archivio storico.
Un intervento di emergenza pare aver posto fine al rischio immediato di
crollo ma la situazione è ben lungi dall'essere sicura.
Gli anarchici del Germinal FAI hanno annunciato in un comunicato del 27
giugno che la loro protesta per la messa in sicurezza del palazzo va
avanti. Riportiamo di seguito il testo del comunicato.
"Nonostante l'ordinanza di cessato allarme riguardo al pericolo di
crollo nel palazzo Politeama, gli anarchici del Germinal non ritengono
che la struttura possa dichiararsi sicura.
Siamo stati presenti in piazza Matteotti fin dal pomeriggio del
lunedì e abbiamo mantenuto il nostro presidio per quattro giorni
e tre notti ininterrottamente, siamo stati gli ultimi a lasciare la
piazza e abbiamo potuto assistere direttamente a tutte le fasi
dell'emergenza.
20 anni di abusi edilizi, 20 anni di speculazioni, 20 anni di condoni non si sanano con 20 putrelle!
Nonostante tutte le nostre denunce e quelle del Comitato di difesa del
palazzo Politeama è stata necessaria una mancata strage per
riaccendere l'attenzione su un palazzo che è uno dei simboli
della città.
Non siamo disposti ad accettare di veder ancora una volta cadere
nell'oblio una ferita ancora aperta nel cuore stesso di Carrara.
Continueremo la nostra lotta, la nostra opera di pubblica denuncia e di
controinformazione, e la nostra attenzione non calerà mai
affinché tutto non venga per l'ennesima volta insabbiato.
La bandiera degli anarchici sventola e sventolerà ancora dal
salone del Germinal listata a lutto per ricordare a tutta la
cittadinanza e soprattutto a tutti i palazzinari e a tutti i politici
che non ci accontenteremo delle solite scuse di sempre.
La nostra sede che dal 1945 è sempre stata aperta alla
cittadinanza oltre che per iniziative politiche anche per iniziative
sociali e culturali, resterà chiusa al pubblico finché
non avremo la certezza della sicurezza dell'intera struttura, e le
nostre iniziative si svolgeranno in piazza.
Gruppo anarchico Germinal - FAI Carrara"
Come comunicato per mezzo di Umanità Nova (ma con
segnalazioni anche di Germinal, A-rivista anarchica, Indymedia Emilia
Romagna) si sono svolte dal 20 al 22 giugno le Giornate Anticlericali
presso la casa del popolo di Ponticelli di Malalbergo nella provincia
di Bologna.
Se dovessimo dare la partecipazione in termini "alberghieri" potremmo
parlare di oltre 1000 presenze, in realtà si sono ritrovate
circa 300 persone ogni sera (con un certo turn-over) ed una
partecipazione diurna di meno di 100 persone. Le compagne ed i compagni
presenti, pochini, venivano un po' da tutt'Italia: da Vicenza a Ragusa
e da Torino a Lecce, giusto per dare una dimensione.
Quindi una partecipazione al di sotto delle aspettative dopo che, per
alcuni anni, mancava un appuntamento di questa natura per il movimento
anticlericale a noi più vicino.
Un bilancio agro-dolce: sempre buono il livello del dibattito ma scarsa
la capacità di comunicazione sia con il territorio che con il
"movimento". Questo dovrà produrre una riflessione circa il
contenuto e le forme della propaganda anticlericale e della necessaria
lotta contro uno dei pilastri del potere costituito. La diffusione
dell'evento, soprattutto a livello locale, non è mancata:
manifesti e volantini sono stati diffusi in città e provincia; i
principali quotidiani locali hanno dato (già dal giovedì)
informazione dell'iniziativa; le radio "di movimento" avevano dato il
comunicato della festa; il Resto del Carlino (sezione locale del
Quotidiano Nazionale) ha, in modo impareggiabile, criminalizzato la
festa ma, come si suol dire, ha fatto ampia propaganda all'evento
stesso.
Fra le persone convenute c'è stato un clima festoso e conviviale
tanto che, soprattutto chi entrava in contatto per la prima volta con
questa realtà, ha avanzato la richiesta di una ripetizione
dell'iniziativa.
Per la rivista LiberAmente che ha contribuito con la sua rete
redazionale alla costruzione di questo appuntamento, si è
trattato di una importante occasione di diffusione.
redb
Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.
Con questo "proverbio" un po' sarcastico si può commentare la
"disavventura" occorsa ad una compagna di "facciamo breccia" che
è stata arrestata sul palco dove si tenevano i comizi finali
della manifestazione.
Ovviamente siamo solidali con Graziella Bertozzo e riteniamo che
ciò che lei ha subito sia l'ennesimo sopruso esercitato della
polizia ma la novità è che gli organizzatori del Pride
sono stati parte attiva nel suo arresto e che l'intervento della
polizia è stato "chiamato" dal palco.
Riprendiamo una parte del comunicato presente sul sito
http://www.facciamobreccia.org/: "Graziella Bertozzo, a differenza
delle altre e degli altri attiviste/i di Facciamo Breccia, viene
fermata all'ingresso del palco da una volontaria del Comitato Bologna
Pride e da questa additata ad un uomo in borghese che non si è
qualificato in nessun modo e che solo dopo avremmo appreso che era un
funzionario della Digos. Graziella viene spintonata a terra e quindi
cerca di rialzarsi (non sapendo che l'uomo che l'aveva fermata era un
funzionario di polizia), intervengono allora altri poliziotti in
divisa, la ammanettano e la trascinano fuori dalla piazza tenendole una
mano sul collo, abbassandole la testa verso terra, la caricano a forza
su un cellulare e la portano via a sirene spiegate"
Per altro il motivo della contesa è strettamente legato ad una
vicenda "bolognese": la gestione che è stata fatta in questi
anni dell'Arcigay e della sede storica del movimento in città
(il cassero). Graziella Bertozzo è stata atterrata dalla Digos
quando sul palco veniva steso uno striscione che (per quanto
indirettamente, riprendiamo ancora dal comunicato [il nostro
coordinamento saliva sul palco per aprire uno striscione con la
scritta: "28 giugno 1982. Indietro non si torna. Facciamo Breccia" per
rivendicare la storia del movimento lesbico, gay e trans che in quella
data aveva ottenuto il Cassero di Porta Saragozza, prima sede assegnata
da un'istituzione pubblica al movimento, poi restituita nel 2001 alla
Curia]) contestava questa politica rivendicando l'occupazione del
cassero di porta Saragozza che le logiche pattizzie messe in atto
dall'Arcigay hanno riconsegnato alla curia bolognese.
Non sarà quindi un "equivoco" (come recita il comunicato di
Facciamo Breccia) ma la conseguenza delle modalità scelte dal
movimento LGBT di condurre questa manifestazione.
Già nei giorni precedenti si erano sviluppate polemiche e prese
di posizione per il carattere assolutamente "trasversale" della
manifestazione che prevedeva la partecipazione dei gay di destra, dei
gay della polizia di stato e dei gay della chiesa cattolica. Il
movimento LGBT è sempre stato e ciò soprattutto negli
ultimi anni, un punto di riferimento non solo per la rivendicazione
della diversità ma anche per la lotta che accomuna omo ed etero
contro le discriminazioni, la superstizione, i pregiudizi e le
strutture di potere. Accogliere nel proprio seno, in nome di una
trasversalità della realtà LGBT, organizzazioni
espressamente discriminanti e animate da forti pregiudizi era un
segnale di opportunismo da una parte e di forte contraddizione e
debolezza dall'altra.
Le componenti più radicali di questo movimento hanno dato vita
ad un corteo autonomo (Due Torri – Giardini Margherita) sottolineando
il dissenso e i contenuti "traditi" (antifascismo, antirazzismo, etc.)
ma sono poi confluite nella grande kermesse.
Il fatto "stupefacente" verificatosi in piazza 8 Agosto al termine
della manifestazione che ha portato all'arresto di Graziella Bertozzo,
è la conseguenza della kermesse blindata voluta dagli
organizzatori istituzionali.
Una veloce cronaca della giornata mette in evidenza come il Pride
bolognese fosse solo la rappresentazione nazionale di un movimento che
è stato comunque capace di esprimersi in tanti Pride "locali"
nelle scorse settimane. Circa 40 mila le persone che hanno sfilato in
un corteo fortemente caratterizzato dai mega-tir-discoteche e che
vedeva qualche spunto di critica sociale e politica in ben più
ridotti striscioni o volantini. Nella città, per altro, si
segnalavano numerosi gruppi di manifestanti che "non sfilavano" e che
hanno dato vita, nella serata e nella notte, a feste "illegali" fuori
dai circuiti e dagli ambiti che vogliono "normalizzare" questo
movimento. Un po' ovunque uno dei principali bersagli della protesta
era il papa ed il vaticano che conducono la più pervicace
discriminazione nei confronti della libertà sessuale della
persone.
redb
Nel pomeriggio di domenica 29 giugno un gruppo di antirazzisti
facenti riferimento all'Assemblea Antirazzista ha occupato l'atrio del
museo egizio. All'esterno è stato appeso uno striscione con la
scritta "Gli egiziani li volete solo schiavi o morti".
La guardia giurata che sorveglia il museo ha dato in escandescenze
spintonando qualche manifestante, i responsabili del centro hanno
cercato senza successo di rimuovere lo striscione. Dopo alcune fasi
concitate hanno capito la natura simbolica del gesto e si sono
tranquillizzati.
Due settimane fa a Settimo Milanese tre operai egiziani sono caduti
dall'impalcatura del cantiere dove lavoravano: due di loro sono morti.
In provincia di Varese un altro egiziano, Said, è stato ucciso
dal padrone per il quale lavorava suo fratello, per aver chiesto tre
mesi di stipendio non pagato.
Come loro campano e muoiono tanti "senza carte". Le loro vite e le loro
morti pesano come macigni sulla coscienza di ciascuno di noi, che
viviamo in un paese dove leggi razziste relegano nel limbo
dell'irregolarità migliaia di esseri umani.
Sta a noi metterci in mezzo, fermare questa barbarie quotidiana.
Ai visitatori che entravano al Museo è stato distribuito un volantino che riportiamo sotto.
"Gentili visitatrici, gentili visitatori che state per entrare nel
Museo Egizio di Torino, ci permettiamo di interrompere il normale
flusso della fila per dirvi due parole. (…)
Molti anni sono passati ormai da quando le mummie che state per vedere
arrivarono qui dal lontano Egitto, e non è dato sapere se siano
entrate in territorio italiano in modo regolare, o clandestinamente.
Abbiamo il fondato sospetto che siano state trafugate in modo
truffaldino, assieme ai tesori di inestimabile valore che sempre qui
troverete. Ma in fondo poco importa, perché queste mummie sono
arrivate a Torino letteralmente già morte e sepolte da un pezzo.
Capita ovviamente anche al giorno d'oggi che degli stranieri approdino
sulle coste italiane, in genere più morti che vivi. E non certo
morti per una lunga e ricca vecchiaia, ma affogati durante il naufragio
della nave che doveva portarli via dalla loro miseria, come accade di
continuo ogni estate, come è accaduto solo qualche giorno fa,
con una nave che trasportava decine di disperati provenienti, tra
l'altro, proprio dall'Egitto.
Quelli che hanno la fortuna di sopravvivere al viaggio, rischiano poi
di incrociare sulla loro strada un poliziotto, e rimanere uccisi
durante un "normale controllo di polizia" o di rimanere intrappolati
nella tremenda macchina delle espulsioni, per finire in un Cpt in
attesa di deportazione. E anche lì rischiano di morire, come
è successo un mese fa a Fathi "Hassan" Nejl, morto di polmonite
nel lager di corso Brunelleschi, lasciato senza cure dai volontari
della Croce Rossa che gestiscono il centro.
Quelli che sulla loro strada hanno la fortuna di trovare un padrone
disposto ad assumerli, preferibilmente in nero, rischiano (più
degli italiani, le statistiche parlano chiaro) di morire per un
incidente sul lavoro. (…)
E quelli che hanno la fortuna di non morire di lavoro, rischiano
comunque di morire per mano del padrone in persona, o di suo figlio,
come è successo a Said, che era andato ad accompagnare suo
fratello a riscuotere due mesi di stipendio arretrato dal padrone di
una ditta in quel di Gerenzano, nel produttivo hinterland milanese.
Certo, osserverete ora voi, anche se un morto è un morto e tutti
i morti sono uguali, a differenza dei moderni clandestini, i faraoni
che state per ammirare avevano dalla loro parte il potere religioso ed
economico, e a ben guardare le loro salme ricordano più il
cadavere del penultimo papa o quello del penultimo padrone della Fiat.
Siamo d'accordo. Infatti anche questi ultimi, come i faraoni di ogni
epoca, hanno avuto il privilegio di un addio da parte di lunghe e
ordinate file di visitatori.
Ma tutti gli stranieri morti in questi anni rischiano di non avere la
stessa fortuna. L'ultimo pericolo che essi ancora corrono è
quello di essere presto dimenticati. Questo, di sicuro, dipende anche
da noi."
Mort.
Nella fu verde "Padania", nella terra sempre meno terra e sempre
più cemento in versione Expo 2015, nella terra dove ai bambini
è vietato immergere le dita nella cioccolata ma se di etnia Rom
allora le si immerge negli inchiostri indelebili delle questure, nella
terra dove le macellerie ospedaliere portano nomi di sante, in questo
immenso parco giochi degli orrori può ancora succedere che
cinque "alieni", cinque lavoratori di nome Harrison Leyanage, Dickson
Anthony Silvane, Jayaratne Noel, Wanigatunga (della cooperativa
Leonardo), Malko Dritan (coop. Meneghina), e Andrea Del Meglio (coop.
Team Logistica resources) decidano di fare un gesto inconsulto, un
gesto ai più dimenticato.
Come eroi dei fumetti, i nostri "fantastici 5", insieme con i propri
compagni di lavoro, si organizzano e si ribellano contro la propria
condizione di sfruttamento e per rivendicare i propri diritti ed
interessi.
I paladini dello sfruttamento costituito non stanno certo a guardare e sfoderano subito i soliti loro strumenti repressivi.
Ai nostri "fantastici 5" tocca la sorte di essere spostati di mansione
magari passando da carrellista a spazzino di scantinati e insalubri
tuguri tanto da guadagnarci una semi paralisi a causa dei solventi
utilizzati senza adeguata protezione, oppure di essere licenziati su
due piedi dimenticandosi che a casa diversi figli li aspettano per cena…
Per i padroni, anche se i sindacati di Stato loro complici preferiscono
chiamarli "datori di lavoro", è intollerabile, è
inammissibile che dei lavoratori dagli strani nomi e cognomi, dalla non
identificata provenienza, si mettano alla testa di un picchetto, di un
volantinaggio, di uno sciopero proprio in casa "loro"…
E se poi i pochi operai padani prendessero coscienza della loro condizione comune?
E se poi si unissero insieme per porre un termine all'ingente somma di
profitti che le aziende consorziate alla DHL, ben 21 con oltre 4500
dipendenti, si spartiscono senza minimamente pensare ad una
ridistribuzione a chi quella "ricchezza" l'ha prodotta con il proprio
sudore e la propria salute?
Ed è proprio quello che è successo alla DHL di Corte Olona. Sciopero!
Fin dalle prime ore dell'alba, con diversi lavoratori, si formano i primi picchetti ai cancelli d'ingresso della DHL.
L'area che ospita questa azienda, tipico scenario da far west in salsa
padana, è caratterizzata dal continuo andirivieni di camion
inquinanti, da edifici squallidi e anonimi, da fabbriche e fabbrichette
luoghi di super produzione e sfruttamento e dove l'immigrazione diventa
forza lavoro a basso costo e ad alto tasso di ricattibilità.
Ma oggi lo scenario è ben diverso!
Oggi si sciopera per l'immediato ritiro del licenziamento – arbitrario,
illegittimo e vendicativo – nei confronti dell'operaio e delegato
sindacale "Slai Cobas" Malko Dritan in forza alla cooperativa
Meneghina, e per il ritiro della lettera di contestazione disciplinare
contestata al delegato sindacale Andrea Del Meglio assunto nella
cooperativa Team Logistica Resources.
Ma lo sciopero trascende la sola rivendicazione di porre termine a
questa ingiustizia, a questa vendetta padronale nei confronti dei
lavoratori che lottano per i propri diritti e quindi lo sciopero si
attua anche per sostanziali aumenti retributivi, per il diritto al
servizio mensa sul posto di lavoro e soprattutto per sancire una vera
libertà e democrazia sindacale messa a disposizione di tutti i
lavoratori nel diritto di libera scelta sulla rappresentanza sindacale.
Lo sciopero è perfettamente riuscito non solo per la
determinazione dei lavoratori e lavoratrici interessati ma anche per la
reale solidarietà di lotta e di classe dimostrata da chi e
accorso in sostegno da Milano (da sottolineare la folta presenza dei
compagni e compagne del Coordinamento Antirazzista di Milano a cui noi
come F.A.M. partecipiamo attivamente), da Varese e da altre
realtà lavorative del sud Lombardia.
Vista la partecipazione e la determinazione dimostratasi nel blocco dei
cancelli pressoché totale e dall'insignificante risultato
ottenuto dall'allegra brigata costituita da delegati "pompieri" dei
sindacati di Stato cgil - cisl e uil, Digos e personaggi simili, la
direzione DHL accettava un incontro con la delegazione dei lavoratori
in sciopero.
Incontro che serviva a stabilire un calendario di lavoro sulle
questioni poste in essere ma soprattutto a condizione preliminare del
ritiro immediato dei provvedimenti disciplinari e di licenziamento
comminati ai due lavoratori e delegati sindacali.
A termine della giornata di sciopero e di lotta le considerazioni e le
analisi sono molteplici e diverse ma sicuramente il primo elemento che
emerge nella condivisione della giornata è che le lotte sociali,
e soprattutto quelle più prettamente sindacali che si
esplicitano sul posto di lavoro, necessitano di più unità
possibile.
Una unità che, nel nome unificante della lotta di classe, su
obbiettivi chiari e condivisi dalla stragrande maggioranza delle
persone coinvolte nella lotta stessa, possa anche trascendere le
singole organizzazioni sindacali di base e di classe.
A scuole chiuse oggi, da Corte Olona, in questa bella giornata d'inizio estate, ci giunge una grande lezione.
Paolo Masala
Said era un lavoratore egiziano: aveva accompagnato giorni fa il
fratello dal suo datore di lavoro per richiedere la paga che non gli
era stata data. Il padrone lo ha ucciso. Su questo fatto è sceso
il silenzio: qualche minuscolo trafiletto in una pagina interna.
Ma molti non vogliono dimenticare e soprattutto non vogliono accettare come "incidente" un fatto di questa gravità.
Perciò sabato 28 a Saronno, il paese vicino a quello in cui lavorava Said, si è snodato un combattivo corteo.
Circa 1000 persone sono scese in piazza: la comunità egiziana, i
sindacati di base, il coordinamento antirazzista, le compagne ed i
compagni antirazzisti.
Notevole la presenza di immigrati con striscioni, volantini, cartelli anche in lingua araba.
Il corteo si è snodato per circa tre ore per le strade di
Saronno, con numerosissime soste nei punti più frequentati della
città.
Un corteo niente affatto silenzioso, che voleva farsi vedere, che
voleva risposte, che richiedeva diritti e che era determinato ad
ottenerli con la lotta.
La domanda ossessiva ripetuta durante la manifestazione era: perché hanno sparato?
Ma la domanda rimaneva senza risposta perché era chiaro a tutti
che la colpa di Said non era solo non essere italiano, ma soprattutto
non essere sottomesso ma deciso a mettersi contro il padrone per
rivendicare i propri diritti.
La manifestazione è terminata con molti interventi dei
lavoratori egiziani. Non è terminata invece la mobilitazione
perché tutti i presenti avevano ben chiaro che la manifestazione
era solo il punto di partenza di un percorso che vuole abbattere lo
sfruttamento e il razzismo. Perché la morte di Said non è
stato uno sfortunato incidente, ma la logica conseguenza di un mondo
basato sull'ingiustizia e sulla divisione in classi. Perciò non
vogliamo che dopo Said tocchi a qualcun altro.
È interessante inoltre notare che alcune compagni/compagne di
Saronno e Tradate vicini al coordinamento antirazzista sono stati
attivi nella promozione e nella partecipazione alla manifestazione, ma
hanno fatto la scelta di non utilizzare striscioni che si riferissero
al proprio gruppo politico. Questo modo di operare sta diventando una
pratica comune all'interno del coordinamento antirazzista che rifiuta
la pratica dell'auto-rappresentanza perché ritiene che la
pratica dell'autogestione delle lotte debba essere prioritaria.
Non poteva mancare la perla finale: il quotidiano comunista Il
Manifesto, nel dare informazione domenica dava notizia che la GGIL
aveva organizzato la manifestazione. La CGIL non ha avuto alcun ruolo
se non quello di avere inutilmente tentato di ostacolare la riuscita
del corteo e di essere rimasta per un'oretta a "presidiare" la piazza
con una dozzina di persone. Dulcis in fundo sono riusciti a eliminare
la comunità egiziana, vera protagonista della giornata di lotta.
Anto D'Errico - Commissione Antirazzista FAI
Per tanti, per troppi, il futuro annega ogni giorno nella
povertà che pare più dura quando il miraggio dell'Italia
delle cartoline dei migranti si frantuma nella quotidianità
dello sfruttamento. Così capita che in una domenica di luglio
alcune famiglie rumene, baraccate lungo la Stura tra topi, mondezza e
fango decidano di prendere l'iniziativa e di strappare con le proprie
mani un po' di spazio. Il 6 luglio, in via Pisa 5, è stata
occupata una casa. Siamo nel popoloso quartiere Aurora, dove le tracce
di quella che è stata una periferia di fabbriche poco a poco
scompaiono: restano ancora alcuni scheletri abbandonati all'incuria da
anni. Tra i grandi capannoni dell'ex Enel, c'è anche una casa,
che è tornata a vivere.
Ci sono bambini ed anziani. Il più piccolo ha 1 anno il
più vecchio 81. Stanno pulendo e sistemando le stanze per
viverci. Al primo piano, su un balcone, hanno appeso uno striscione con
la scritta "Una casa per tutti". Alle porte delle case vicine hanno
appeso una lettera nella quale raccontano la loro storia.
"Ci siamo stancati di questa miseria. Siamo un piccolo gruppo di
famiglie rumene, famiglie di lavoratori, con tanti bambini che vanno a
scuola.
Fino a ieri abbiamo vissuto in condizioni durissime. Abitavamo nelle
baracche di via Germagnano: un campo sovraffollato e sporco, senza
acqua né elettricità, con i bambini sempre in pericolo in
mezzo ai topi e ai serpenti.
Quando c'è stata l'alluvione, solo un mese fa, al campo l'acqua
era dappertutto e sono dovuti arrivare i Vigili del Fuoco per
toglierla. Ma tolta l'acqua è rimasto il fango dentro alle
nostre case e tanti dei nostri figli si sono ammalati.
Ora ci siamo stancati di questa miseria. Da ora in poi vogliamo vivere
una vita normale, come tutti voi. È per questo che abbiamo
occupato questa casa: sappiamo che è illegale, ma sappiamo anche
che è una cosa giusta.
Questa casa è stata abbandonata e vuota per tanto tempo, ma noi
la faremo rivivere e la trasformeremo in un posto bello per viverci,
per noi e per i nostri bambini."
Euf.