grado per le torture di Bolzaneto e dopo qualche giorno le richieste del PM per il massacro alla scuola Diaz.
Il processo per i fatti di Bolzaneto si era aperto nel 2005 ed ha visto
sul banco degli imputati agenti e dirigenti della polizia di stato e
penitenziaria, carabinieri e personale sanitario accusati di abuso
d'ufficio, violenza privata, falso ideologico e abuso di
autorità. Durante le oltre 150 udienze ci sono state da una
parte le solite testimonianze degli agenti e dei loro superiori che non
ricordavano, non avevano visto o che non c'erano proprio e dall'altra
quelle delle vittime che descrivevano le vergognose violenze subite in
un clima apertamente fascista e razzista.
Dopo tre anni di processo sono arrivate le richieste di condanne
complessive a poco più di 76 anni ed una assoluzione: da un
minimo di 6 mesi ad un massimo di 5 anni, 8 mesi e 5 giorni, condanna
chiesta per l'ispettore della polizia penitenziaria responsabile della
sicurezza a Bolzaneto. Lunedì 14 luglio, dopo 10 ore di camera
di consiglio, i giudici hanno emesso la sentenza condannando 15
imputati e assolvendone 30, diminuendo per tutti le pene chieste dai
Pubblici Ministeri, alcuni dei condannati sono anche stati interdetti
(temporaneamente) dai pubblici uffici. Questa prima sentenza
sarà anche l'ultima in quanto, oltre all'indulto, a gennaio 2009
tutti i reati cadranno in prescrizione. Unica consolazione (se si
può usare questo termine) è il fatto che è stato
riconosciuto un risarcimento preliminare ad alcune delle vittime che
dovrebbe essere pagato, a meno di altri intralci, dal Ministero
dell'Interno e da quello della Giustizia, condannati anche al pagamento
delle spese processuali.
Le valutazioni date su questa sentenza si sono, ovviamente, sprecate.
Da destra è stato affermato che la decisione dei giudici ha
smontato un teorema, come se la tortura anche di una sola persona (e
non è questo il caso) fosse meno grave di quella di centinaia.
In pratica è stata riproposta la vecchia e scontata favoletta
delle "mele marce" o dei "casi isolati", espressioni normalmente
utilizzate dai fanatici del manganello quando, non potendo negare una
eclatante evidenza, cercano ignobilmente di minimizzarla. Da parte
della "sinistra" ci sono state invece i soliti lamenti sul fatto che
nel Codice Penale non sia previsto il reato di tortura o la trita
riproposizione della necessità di una (inutile) Commissione di
inchiesta parlamentare.
Qualcuno è arrivato persino ad analizzare il significato del
termine "tortura", giungendo alla conclusione che non era comunque
possibile applicarlo a quanto subito da coloro che sono transitati per
Bolzaneto.
Giovedì 16 luglio è stata la volta del processo per
l'assalto alla scuola Diaz. In questo caso gli imputati erano
soprattutto funzionari della polizia, accusati di falso ideologico,
calunnia e arresto illegale. Il Pubblico Ministero ha chiesto di
condannarne 28 e di assolverne 1 con pene che variano da pochi mesi a 5
anni, per un totale di 109 anni di carcere. Chiesta anche
l'interdizione temporanea dai pubblici uffici e contestualmente le
attenuanti generiche in quanto, secondo l'accusa, gli accusati hanno
agito in quel modo perché erano convinti di svolgere il proprio
dovere. Tra gli altri è stata chiesta la condanna anche per due
funzionari che nel frattempo hanno fatto una bella carriera: oggi uno
dirige l'Anticrimine e l'altro è un capo dei Servizi Segreti. La
pena più alta è stata chiesta per il vicequestore che
portò nella scuola le famigerate molotov, che poi qualcuno finse
di trovare in quei locali e qualcun altro fece sparire durante il
processo.
Anche in questo caso, come per il processo su Bolzaneto, sono sfilati
una serie di smemorati e lo stesso PM ha dovuto ammettere la
difficoltà incontrata a portare avanti un processo contro dei
poliziotti. Per dirne solo qualcuna, nessuno degli accusati ha avuto il
coraggio di riconoscere come propria una delle tante firme apposte ai
verbali stilati in quella occasione e non si conosceranno mai tutti i
nomi degli agenti che hanno proceduto all'irruzione, che hanno spedito
all'ospedale decine di persone, che hanno distrutto un edificio, che
hanno raccolto le "prove", orgogliosamente mostrate il giorno dopo su
un tavolo a tutti i media per tentare di giustificare
l'ingiustificabile.
Quella della Diaz fu definita nel 2001 operazione in "stile cileno" e,
più recentemente, "macelleria messicana" (i razzisti si fanno
scoprire subito...) mentre, in realtà si trattò di una
tipica sceneggiata italiana. Tutto sarebbe partito da una sassaiola
invisibile, proseguito con il ferimento di un giubbotto causato da un
fantasma, e con la partecipazione straordinaria di due molotov che
appaiono e scompaiono a seconda dei bisogni. Nel mezzo il massacro di
un centinaio di persone che dormivano pacificamente e che poi, in
parte, furono costrette anche a subire gli oltraggi di Bolzaneto.
Ancora una volta, i media hanno riportato le dichiarazioni dei fascisti
e dei loro sostenitori che si affannano a precisare che si tratta di un
teorema, che queste sono ricostruzioni di parte, che la
responsabilità è individuale e che (al massimo) si tratta
dei soliti casi isolati, tanto isolati da essere la fotocopia di quelli
accaduti a Bolzaneto e, per tre giorni, nelle strade e nelle piazze di
Genova. La sentenza per il processo Diaz è attesa entro la fine
di questo anno ma già è noto che - anche in questo caso -
indulto e prescrizione cancelleranno tutto.
Lasciando da parte queste miserie, resta il fatto che le vicende alla
base dei processi di Bolzaneto e della Diaz sono indissolubilmente
collegate al comportamento tenuto dalle forze della repressione durante
le proteste contro il G8 avvenute nel luglio 2001 a Genova. E non solo
perché molti tra i fermati durante gli scontri di piazza e dopo
l'irruzione nella scuola Diaz finirono proprio a Bolzaneto, ma anche
perché in quei luoghi proseguirono le violenze contro chiunque
capitasse tra le mani dei servitori dello stato. In altre parole, in
quei giorni a Genova le persone furono picchiate dovunque e comunque:
durante gli scontri di piazza, dopo l'arresto e persino mentre
dormivano.
E nonostante questo oggi c'è ancora chi ha il coraggio di
sostenere che questi comportamenti si possono definire come una
devianza che va attribuita ai singoli individui piuttosto che alle
forze dell'ordine nel loro complesso. Giocando sul fatto,
indiscutibile, che la responsabilità è personale ma
sorvolando intenzionalmente sul fatto - altrettanto indiscutibile - che
in quel contesto i comportamenti violenti contro i manifestanti sono
stata la regola piuttosto che l'eccezione.
Ricordare quello che è stato Genova è comunque un
esercizio necessario alla memoria collettiva ma che, in assenza di un
movimento che assuma quegli avvenimenti come parte della propria
storia, potrebbe lasciare il tempo che trova. Contemporaneamente
andrebbero ricordati tutti coloro che al tempo minimizzarono le
dichiarazioni fatte dalle vittime della violenza statale: ministri e
parlamentari vari tutti intenti a mettere sullo stesso piano le
violenze contro persone che non potevano difendersi, culminate con
l'omicidio di Carlo Giuliani, con le vetrine rotte o le auto in fiamme.
La giustizia ha dimostrato, con le sue sentenze, che le due cose non
stanno sullo stesso piano e che, contrariamente a quanto affermato dal
PM del processo Diaz, viene considerato maggiormente colpevole chi ha
lanciato un sasso di chi ha picchiato una persona indifesa.
Ma la giustizia dei tribunali ci interessa solo fino ad un certo punto
e quanto accaduto a Genova non aveva bisogno di una conferma diversa
dalle testimonianze dirette delle centinaia di persone offese e
violentate durante quei giorni. Nessuna sentenza poteva dargli torto e
nessuna sentenza potrà dargli ragione.
Pepsy