L'arresto di Karadzic avvenuto a Belgrado attorno al 20 luglio ha
destato solo una relativa sorpresa. L'ex psichiatra, già
Presidente della autoproclamata Repubblica Serba di Bosnia, era
diventato una specie di guru nella semiclandestinità e si era
trasformato, con una vistosa barba bianca, in una figura di saggio e
vecchio guaritore.
In fin dei conti era rimasto nel settore professionale e chi doveva
arrestarlo da vari anni sapeva dove trovarlo. In pratica la decadente
forza dei tradizionali servizi segreti serbi non ha voluto, o potuto,
continuare a proteggerlo come aveva fatto per almeno un decennio. Prima
o poi, il governo serbo avrebbe ripreso il controllo politico e tecnico
dei servizi e quindi ora ha barattato la sua scomoda presenza con
sostanziose promesse di rapidi passi verso l'entrata nella Unione
Europea. Già la cattura di Slobodan Milosevic di qualche anno fa
aveva fruttato, secondo fonti giornalistiche attendibili, un miliardo
di dollari di provenienza americana. La vendita di questo "super
ricercato" ha avuto, anche ufficialmente, altre contropartite
più politiche e, in un secondo tempo, economiche per la
dirigenza serba attuale.
Ricordiamo che Karadzic era stato il capo politico dei serbi di Bosnia
all'epoca della guerra feroce del 1992-95 che aveva seminato morte e
distruzione (sono stati stimati centomila decessi) nella regione
multietnica che costituiva una Jugoslavia in sedicesimo: leader croati
e musulmani, talora alleati e altre volte nemici, si erano battuti
contro i leader serbi in una lotta fratricida che aveva solo in parte
basi etniche. In questo contesto l'esibizionista Karadzic attirò
l'attenzione dei media internazionali e, ad esempio, attuò da
cicerone nelle visite alle postazioni di soldati che assediavano
Sarajevo e che colpivano i civili in fila per il pane e le
necessità quotidiane di sopravvivenza. Ha ricordato la
scrittrice Slavenka Drakulic (il cui cognome rinvia ad un sociologo
noto nel movimento libertario internazionale tuttora docente in
un'università canadese) che il generoso Radovan regalava ai suoi
ospiti la possibilità di sparare su Sarajevo. Tutto accadeva
come in un luna park.
Alle migliaia di morti della capitale bosniaca, anche vari serbi che
erano rimasti in città, vanno aggiunti nel bilancio delle
responsabilità del canuto psichiatra (e pare anche poeta) le
sette o ottomila vittime tra gli uomini musulmani di Srebenica,
lasciati dalle truppe olandesi dell'ONU in balia delle bande
paramilitari serbe. È curioso il fatto che in questi mesi il
processo al principale responsabile della strage di Srebenica si svolga
nel paese i cui soldati avevano abbandonato la difesa della
città bosniaca dopo una contrattazione con l'armata serba
ottenendo la liberazione di qualche centinaio di olandesi fatti
prigionieri dai soldati serbi. È una domanda retorica chiedersi
se qualche olandese sarà processato per complicità
all'Aia…
In più occasione l'imputato Radovan ha definito la propria
cattura a Belgrado "una farsa" sulla base di un accordo con mr. Richard
Holbrooke, delegato di Bill Clinton per la ex Jugoslavia e artefice
degli accordi di Dayton del 1995 che posero fine alla guerra più
evidente. L'impunità in cambio del ritiro a vita privata sarebbe
stata la base dello scambio tra il rappresentante degli USA e il
Presidente dei serbi di Bosnia. In effetti a Dayton i tre "signori
della guerra" (il musulmano Alja Izetbegovic, il croato Franjo Tudjman,
il serbo Slobodan Milosevic) ebbero gli onori dovuti a capi di Stato
che riescono a portare la pace. Però nel giro di qualche anno i
tre vertici sono cambiati anche per la morte di leader allora
indiscussi.
Non va dimenticato che con il pretesto della pulizia etnica contro i
musulmani del Kosovo, nel 1999 la politica delle grandi potenze si
concretizzò nei bombardamenti, benedetti anche dall'ineffabile
Massimo D'Alema, sia sul "territorio da liberare" sia sulla Serbia e
sulla stessa Belgrado. Di queste morti, quasi tutte di civili, si
può essere sicuri che nessun imputato verrà trascinato
davanti ai giudici né all'Aia né altrove.
È più che legittimo chiedersi se a L'Aia, il Tribunale
Internazionale per i crimini di guerra, nato sotto l'egida dell'ONU che
fu incapace di risolvere il conflitto jugoslavo, sta esercitando una
qualche forma di giustizia effettiva. Già è noto che la
giustizia degli Stati (e dell'ONU che li aggruppa) ha i tratti di uno
spettacolo poco convincente. In questo caso, da molte parti si è
rilevato che le sentenze di detta istituzione hanno lasciato impuniti
gran parte delle violenze e delle pulizie etniche a danno dei serbi.
(Fatto che si sta ripetendo nel Kosovo indipendente con un'attenzione
pubblica sostanzialmente inerte).
Questa tappa olandese del lungo conflitto jugoslavo non porterà
risultati positivi nella risoluzione nemmeno degli strascichi della
guerra in quanto il giudizio viene gestito, al di là della
formale neutralità, dagli stessi poteri politici che hanno
spinto verso la guerra per distruggere la Jugoslavia. Infatti le grandi
nazioni decisero, dopo il 1989, che era venuto il momento di eliminare
la Jugoslavia in quanto potenza regionale balcanica in grado di evitare
la sottomissione della regione agli interessi economici dei potenti
mondiali. Altro che tentativi diplomatici per "far ragionare" le parti
in lotta! Armi, munizioni, denaro, appoggi diplomatici e altro vennero
promessi e concessi ai contendenti secessionisti.
Ricordiamo che la Slovenia fu la prima repubblica a rompere il delicato
equilibrio federale staccandosi con una piccola guerra nel giugno 1991.
La leadership slovena provocò degli scontri armati limitati (in
tutto ci furono 8 vittime slovene e una quarantina dell'Armata ancora
jugoslava) per staccarsi da Belgrado. La secessione, gestita
scientificamente a livello di mass media, fu immediatamente
riconosciuta dalla Germania e dal Vaticano che vedevano profilarsi
ottime occasioni di affari e di rinnovata influenza. Chi
giudicherà i leader sloveni che contribuirono, per i propri
interessi, a scoperchiare il vaso di Pandora della guerra?
Tornando a Karadzic e alla Serbia citiamo ancora il progetto del
capitale italiano di conquistare il mercato serbo, prima dell'arrivo
dei concorrenti europei. La Fiat vuole comprare la Zastava per
realizzare una profonda ristrutturazione e sfruttare meglio la
conveniente manodopera serba. Banca Intesa e Unicredit già
operano a Belgrado e dintorni, mentre le Assicurazioni Generali segnano
ulteriori rafforzamenti ed espansioni. In tutto ciò lo Stato
italiano, con i soliti figuri governativi, farà da
fiancheggiatore per approfittare della crisi che dilania i Balcani dai
primi anni Novanta. Quale "Tribunale" giudicherà questi
sciacalli del corpo frantumato e umiliato dei popoli ex jugoslavi?
Claudio Venza