Era il 2 giugno 1999. La Commissione Difesa concludeva la propria
indagine sul comportamento delle truppe italiane in Somalia nell'ambito
della missione "restore hope – ricostruire la speranza", svoltasi tra
il 1993 e il 1994.
Le immagini pubblicate nel 1997 da Panorama e il diario del maresciallo
Aloi non avevano consentito di far cadere nel nulla la questione: le
foto delle torture e dello stupro erano del tutto inequivocabili.
La commissione, bontà sua, concluse che qualcosa era
effettivamente successo. La responsabilità di fatti oltre che
dei diretti interessati sarebbe stata anche dei loro superiori, che non
avrebbero vigilato a sufficienza e non si sarebbero resi conto che la
truppa era sotto stress.
Adesso questi stessi uomini, dopo essere passati dalla Bosnia,
dall'Iraq e dall'Afganistan, ce li ritroviamo per le strade delle
nostre città: non resta che augurarci che non siano troppo
stressati.
Certo qui da noi è improbabile che una nostra vicina di casa
venga legata ad un camion con un razzo illuminante infilato tra le
gambe, oppure un nostro collega di lavoro sia steso nudo a terra,
sanguinante e semi incosciente perché qualcuno gli sta lavorando
i testicoli con elettrodi e batteria.
Sappiamo tuttavia che i germi di una svolta autoritaria si piantano a
poco a poco, in modo che il paesaggio muti gradualmente senza produrre
rotture improvvise che potrebbero indurre alla rivolta.
Non dimentichiamo peraltro che i limiti nell'azione della polizia sono
ormai molto elastici da anni. Le torture della Diaz e di Bolzaneto
fecero il giro del mondo ma la battaglia dei ponti a Nassirija o il
mitragliamento di un'ambulanza con a bordo una partoriente e i suoi
parenti sono stati negati o relegati al rango di incidenti. Quando le
vittime sono lontane o straniere il livello dell'indignazione morale si
abbassa. È una delle conseguenze più devastanti del
razzismo, che non è mai solo un mal sentire ma sempre un mal
agire.
Nei CPT/CIE non passa giorno che chi protesta o fa una semplice
richiesta venga pestato dalla Polizia e dai Carabinieri. I soprusi e le
violenze nei confronti degli immigrati, considerati fonte di
insicurezza sociale in quanto tali, sono tollerati a tal punto da non
costituire più un'eccezione.
Per disciplinare una società, per piegarla ad accettare il
lavoro precario, pericoloso, malpagato, per costringerla ad una vita
che se ne va con l'aria che respiriamo e il cibo che mangiamo, per
farla rassegnare ad un futuro che non c'è perché ci viene
rubato ogni giorno, occorre cominciare dagli ultimi, dai più
deboli, da quelli che il veleno razzista relega in basso, tra i
reietti.
Lo stanno facendo da anni, alimentando poco a poco la paura, facendo
leva su archetipi mai dimenticati, creando l'immagine del nemico da
combattere, pericoloso solo perché esiste, il nemico assoluto.
Il nemico assoluto è quello che fa guerra, quello che devi
attaccare per non essere attaccato, eliminare per non essere eliminato.
Con il nemico, diversamente dall'avversario, non c'è spazio di
mediazione, non c'è luogo della politica, perché non
c'è trattativa possibile. In questi anni hanno raccontato e
spiegato la guerra come operazione di polizia internazionale,
giustificata dal fine "umanitario" di preservare e difendere chi, da
solo, non saprebbe difendersi. Hanno reso ancora più sottile,
quasi impalpabile, la separazione tra guerra e ordine pubblico, tra
esercito e polizia.
Hanno armato polizia, carabinieri e vigili urbani come truppe di
assalto, pronte per la guerra interna, mentre gli assassini di
professione inviati in Iraq e Afganistan li hanno fatti accompagnare da
ONG e altri specialisti dell'umanitario, per disegnare l'immagine di
interventi armati in difesa della popolazione civile. Miserabili foglie
di fico di fronte all'evidenza che le principali vittime ed obiettivi
delle guerre moderne sono proprio i civili. Civili bombardati,
affamati, controllati, inquisiti, stuprati e derubati: è la
cronaca di ogni giorno, che filtra nonostante la censura.
Il confine tra guerra interna e guerra esterna è praticamente
scomparso. La presenza dei militari nelle nostre strade ne è la
logica conseguenza. I partiti dell'opposizione parlamentare, che in
questi anni hanno perseguito i medesimi obiettivi e fatto le stesse
scelte, si limitano a dire che la decisione di affidare ai soldati il
pattugliamento dei quartieri dei migranti, dei Centri di detenzione per
immigrati, di piazze è solo l'ennesimo spot pubblicitario,
un'operazione di facciata, inutile perché i soldati non sanno
fare ordine pubblico, sono inadatti al ruolo. Dimenticano che i nostri
"ragazzi" sono stati spediti in Bosnia e in Afganistan per insegnare ai
locali proprio come gestire la giustizia e la polizia. I risultati sono
sotto gli occhi di tutti.
Se l'invio di soldati nelle nostre città fosse solo una
costosissima reclame al governo del Cavaliere non varrebbe la pena di
preoccuparsi, ma non è così. Le conseguenze sia sul piano
simbolico che su quello pratico sono enormi: se la guerra è
un'operazione di polizia facilmente si applica la proprietà
transitiva che rende vero anche il contrario. Ne consegue che le
operazioni di polizia possono essere condotte come interventi di
guerra. Da anni lo fanno i poliziotti, dal mese di agosto sono scesi in
campo i soldati. Gente che le ossa se le è fatte con la
popolazione somala, bosniaca, irachena, afgana. Oggi sono chiamati a
gestire un'emergenza che ha il volto dell'immigrato senza carte,
illegale per legge. Domani a chi tocca?
Ma. Ma.