Umanità Nova, n.28 del 14 settembre 2008, anno 88

10 anni di CPT, ora CIE. Nome nuovo, vecchia galera


Quest'anno ricorre un triste anniversario nella storia recente del nostro paese, quello dell'istituzione dei Centri di permanenza temporanea per immigrati. Era il 1998 quando la legge Turco-Napolitano entrò in vigore definendo per la prima volta in Italia le condizioni della detenzione amministrativa per quegli immigrati cosiddetti "extracomunitari" che facevano irregolarmente ingresso (o irregolarmente vi risiedevano) in Italia.
I firmatari di quella legge, vecchi esponenti del Partito comunista prima, democratici di sinistra poi, facevano allora parte di una maggioranza governativa di centrosinistra che, proprio in quegli anni, si distinse anche per il coinvolgimento dell'Italia nella guerra in Kosovo e per tutta una serie di provvedimenti che contribuirono a ridisegnare la società italiana demolendo, una dopo l'altra, le certezze e le conquiste di libertà e convivenza civile sulla scorta di quanto era già stato iniziato dal primo governo Berlusconi. Da allora, si sono succeduti alla guida del paese due governi Berlusconi in un'unica legislatura, un altro governo di centrosinistra con Prodi presidente del consiglio e, infine, il Berlusconi-parte-quarta in carica.
Sul fronte dell'immigrazione non è praticamente cambiato nulla. Se possibile, le condizioni si sono ulteriormente aggravate e questi dieci anni sono testimoni di un arretramento progressivo e sostanziale per quanto riguarda le politiche pubbliche in materia di immigrazione. Non solo la Bossi-Fini a peggiorare un quadro normativo già restrittivo, ma anche una serie di provvedimenti populisti e autoritari che hanno reso sempre più difficili le condizioni di vita degli immigrati in Italia.
Perché se da un lato la repressione colpisce chi non ha le carte in regola, dall'altro lato è risultata evidente la volontà da parte delle istituzioni di complicare le stesse procedure per la regolarizzazione degli immigrati: l'esosa (per gli utenti) convenzione tra Ministero dell'interno e Posteitaliane per il disbrigo di pratiche che non si sbrigano mai; il famigerato click-day per inoltrare in via telematica le domande per il permesso di soggiorno a orari e giorni prestabiliti; l'immarcescibile legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro che, se non c'è, ti fa precipitare da un giorno all'altro nella clandestinità.
In mezzo a tutto questo, dieci anni di naufragi nel Mediterraneo, di gente morta nelle stive dei camion per oltrepassare la frontiera, di deportazioni di massa, di storie incredibili tra le mura dei CPT.
Ma sono stati anche dieci anni di lotte, in Italia e non solo. Da Trapani a Gradisca, tutto il paese ha conosciuto momenti anche alti di mobilitazione per opporsi alla barbarie razzista che le istituzioni hanno scatenato contro gli immigrati. Manifestazioni, cortei, presidi, inchieste. Ma anche arresti, denunce, cariche, intimidazioni, criminalizzazione. Se tutto questo non è servito a far chiudere i CPT, è comunque servito a far conoscere all'esterno questa realtà abominevole dando coraggio agli stessi immigrati che, in molte occasioni, hanno lottato in prima persona - pagando a volte un altissimo prezzo come la propria vita - per la libertà: dieci anni di fughe, rivolte, scontri con le guardie per aprire un varco tra le sbarre. E poi i coordinamenti antirazzisti, i comitati autogestiti dagli stessi immigrati, l'autorganizzazione delle lotte per rivendicare diritti e libertà.
Oggi, come tante volte succede in Italia, i CPT hanno cambiato nome: sono Centri di identificazione ed espulsione, CIE. Non è cambiato nulla, perché anche prima assolvevano questa funzione. Ma è un nome che dà l'idea del mandar via subito, dell'eliminazione del corpo estraneo. È un acronimo più cattivo, se vogliamo, ma quanto meno ci pare meno ipocrita di quella "permanenza temporanea" che il centrosinistra si era inventato contrabbandando le galere degli immigrati per alberghetti a tre stelle. È un acronimo che ben si presta all'esigenza propagandistica del governo di mantenere la barra dritta sulla rotta del terrorismo psicologico con cui fomentare nella popolazione la paura dello straniero, capro espiatorio su cui focalizzare frustrazioni e insuccessi tutti italiani. Se l'emergenza è la sicurezza, e i colpevoli sono i "clandestini", ecco servito l'esercito per funzioni di ordine pubblico: soldati per le strade, nei punti sensibili (!) e, ovviamente, a guardia dei centri per immigrati. Sbarre, poliziotti, carabinieri, soldati armati: questa è la fauna che si presenta agli occhi di ogni immigrato vittima della repressione dello stato, a dieci anni dalla istituzione dei nuovi lager italiani nella Fortezza Europa.

TAZ laboratorio di comunicazione libertaria



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