Umanità Nova, n.27 del 7 settembre 2008, anno 88

Radovan Karadzic. Un criminale come altri?


L'arresto di Karadzic avvenuto a Belgrado attorno al 20 luglio ha destato solo una relativa sorpresa. L'ex psichiatra, già Presidente della autoproclamata Repubblica Serba di Bosnia, era diventato una specie di guru nella semiclandestinità e si era trasformato, con una vistosa barba bianca, in una figura di saggio e vecchio guaritore.
In fin dei conti era rimasto nel settore professionale e chi doveva arrestarlo da vari anni sapeva dove trovarlo. In pratica la decadente forza dei tradizionali servizi segreti serbi non ha voluto, o potuto, continuare a proteggerlo come aveva fatto per almeno un decennio. Prima o poi, il governo serbo avrebbe ripreso il controllo politico e tecnico dei servizi e quindi ora ha barattato la sua scomoda presenza con sostanziose promesse di rapidi passi verso l'entrata nella Unione Europea. Già la cattura di Slobodan Milosevic di qualche anno fa aveva fruttato, secondo fonti giornalistiche attendibili, un miliardo di dollari di provenienza americana. La vendita di questo "super ricercato" ha avuto, anche ufficialmente, altre contropartite più politiche e, in un secondo tempo, economiche per la dirigenza serba attuale.
Ricordiamo che Karadzic era stato il capo politico dei serbi di Bosnia all'epoca della guerra feroce del 1992-95 che aveva seminato morte e distruzione (sono stati stimati centomila decessi) nella regione multietnica che costituiva una Jugoslavia in sedicesimo: leader croati e musulmani, talora alleati e altre volte nemici, si erano battuti contro i leader serbi in una lotta fratricida che aveva solo in parte basi etniche. In questo contesto l'esibizionista Karadzic attirò l'attenzione dei media internazionali e, ad esempio, attuò da cicerone nelle visite alle postazioni di soldati che assediavano Sarajevo e che colpivano i civili in fila per il pane e le necessità quotidiane di sopravvivenza. Ha ricordato la scrittrice Slavenka Drakulic (il cui cognome rinvia ad un sociologo noto nel movimento libertario internazionale tuttora docente in un'università canadese) che il generoso Radovan regalava ai suoi ospiti la possibilità di sparare su Sarajevo. Tutto accadeva come in un luna park.
Alle migliaia di morti della capitale bosniaca, anche vari serbi che erano rimasti in città, vanno aggiunti nel bilancio delle responsabilità del canuto psichiatra (e pare anche poeta) le sette o ottomila vittime tra gli uomini musulmani di Srebenica, lasciati dalle truppe olandesi dell'ONU in balia delle bande paramilitari serbe. È curioso il fatto che in questi mesi il processo al principale responsabile della strage di Srebenica si svolga nel paese i cui soldati avevano abbandonato la difesa della città bosniaca dopo una contrattazione con l'armata serba ottenendo la liberazione di qualche centinaio di olandesi fatti prigionieri dai soldati serbi. È una domanda retorica chiedersi se qualche olandese sarà processato per complicità all'Aia…
In più occasione l'imputato Radovan ha definito la propria cattura a Belgrado "una farsa" sulla base di un accordo con mr. Richard Holbrooke, delegato di Bill Clinton per la ex Jugoslavia e artefice degli accordi di Dayton del 1995 che posero fine alla guerra più evidente. L'impunità in cambio del ritiro a vita privata sarebbe stata la base dello scambio tra il rappresentante degli USA e il Presidente dei serbi di Bosnia. In effetti a Dayton i tre "signori della guerra" (il musulmano Alja Izetbegovic, il croato Franjo Tudjman, il serbo Slobodan Milosevic) ebbero gli onori dovuti a capi di Stato che riescono a portare la pace. Però nel giro di qualche anno i tre vertici sono cambiati anche per la morte di leader allora indiscussi.
Non va dimenticato che con il pretesto della pulizia etnica contro i musulmani del Kosovo, nel 1999 la politica delle grandi potenze si concretizzò nei bombardamenti, benedetti anche dall'ineffabile Massimo D'Alema, sia sul "territorio da liberare" sia sulla Serbia e sulla stessa Belgrado. Di queste morti, quasi tutte di civili, si può essere sicuri che nessun imputato verrà trascinato davanti ai giudici né all'Aia né altrove.
È più che legittimo chiedersi se a L'Aia, il Tribunale Internazionale per i crimini di guerra, nato sotto l'egida dell'ONU che fu incapace di risolvere il conflitto jugoslavo, sta esercitando una qualche forma di giustizia effettiva. Già è noto che la giustizia degli Stati (e dell'ONU che li aggruppa) ha i tratti di uno spettacolo poco convincente. In questo caso, da molte parti si è rilevato che le sentenze di detta istituzione hanno lasciato impuniti gran parte delle violenze e delle pulizie etniche a danno dei serbi. (Fatto che si sta ripetendo nel Kosovo indipendente con un'attenzione pubblica sostanzialmente inerte).
Questa tappa olandese del lungo conflitto jugoslavo non porterà risultati positivi nella risoluzione nemmeno degli strascichi della guerra in quanto il giudizio viene gestito, al di là della formale neutralità, dagli stessi poteri politici che hanno spinto verso la guerra per distruggere la Jugoslavia. Infatti le grandi nazioni decisero, dopo il 1989, che era venuto il momento di eliminare la Jugoslavia in quanto potenza regionale balcanica in grado di evitare la sottomissione della regione agli interessi economici dei potenti mondiali. Altro che tentativi diplomatici per "far ragionare" le parti in lotta! Armi, munizioni, denaro, appoggi diplomatici e altro vennero promessi e concessi ai contendenti secessionisti.
Ricordiamo che la Slovenia fu la prima repubblica a rompere il delicato equilibrio federale staccandosi con una piccola guerra nel giugno 1991. La leadership slovena provocò degli scontri armati limitati (in tutto ci furono 8 vittime slovene e una quarantina dell'Armata ancora jugoslava) per staccarsi da Belgrado. La secessione, gestita scientificamente a livello di mass media, fu immediatamente riconosciuta dalla Germania e dal Vaticano che vedevano profilarsi ottime occasioni di affari e di rinnovata influenza. Chi giudicherà i leader sloveni che contribuirono, per i propri interessi, a scoperchiare il vaso di Pandora della guerra?
Tornando a Karadzic e alla Serbia citiamo ancora il progetto del capitale italiano di conquistare il mercato serbo, prima dell'arrivo dei concorrenti europei. La Fiat vuole comprare la Zastava per realizzare una profonda ristrutturazione e sfruttare meglio la conveniente manodopera serba. Banca Intesa e Unicredit già operano a Belgrado e dintorni, mentre le Assicurazioni Generali segnano ulteriori rafforzamenti ed espansioni. In tutto ciò lo Stato italiano, con i soliti figuri governativi, farà da fiancheggiatore per approfittare della crisi che dilania i Balcani dai primi anni Novanta. Quale "Tribunale" giudicherà questi sciacalli del corpo frantumato e umiliato dei popoli ex jugoslavi?

Claudio Venza


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