In fondo sarebbe bastata una semplice battaglia, una battaglia sola ma sul serio.
(Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari)
Sono ormai cinque anni che, da più parti, viene annunciata come imminente una guerra contro l'Iran.
Stranamente, a tale coro concorrono, seppure a diverso titolo,
giornalisti arruolati e freelance, funzionari di stato e militanti
antimperialisti, esperti di cose militari e settori pacifisti.
Durante l'ultimo anno, la minaccia di un conflitto si è fatta
più insistente, anche se Bush è ormai prossimo al termine
del suo mandato presidenziale e la crisi militare in Afganistan si fa
per gli Stati Uniti ogni giorno più grave e onerosa.
Nel settembre 2007, secondo alcune rivelazioni del New York Times,
all'interno dell'amministrazione di Washington aveva ormai prevalso la
linea sostenuta dal vicepresidente Cheney, favorevole ad una serie di
bombardamenti contro le strutture nucleari e le caserme delle Guardie
della rivoluzione, da attuarsi con forze aeree statunitensi o
israeliane.
Nel febbraio 2006 l'opzione bellica era infatti sembrata perdere
credito, dopo che lo stesso capo dell'intelligence Usa, il famigerato
John Negroponte, aveva smentito l'allarmismo di Bush affermando che
"l'Iran non dispone ancora di armi nucleari, né ha acquisito e
prodotto materiale fissile sufficiente a produrne".
Ancora in questi ultimi mesi, la tensione è apparsa risalire tra
proclami, esercitazioni, accuse e esagerazioni, grossolane quanto
speculari, ad opera di entrambe le parti, riguardo la costruzione di
centrali atomiche e le potenzialità balistiche dei missili
iraniani; armi a tutti gli effetti vetuste che, secondo il Pentagono,
potrebbero colpire persino l'Europa orientale e meridionale.
Nel corso degli anni, le motivazioni di un attacco militare all'Iran
sono state molteplici: il regime di Teheran è stato di volta in
volta accusato di sviluppare un arsenale nucleare, di violare i diritti
umani, di opprimere le donne, di applicare sistematicamente la pena di
morte, di sostenere il terrorismo internazionale, di armare numerosi
movimenti di guerriglia, di fomentare il fondamentalismo islamico e di
perseguire la distruzione d'Israele.
Accuse certo non infondate, ma che potrebbero essere rivolte ad innumerevoli altri stati, anche formalmente democratici.
I teo-cons statunitensi, facendo proprie alcune discutibili
argomentazioni liberal, hanno appoggiato tale minaccia bellica con
un'intensa opera di propaganda indirizzata sia all'opinione pubblica
interna che occidentale, sostenendo che le democrazie devono
sconfiggere il nazismo-islamico iraniano prima che sia troppo tardi.
Per enfatizzare tale interventismo, sfruttando l'antisemitismo della
propaganda del regime di Ahmadinejad, è stato persino evocato il
fantasma di Hitler; ma, nonostante i proclami bellicisti di Bush e dei
suoi, a tutt'oggi, la guerra permanente iniziata nel 2001 non solo non
ha colpito il famigerato "stato canaglia" iraniano, ma anzi ha trovato
in questo un utile alleato.
Basti ricordare l'apporto iraniano (con l'apporto dei servizi segreti
militari italiani) nel confezionare falsi dossier e documenti sulle
inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam. Inoltre, le brigate
Badr, create e addestrate dall'Iran, sono rientrate in Iraq al seguito
delle truppe anglo-americane, sterminando sia i resistenti che le
più diverse categorie invise all'integralismo sciita.
Tutt'ora, il governo iracheno vede l'appoggio e la partecipazione dei
partiti filo-iraniani, tanto che la legge coranica è parte
integrante della nuova Costituzione. Neanche riguardo l'Afganistan, il
ruolo del regime iraniano si è dimostrato "antiamericano", dato
che nell'area occidentale del paese ha appoggiato e armato la minoranza
etnica hazara, sciita, storicamente opposta ai talebani che, da un
punto vista religioso, sono sunniti.
Evidentemente, esistono rilevanti ragioni economiche e considerazioni
militari che hanno sino ad oggi bloccato l'opzione della guerra
peraltro militarmente pianificata dai comandi Usa, con i dovuti
aggiornamenti, sino dal 1979, ai tempi della crisi dei diplomatici
statunitensi presi in ostaggio a Teheran.
Dal punto di vista economico, la Repubblica Islamica iraniana è
il quarto produttore mondiale di petrolio, dopo Arabia Saudita, Stati
Uniti e Russia. Enormi i profitti legati a tale ricchezza; Cina,
Giappone, India, Corea del Sud e Italia sono tra i più
importanti acquirenti e quindi dipendenti dal petrolio iraniano.
Interessante, tra l'altro, sottolineare che la Costituzione iraniana vieta di vendere la proprietà dei giacimenti.
L'Iran, in aggiunta, è un rilevantissimo fornitore di gas verso
l'Europa e, un anno fa, è stato stipulato un accordo tra Iran e
Turchia per la fornitura di 30 miliardi di metri cubi all'anno ad
Ankara che, attraverso una vasta rete di pipeline, li rivenderà
all'Unione Europea.
Teheran controlla pure la costa settentrionale dello stretto di Hormuz
e la chiusura di questa via d'acqua al traffico delle petroliere
potrebbe far innalzare ulteriormente il prezzo del petrolio.
Conseguenze analoghe sono previste se l'Iran colpisse, per ritorsione,
gli impianti petroliferi di altri paesi dell'area.
Basterebbero queste poche informazioni per comprendere la
problematicità di un attacco all'Iran, peraltro evidenziata in
queste settimane: le voci diffuse ad arte attorno ad un possibile
scenario di guerra hanno causato un nuovo aumento del prezzo del
petrolio.
La svalutazione, per quanto considerevole, del dollaro non è
infatti in grado di motivare da sola l'attuale prezzo del petrolio,
ormai attorno ai duecento dollari al barile, mentre la minaccia di una
destabilizzazione dell'intera area dei grandi giacimenti petroliferi
sta di fatto spingendo molti acquirenti a garantirsi scorte e riserve.
"Alimentare i timori di un bombardamento sull'Iran costituisce
perciò un affare di cui partecipano gli Usa - che ora dispongono
a piacimento dei giacimenti iracheni -, la Russia, praticamente tutte
le multinazionali del petrolio, e lo stesso Iran".
Dal punto di vista militare invece invadere il territorio iraniano,
così come avvenuto per l'Afganistan e l'Iraq, porrebbe comunque
problemi ben più gravi di quelli ancora, a distanza di anni,
irrisolti su questi due fronti.
Non casualmente, lo scorso 29 giugno, un alto generale iraniano ha
platealmente ordinato di scavare 320 mila fosse in tutte le province
del paese, destinate a seppellire gli eventuali caduti nemici nel caso
l'Iran venisse attaccato dalle truppe statunitensi: una mossa
rozzamente propagandistica, ma non del tutto infondata visto che nessun
generale Usa ha mai ritenuto pensabile un attacco di terra.
L'Iran potrebbe apparire accerchiato, a est dalla presenza militare
Usa-Nato in Afganistan e a Ovest dalle forze militari anglo-americane
dislocate in Iraq; ma in realtà questo aspetto geografico offre
all'esercito di Teheran la possibilità di colpire agevolmente le
basi Usa nei due paesi confinanti e di rafforzare le rispettive
guerriglie, armando in primo luogo le milizie e le tribù sciite
ivi esistenti, maggioritarie in Iraq e minoritarie in Afganistan.
Tanto più che le recenti visite a Teheran del primo ministro
iracheno, Al Maliki, e del vicepresidente Al Mahdi, avrebbero
conseguito intese importanti per il regime iraniano, tra cui
rassicurazioni sul fatto che il governo iracheno si opporrebbe
all'utilizzo del proprio territorio come base per gli attacchi Usa
contro l'Iran.
D'altra parte, anche l'ipotesi di uno strike aereo mirato contro le
centrali nucleari in costruzione e le basi missilistiche, magari
attuato dall'aviazione israeliana con l'appoggio tecnico statunitense,
comporta molti, troppi, rischi.
Qualsiasi tipo di attacco produrrebbe ingenti perdite di militari e
civili, anche senza immaginare conseguenze radioattive, dato che
dovrebbe colpire anche una lunga serie di obiettivi collaterali: centri
radar, basi aeree, difese antiaeree, depositi, rampe mobili, porti
militari, unità navali, reparti terrestri mobili e corazzati,
centri di comunicazione. E gran parte di queste strutture si trovano
dislocate presso i maggiori centri abitati. Una simile azione multipla
non può infatti essere esclusa, sia per proteggere gli
attaccanti, sia per prevenire e neutralizzare le prevedibili ritorsioni
da parte delle forze armate iraniane contro le installazioni e i
trasporti petroliferi nel Golfo Persico e in quello di Oman,
nonché contro le basi militari Usa in Asia Centrale e nel medio
Oriente.
Tra l'altro, se è vero che appaltare l'attacco aereo al
militarismo israeliano potrebbe apparire un allettante escamotage per
gli Stati Uniti, questa soluzione risulta ancor più pericolosa,
sia perché di fronte ad un'aggressione sionista anche i paesi
arabi più ostili a Teheran sarebbero costretti a schierarsi, sia
perché delegare una guerra allo stato d'Israele significherebbe
comunque non avere più il controllo della stessa.
Per questi motivi, in un simile contesto e salvo variabili (tra cui,
oltre ad un precipitare della situazione economica internazionale,
quella più paventata rimane un'iniziativa unilaterale
israeliana), l'amministrazione Bush aldilà delle dichiarazioni
ufficiali non appare al momento intenzionata a compiere passi che
aggraverebbero ancor di più la critica situazione nell'area, in
cui già adesso le forze Usa appaiono più prigioniere che
occupanti.
La notizia, riportata sul quotidiano inglese The Guardian il 17 luglio,
secondo cui gli Stati Uniti in agosto annunceranno l'intenzione
d'inviare, dopo trent'anni, loro diplomatici a Teheran per aprire una
Sezione di interessi in Iran, sembra confermare questa analisi.
Inoltre, in alternativa alla guerra convenzionale, c'è la
recente richiesta al Congresso avanzata da Bush per ottenere 400
milioni di dollari per finanziare ulteriori operazioni segrete in Iran,
sia di destabilizzazione interna che di appoggio ai diversi
raggruppamenti politici e minoranze etnico-religiose che combattono il
regime di Teheran.
Un copione sperimentato e replicato innumerevoli volte.
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