Per avere un paese di merda non bastano leggi ingiuste. Ci vuole
anche che quelle leggi le interpreti e le applichi cercando di estrarre
tutte le loro peggiori potenzialità. Insomma, serve la gente
adatta: non si fanno lager senza kapò.
Il signor Donato Antonio Grippa, responsabile della Direzione Provinciale del Lavoro di Torino, è indubbiamente adatto.
Il nostro paese è pieno di lavoro nero: gente che lavora senza
contributi, senza contratto, senza diritti, per una paga da fame e,
talvolta, cade da un'impalcatura e crepa. In buona parte si tratta di
immigrati, spesso clandestini, ovvero sprovvisti di permesso di
soggiorno.
A volte i padroni non pagano nemmeno quella miseria e allora capita che
un lavoratore in nero, magari immigrato e senza permesso, si presenti
alla DPL per denunciare il padrone e chiedere i soldi cui ha diritto.
Il signor Grippa ha stabilito che, d'ora in poi, la DPL di Torino non
accetterà denuncie da lavoratori senza permesso di soggiorno:
che li sfruttino pure.
Cosa può aver pensato? Più o meno questo: "questi fanno
denuncia perché li sfruttano e non li pagano. Però non
hanno permesso. E allora, che cazzo vogliono? Se non hai permesso,
lavori gratis".
Se quello che voleva era impedire che i padroni che sfruttano il lavoro
nero potessero essere disturbati da fastidiose questioni legali, ha
trovato un'ottima soluzione. Il tutto l'ha giustificato così:
essendo il funzionario della DPL un pubblico ufficiale, non potrebbe
accettare una denuncia da chi, essendo clandestino, si trova in una
situazione di illegalità.
Come interpretazione della legge, è piuttosto fantasiosa e,
fortunatamente, sembra essere venuta in mente al solo Grippa: non
risulta che le altre DPL del Piemonte l'abbiano adottata.
Come detto sopra, per fare un paese di merda serve la collaborazione di
tanti piccoli Grippa, che non possono giustificarsi dicendo "è
la legge"; ogni giorno ci mettono del loro, oltre la legge, per fare
sì che in questo paese le cose per i lavoratori vadano ancora
peggio di come già vanno.
Un consiglio; se siete senza permesso, lavorate in nero e il padrone
non vi paga, i vostri soldi andateli a chiedere al signor Donato
Antonio Grippa. Se un vostro amico, clandestino che lavora al nero
perché tutti i Grippa di questo mondo gli hanno fatto capire che
lui diritti non ne ha, ci lascia la pelle, andate a chiedere al signor
Grippa come mai è successo. Lui è responsabile al pari di
chi il lavoro nero e clandestino lo sfrutta: anche lui ci ha messo del
suo. Lo trovate alla DPL, tranquillo nel suo ufficio: lui non lavora in
nero e, a lui, lo pagano.
Matti Altonen
Il mercato all'aperto di piazza Ponterosso è uno dei mercati
popolari storici di Trieste. Negli ultimi anni però il numero
delle bancarelle gestite dai "locali" è andato progressivamente
diminuendo mentre da metà anni '90 è progressivamente
aumentata la presenza di venditori senegalesi di borse e cinture. Negli
anni questa coabitazione non mostrato nessun problema, anzi, ha
permesso che il mercato di Ponterosso, per quanto in piccolo,
continuasse ad esistere. Il comune di centro-destra all'interno della
"riqualificazione" delle piazze e dei mercati decide - guarda caso -
che quella piazza è destinata unicamente a venditori di merci
tipiche locali (frutta, verdura e fiori). Gli altri - sempre guarda
caso unicamente la dozzina di senegalesi - o cambiano genere di
commercio o possono andarsene al mercato coperto. I senegalesi non ci
stanno: molti di loro sono oltre dieci anni che stanno in quella piazza
e gli pare assurdo cambiare genere di merce venduta. Inoltre la
destinazione al mercato coperto è ritenuta fortemente
penalizzante in quanto poco frequentato dai triestini e per nulla dai
turisti, principali loro acquirenti. Così il primo luglio
all'inaugurazione del "nuovo" mercato (desolatamente vuoto) oltre ai
giornalisti e all'assessore competente ci sono anche loro assieme a
vari solidali e alcuni consiglieri comunali dell'opposizione. Ne nasce
un'accesa discussione in cui l'assessore Rovis in un crescendo di
arroganza dice che l'ordinanza non vuole colpire i senegalesi e che
anzi hanno a disposizione molte alternative. I media locali danno ampio
spazio alla vicenda e così si crea un vero caso a livello
cittadino. Da segnalare la posizione del segretario cittadino del PD
Omero che difende a spada tratta il comune di centro-destra dalle
accuse di razzismo e ne supporta l'azione.
Gli sfrattati a quel punto decidono di iniziare una raccolta firme ed
in poco più di una settimana ne vengono raccolte oltre 4000!
L'iniziativa è un vero successo e la solidarietà è
talmente ampia e inaspettata da lasciare a bocca aperta tutti.
Come gruppo anarchico Germinal (assieme alle due associazioni con cui
avevamo organizzato l'iniziativa) abbiamo invitato i senegalesi a fare
il banchetto e a parlare prima dell'incontro in piazza con il compagno
messicano Matìas.
Lunedì 14 sempre in Ponterosso si è tenuta un'affollata
conferenza stampa per presentare il successo della raccolta firme e
chiedere risposte concrete al Comune che al momento non sono arrivate.
In questi tempi in cui il razzismo sembra diffondersi inarrestabile,
questa piccola lotta e la grande solidarietà attorno ad essa
sono sicuramente dei segnali positivi.
Un compagno
Il Ministro Maroni va avanti con il "censimento" etnico dei rom,
compresi i bambini. In nome della loro "sicurezza" e "tutela". A
Torino, come ogni dove nell'Italia di questi anni, i rom, grandi e
piccoli, vivono in baracche e roulotte precarie, senza acqua, senza
elettricità, alla mercè di topi e serpenti. L'unica
"sicurezza" possibile, quella che viene dalla liberazione dalla
povertà, è loro negata. Anzi. Si moltiplicano gli
sgomberi, i roghi, le aggressioni razziste anche a danno dei bambini.
Il fuoco dell'odio, alimentato dal riemergere di pregiudizi secolari,
viene attizzato ogni giorno da destri i sinistri. La Lega, come sempre,
è in prima linea. Il Ministro dell'Interno, per non sembrare
troppo razzista, ha esteso a tutti, a partire dal 2010, il prelievo
delle impronte. Un buon due per uno: censimento etnico subito,
estensione del controllo sociale per tutti tra un po'.
Nel pomeriggio dell'11 luglio un folto gruppo di antirazzisti si
è dato appuntamento in largo Saluzzo, dove ormai da anni la Lega
ha aperto un ufficio "Affari sociali". Uno striscione è stato
aperto di fronte alla sede leghista presidiata da un imponente
schieramento di polizia e digos. Lo striscione rivolgeva un invito del
tutto esplicito: "Dai un dito a Maroni". Il dito era graficamente
rappresentato dal classico dito medio levato.
Le forze del disordine statale hanno gradito poco quest'invito rivolto
al Ministro di polizia: il capo della Digos, Petronzi, ha dato un
ultimatum: togliere lo striscione prima che se ne occupassero
direttamente gli agenti. Dalle parole ai fatti: i poliziotti hanno
sequestrato lo striscione. Poco male: il dito si è subito
moltiplicato in decine e decine di dita levate verso la sede della Lega
e la polizia.
Successivamente migliaia di fogliettini rappresentanti una bimba che
"per maggior sicurezza" offriva il suo medio a Maroni venivano
distribuiti ai passanti. Dopo il presidio c'è stata l'assemblea
di piazza introdotta da Simone Bisacca, che, da avvocato, ha raccontato
il meccanismo perverso con il quale sono state prese le misure di
schedatura dei rom. Applicando norme fasciste ancora in vigore,
estendendone l'applicazione ben oltre la lettera della legge, è
stato possibile far partire un meccanismo di controllo basato sul
principio che un intero gruppo di persone, come gruppo e non come
singoli individui, è pericoloso. L'assemblea è proseguita
con l'intervento di due compagni milanesi che hanno raccontato la
situazione nel capoluogo lombardo: dalla difesa dei rom, ai picchetti
di solidarietà con lavoratori immigrati in sciopero, alla
recente rivolta al CPT di via Corelli.
Altri interventi hanno sottolineato che, come l'ossimoro della guerra
umanitaria sia ormai entrato nel lessico comune, così le
organizzazioni umanitarie che gestiscono cpt e schedature etniche non
sono altro che la moltiplicazione all'infinito di un paradigma ormai
consolidato, quello della repressione che si chiama sicurezza
così come la guerra si chiama pace.
Qualcuno ha rilevato la necessità di saper affrontare
l'emergenza, quella vera, quella che nasce quando un gruppo sociale
viene definito come fonte di emergenza. Da un lato l'urgenza di
mettersi in mezzo, di impedire le schedature, di denunciare pestaggi e
soprusi al cpt, dall'altro la necessità di andare oltre
l'indignazione e la rivolta morale per costruire un più ampio
fronte che sappia passare dalla resistenza all'attacco.
Un compagno ha illustrato il percorso dell'Assemblea antirazzista, che
da qualche tempo sta promovendo iniziative sul territorio torinese e
nel cui ambito è stata organizzata la giornata contro le
impronte ai bambini rom dell'11 luglio.
La serata si è conclusa con la proiezione di due documentari del
DVD "A forza di essere vento – Lo sterminio nazista degli
zingari", che raccolgono le testimonianze dei sopravvissuti al
"porrajmos", in lingua romanes l'olocausto dei rom e dei sinti.
Euf.
Ventisette su trentacinque lavoratori della Casa di riposo regina
Elena di Carrara hanno restituito la tessera sindacale, soprattutto
alla Cgil, e creato un Comitato di partecipazione diretta. Lamentano
poco ascolto dalle tre Confederazioni e il rifiuto di aprire le
Rappresentanze sindacali unitarie a lavoratori non eletti, ma
partecipanti, come uditori, agli incontri con la direzione.
Il Comitato critica in particolare la Cgil che ha denunciato l'annuale
vuoto di potere politico ai vertici della Casa di riposo e la ricaduta
di tale vuoto sulla qualità del servizio erogato. In risposta,
il Comitato rivendica la qualità del servizio nonostante i
pesanti carichi di lavoro, la delicata situazione dei degenti, una
riduzione delle ore di lavoro introdotta, temporaneamente, nel
settembre 2006, per ragioni di bilancio, con l'avvallo dei Confederali,
ma ancora in vigore. E incassa già due risultati: un'operatrice
in aggiunta al guardaroba; una forte coesione tra gli operatori, frutto
della democrazia assembleare ispirata alle lotte in Valsusa.
Stentata la replica degli ex gruppettari che hanno in mano la Cgil
carrarese: rivendicano il ruolo delle RSU elette, ma dimenticano che
due delegati su tre si sono dimessi e stanno nel Comitato. I
confederali avevano già minacciato le vie legali in caso di RSU
aperte, ma dimenticano i rapporti di forza dentro il Regina Elena. La
Cgil è forte nella sanità locale, ma quotidianamente, da
anni, perde tessere, funzione, consenso nel lapideo, nei trasporti
pubblici, nel porto di Marina di Carrara, nella scuola, nel pubblico
impiego, nelle cooperative sociali e adesso al Regina Elena. Perde a
discapito della Uil, della Cisl cattodemocratica, di un frammentato
sindacalismo di base, ma anche di un ripiegamento del singolo
lavoratore su se stesso, contraddetto dalla nascita del Comitato.
Al regina Elena si affrontano, da un lato, il sindacalismo cigiellino
come campo d'azione politica dei trombati e riciclati provenienti dai
vari partiti di sinistra, in cerca di una rinnovata concertazione;
dall'altro, il Comitato di partecipazione diretta (in cui sono anche
tre lavoratori ancora con tessere confederali) aperto a tutti quelli
che quotidianamente la Casa di riposo la mandano avanti: i lavoratori.
Corrado Barbieri
Comincia il 5 luglio. I detenuti del CPT di via Corelli fanno lo
sciopero della fame, chiedendo la libertà. All'esterno esponenti
del comitato antirazzista appendono al cavalcavia lo striscione
"chiudiamo i CPT, libertà per tutti", battendo i ferri e
mantenendosi in contatto telefonico con i detenuti. Dagli immigrati si
viene a sapere che la polizia in assetto antisommossa è entrata
nel cpt ed ha picchiato una ragazza egiziana che protestava. Sia alcuni
avvocati sia i detenuti stessi denunciano che in via Corelli vi sono
immigrati detenuti nonostante la non convalida del trattenimento, altri
hanno permesso di soggiorno in altri paesi europei, i più sono
lavoratori in nero prelevati direttamente sul posto di lavoro. Ma i
detenuti denunciano anche le condizioni della detenzione: cibo scarso e
scadente, condizioni igieniche pessime, continue intimidazioni e
maltrattamenti da parte della polizia, nessuna attenzione per le cure
mediche (ai malati di AIDS non vengono somministrati i farmaci
appropriati), continue espulsioni addirittura in paesi diversi da
quelli di provenienza.
Il 6 luglio la situazione si surriscalda: un detenuto in sciopero della
fame sviene ma la Croce Rossa rifiuta di portarlo in ospedale.
All'interno battono sui ferri mentre all'esterno parte un nuovo
presidio: alla fine un'ambulanza partirà per l'ospedale.
Arriviamo al 7 luglio. Continua lo sciopero della fame: i reclusi
chiedono di poter incontrare una delegazione del Comitato antirazzista
ma i 50 solidali che danno vita ad un presidio si trovano davanti un
muro di carabinieri. Al CPT arriva una tunisina duramente pestata in
questura, le condizioni di alcune detenute trans, cui vengono negati i
farmaci retrovirali sono decisamente precarie.
Intorno all'una di notte una telefonata avverte che una detenuta trans,
che protestava con un poliziotto per ricevere alcuni farmaci che le
erano negati, viene pestata: perde sangue dalla bocca e ha un seno
aperto. Le viene negata l'ambulanza. Alle 2 di notte a metà
dello stradello che porta alla barra d'ingresso del CPT si forma un
piccolo presidio solidale: di fronte si schiera la polizia. I compagni
chiedono un'ambulanza, che arriva ma esce vuota; dal cavalcavia, da
dove si vedono i cortili interni, vengono accesi fumogeni. Alle tre dal
CPT si alza il fumo: da dentro dicono di stare bruciando tutto e poco
dopo entrano svariati mezzi di polizia e due camion di pompieri.
Alle 3,30 un'ambulanza porta all'ospedale la trans vittima del
pestaggio. Il giorno dopo due delle trans che più avevano
lottato nel CPT vengono liberate. In un primo tempo, quella che aveva
preso le botte ed era stata ferita dalla polizia rifiuta di uscire: la
lotta è per la libertà di tutti. Poi esce e viene
accompagnata all'ospedale per ottenere un referto medico che attestasse
il pestaggio avvenuto: la notte prima glielo avevano negato.
La resistenza contro i cpt continua.
Mort.
Sono arrivati all'alba. Decine di mezzi di polizia e carabinieri in
assetto antisommossa con i vigili del fuoco armati di scale per
l'assalto alla casa di via Pisa, dove da 10 giorni abitavano quattro
famiglie di rumeni. Hanno scardinato la porta e sono entrati in armi
nelle stanze dove dormiva la gente. I bambini hanno cominciato a
gridare spaventati, una signora più anziana si è sentita
male. Una scena di quelle che abbiamo visto nei film, che abbiamo
sentito raccontare dai nostri vecchi, una scena da città
occupata dai nazisti, con la gente braccata nelle case. Gli occupanti
sono stati caricati su un pullman già pronto e portati nelle
baracche dalle quali erano fuggiti, decidendo di occupare. Le baracche
sono in via Germagnano tra il canile e il fiume: dopo l'alluvione si
sono riempite di fango, un fango che non se ne è più
andato. Una fogna a cielo aperto per uomini, donne e bambini.
Sgomberati dalla polizia perché occupare è illegale, gli
ex occupanti di via Pisa sono stati deportati con un pullman del comune
in un campo abusivo. I giornali, il giorno dopo, hanno osato scrivere,
mentendo spudoratamente, che la casa di via Pisa non era sicura.
Così – per maggior sicurezza – il comune ha
decretato che le famiglie tornassero in baracche senza acqua né
elettricità, dove scorazzano i topi.
Le istituzioni, Comune in testa, non potevano certo tollerare
un'occupazione, perché via Pisa stava dando coraggio ai tanti
che vivono come bestie lungo i fiumi, dove nessuno li vede, come
polvere celata sotto il tappeto.
L'Enel non poteva certo rischiare che l'esempio diventasse contagioso:
altri avrebbero potuto riprendersi parte di quello che ogni giorno
questa società ingiusta sottrae.
La proprietà privata non si tocca: nessuno deve rialzare la testa.
Fabio, uno dei compagni subito accorsi in via Pisa alla notizia dello
sgombero è stato pestato e arrestato: aveva provato a chiedere
di entrare nella casa sgomberata per prendere le poche cose degli
immigrati.
Solo più tardi, dopo estenuanti trattative, siamo riusciti a
recuperare materassi, coperte, abiti, giocattoli rimasti nella casa.
Il giorno dopo il compagno è stato liberato in attesa di
processo. Al giudice che gli chiedeva dei fatti Fabio ha negato di aver
assalito da solo tre energumeni della Digos e ha ribadito con fermezza
la propria indignazione di fronte ai poliziotti che ridevano per aver
gettato in strada quattro famiglie. Gli occupanti di via Pisa hanno
assistito all'udienza, dimostrando che la solidarietà è
contagiosa.
Al presidio davanti al Comune fatto subito dopo lo sgombero di fronte
ai bambini che reggevano lo striscione "Case per tutti. Fabio Libero",
il sindaco Chiamparino, "pescato", mentre andava al bar, ha detto "io
non c'entro". Un funzionario del suo gabinetto, durante un incontro
successivo e meno informale, ha promesso una casa per il giorno dopo.
Ma mercoledì mattina i funzionari dell'ufficio immigrazione di
Corso Novara si sono limitati a intimidire gli immigrati annunciando
denunce e arresti se ci fossero state nuove occupazioni. L'unica
"proposta" avanzata: prendersi i bambini ed ospitarli in una casa per
minori. Più che una proposta una ben evidente minaccia.
Paure metropolitane. Questo il titolo di un incontro/dibattito
organizzato nell'ambito del Festival ARCIpelago, coorganizzato da ARCI
e Circoscrizione 2 in piazza D'Armi. È il 17 luglio e sono
passati solo due giorni dallo sgombero di via Pisa.
A parlare di paura c'era una sfilza di politici e professori
universitari, tra cui l'assessore Curti. Curti è ben nota a
Torino perché ha la delega all'integrazione degli stranieri. In
questa veste chiese di sgomberare l'Asilo Squat per far posto ad
un'associazione di rumeni amici suoi.
Le famiglie che hanno occupato in via Pisa lei le conosce bene: sono
tra le tante che lei e i suoi colleghi hanno blandito con promesse di
case popolari che non sono mai arrivate.
Il dibattito non partirà mai, perché viene contestato da
un gruppo di compagni solidali con gli occupanti di via Pisa, che
aprono uno striscione con la scritta "case per tutti" e cominciano a
raccontare ai presenti della paura, quella vera, quella che stringe le
vite di chi ogni giorno deve lottare per quello successivo.
Curti non tollera la contestazione e, mentre i suoi colleghi di tavolo
se la svignano senza farsi notare, da in escandescenze, inveisce e
addirittura comincia a mulinare le mani, cercando di aggredire i
compagni che reggevano lo striscione.
Come nella migliore tradizione del vecchio PCI, si schiera il servizio d'ordine che si interpone tra lo striscione e Curti.
Volano insulti e minacce ma i compagni non cadono nella provocazione.
I presenti, incuriositi, assistono e ascoltano i racconti dei compagni.
Curti alla fine se ne va ed il dibattito viene annullato.
I politici che governano Torino paiono sull'orlo di una crisi di nervi:
le loro reazioni sono sempre più sguaiate e scomposte.
Vorrebbero sottrarsi alle loro responsabilità, vorrebbero che le
numerose decine di famiglie che vivono in baracche senza luce, acqua,
riscaldamento se ne restassero buone, buone lungo i fiumi, senza alzare
la testa, senza pretendere di abbandonare i margini della città,
là dove nessuno li vede. Un problema nascosto non è un
problema. Ilda Curti, come due giorni prima Chiamparino ha gridato "e
io che c'entro?". Già il potere politico non c'entra, non
c'entra mai.
Il 21 ottobre è un lunedì e come ogni lunedì
dovrebbe riunirsi il consiglio comunale, ma l'aria d'estate fa male
alla salute di consiglieri ed assessori: manca il numero legale ed il
consiglio salta. Chi non manca sono gli occupanti di via Pisa, che in
via Garibaldi danno vita ad un presidio di denuncia, cui partecipano un
centinaio di persone. Lo schieramento di polizia è imponente: un
negoziante chiede ad un compagno: "hanno fatto il golpe e non ci hanno
detto niente"?
"Sono lì" risponde il compagno "per quattro famiglie di senza casa che ne vorrebbero una come tutti".
Una della bambine di via Pisa, mentre si preparava a tornare in
baracca, ha detto "almeno ho vissuto in una casa vera per 10 giorni".
La lotta continua domani.
Euf.
A Marzaglia da nove anni c'è Libera, una casa occupata e poi
concessa in comodato dal Comune di Modena al Collettivo degli Agitati.
La speculazione edilizia che ha investito un'area a vocazione
tipicamente agricola ha investito la casa colonica dove vivono gli
anarchici di Libera: il comune, a guida DS/PD, ha decretato che Libera
deve essere abbattuta per far posto ad un autodromo, trasformando
l'intera zona in una "Valle dei tumori". I compagni, che da anni
resistono e si oppongono al nuovo autodromo, hanno rifiutato ogni sede
alternativa proposta da Comune e sinistri rifondati, decidendo di
resistere, moltiplicando le iniziative sul territorio e all'interno
della Casa.
In luglio è arrivata la lettera del Comune che comunicava che il
contratto tra il Collettivo degli Agitati e l'amministrazione
proprietaria dello stabile è decaduto, perché il
Collettivo non esiste più: uno sciocco cavillo legale per
giustificare lo sfratto coatto dei compagni di Libera.
Mentre scriviamo, a turno, i compagni passano la notte sul tetto,
preparandosi alla resistenza finale. Hanno anche fatto appello per un
campeggio di solidarietà.
La ditta Vintage, che ha in appalto i lavori per l'autodromo, ha
già aperto cinque cantieri intorno a Libera che distano dallo
stabile circa 200 metri: alcuni tecnici incaricati della demolizione
hanno cercato di entrare ma sono stati invitati ad andarsene.
I compagni hanno deciso di resistere allo sgombero "ingombrando"
strade, piazze, ferrovie… Sabato 19 luglio hanno volantinato
agli automobilisti, bloccando la via Emilia e si sono poi spostati
dentro la Coop dove hanno continuato la loro opera di informazione.
Numerose dichiarazioni di solidarietà giunte a Libera da diverse città.
Euf.