Umanità Nova, n.27 del 7 settembre 2008, anno 88

I soldati nelle nostre città. Tempo di guerra


Era il 2 giugno 1999. La Commissione Difesa concludeva la propria indagine sul comportamento delle truppe italiane in Somalia nell'ambito della missione "restore hope – ricostruire la speranza", svoltasi tra il 1993 e il 1994.
Le immagini pubblicate nel 1997 da Panorama e il diario del maresciallo Aloi non avevano consentito di far cadere nel nulla la questione: le foto delle torture e dello stupro erano del tutto inequivocabili.
La commissione, bontà sua, concluse che qualcosa era effettivamente successo. La responsabilità di fatti oltre che dei diretti interessati sarebbe stata anche dei loro superiori, che non avrebbero vigilato a sufficienza e non si sarebbero resi conto che la truppa era sotto stress.
Adesso questi stessi uomini, dopo essere passati dalla Bosnia, dall'Iraq e dall'Afganistan, ce li ritroviamo per le strade delle nostre città: non resta che augurarci che non siano troppo stressati.
Certo qui da noi è improbabile che una nostra vicina di casa venga legata ad un camion con un razzo illuminante infilato tra le gambe, oppure un nostro collega di lavoro sia steso nudo a terra, sanguinante e semi incosciente perché qualcuno gli sta lavorando i testicoli con elettrodi e batteria.
Sappiamo tuttavia che i germi di una svolta autoritaria si piantano a poco a poco, in modo che il paesaggio muti gradualmente senza produrre rotture improvvise che potrebbero indurre alla rivolta.
Non dimentichiamo peraltro che i limiti nell'azione della polizia sono ormai molto elastici da anni. Le torture della Diaz e di Bolzaneto fecero il giro del mondo ma la battaglia dei ponti a Nassirija o il mitragliamento di un'ambulanza con a bordo una partoriente e i suoi parenti sono stati negati o relegati al rango di incidenti. Quando le vittime sono lontane o straniere il livello dell'indignazione morale si abbassa. È una delle conseguenze più devastanti del razzismo, che non è mai solo un mal sentire ma sempre un mal agire.
Nei CPT/CIE non passa giorno che chi protesta o fa una semplice richiesta venga pestato dalla Polizia e dai Carabinieri. I soprusi e le violenze nei confronti degli immigrati, considerati fonte di insicurezza sociale in quanto tali, sono tollerati a tal punto da non costituire più un'eccezione.
Per disciplinare una società, per piegarla ad accettare il lavoro precario, pericoloso, malpagato, per costringerla ad una vita che se ne va con l'aria che respiriamo e il cibo che mangiamo, per farla rassegnare ad un futuro che non c'è perché ci viene rubato ogni giorno, occorre cominciare dagli ultimi, dai più deboli, da quelli che il veleno razzista relega in basso, tra i reietti.
Lo stanno facendo da anni, alimentando poco a poco la paura, facendo leva su archetipi mai dimenticati, creando l'immagine del nemico da combattere, pericoloso solo perché esiste, il nemico assoluto. Il nemico assoluto è quello che fa guerra, quello che devi attaccare per non essere attaccato, eliminare per non essere eliminato. Con il nemico, diversamente dall'avversario, non c'è spazio di mediazione, non c'è luogo della politica, perché non c'è trattativa possibile. In questi anni hanno raccontato e spiegato la guerra come operazione di polizia internazionale, giustificata dal fine "umanitario" di preservare e difendere chi, da solo, non saprebbe difendersi. Hanno reso ancora più sottile, quasi impalpabile, la separazione tra guerra e ordine pubblico, tra esercito e polizia.
Hanno armato polizia, carabinieri e vigili urbani come truppe di assalto, pronte per la guerra interna, mentre gli assassini di professione inviati in Iraq e Afganistan li hanno fatti accompagnare da ONG e altri specialisti dell'umanitario, per disegnare l'immagine di interventi armati in difesa della popolazione civile. Miserabili foglie di fico di fronte all'evidenza che le principali vittime ed obiettivi delle guerre moderne sono proprio i civili. Civili bombardati, affamati, controllati, inquisiti, stuprati e derubati: è la cronaca di ogni giorno, che filtra nonostante la censura.
Il confine tra guerra interna e guerra esterna è praticamente scomparso. La presenza dei militari nelle nostre strade ne è la logica conseguenza. I partiti dell'opposizione parlamentare, che in questi anni hanno perseguito i medesimi obiettivi e fatto le stesse scelte, si limitano a dire che la decisione di affidare ai soldati il pattugliamento dei quartieri dei migranti, dei Centri di detenzione per immigrati, di piazze è solo l'ennesimo spot pubblicitario, un'operazione di facciata, inutile perché i soldati non sanno fare ordine pubblico, sono inadatti al ruolo. Dimenticano che i nostri "ragazzi" sono stati spediti in Bosnia e in Afganistan per insegnare ai locali proprio come gestire la giustizia e la polizia. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Se l'invio di soldati nelle nostre città fosse solo una costosissima reclame al governo del Cavaliere non varrebbe la pena di preoccuparsi, ma non è così. Le conseguenze sia sul piano simbolico che su quello pratico sono enormi: se la guerra è un'operazione di polizia facilmente si applica la proprietà transitiva che rende vero anche il contrario. Ne consegue che le operazioni di polizia possono essere condotte come interventi di guerra. Da anni lo fanno i poliziotti, dal mese di agosto sono scesi in campo i soldati. Gente che le ossa se le è fatte con la popolazione somala, bosniaca, irachena, afgana. Oggi sono chiamati a gestire un'emergenza che ha il volto dell'immigrato senza carte, illegale per legge. Domani a chi tocca? 

Ma. Ma.


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