L'avvento dei "nuovi media", ieri la tv, oggi internet, ha
contribuito ad alimentare lo stato di crisi in cui versa da tempo
l'editoria su carta. Un ulteriore colpo al sistema dei media
tradizionali è stato dato, agli inizi di agosto, dalla manovra
finanziaria approvata a tempo di record prima della chiusura per ferie
del Parlamento.
La normativa in vigore fino a oggi prevedeva l'elargizione di
finanziamenti pubblici alle imprese editoriali sia in modo diretto (in
base alla tiratura ed alle vendite) che indiretto (attraverso
contributi per le spese postali, di stampa, ecc...). Mentre il primo
tipo di finanziamenti era destinato alle imprese a carattere non di
lucro, cooperative, associazioni religiose e organi di partito, del
secondo beneficiavano invece indistintamente tutte le imprese
editoriali. Con questo sistema sono stati distribuiti, nel corso degli
anni, centinaia di milioni di euro di contributi dei quali hanno
usufruito - in misura diversa - praticamente tutti i giornali, dai
feroci paladini del liberismo ai sostenitori di "altre" economie. Tra i
beneficiari anche un discreto numero di finti quotidiani di partito, di
bollettini parrocchiali e di improbabili giornali che venivano stampati
solo per essere poi inviati al macero o regalati. Questa situazione,
ben nota agli addetti ai lavori, è diventato negli ultimi anni
di pubblico dominio grazie ad una inchiesta di una nota trasmissione
giornalistica della Rai, ma soprattutto grazie alla pubblicità
fatta da B. Grillo durante il suo V2Day, durante il quale sono state
proiettate su grande schermo le cifre che annualmente lo Stato destina
alle varie testate giornalistiche.
Dal prossimo anno le cose dovrebbero cambiare in quanto il
provvedimento varato prevede un taglio, decisamente pesante ai
contributi diretti (si calcolano 357,5 milioni di euro), mentre
mantiene inalterati quelli indiretti. Questo sia al fine di ridurre la
spesa dello stato che di fare un po' di pulizia tra i numerosi
finanziamenti decisamente scandalosi.
Nei giorni immediatamente precedenti l'approvazione del Decreto sono
partite le proteste dei più colpiti dai tagli, in testa "il
manifesto" che rischia di perdere circa 4,3 milioni di euri all'anno e
quindi di chiudere i battenti. Ma forti sono state anche le proteste
dell'editoria cattolica che ha paventato la chiusura di decine di
giornali e un conseguente danno per il pluralismo del sistema
informativo. Per una settimana si sono susseguite sui quotidiani le
prese di posizione, rigorosamente bipartisan, contro questi tagli ed
è stato persino costituito un coordinamento tra i Comitati di
Redazione che raccoglie un po' tutti, da "Liberazione" al "Secolo
d'Italia", per studiare le forme di protesta da adottare. E alla fine
di settembre si terrà a Roma una riunione delle imprese
cooperative e no profit, per studiare le iniziative da prendere.
Ma si sono lette cose anche più divertenti, come gli articoli
pubblicati su quotidiani di centro-destra che attaccavano un
settimanale dello stesso schieramento politico accusandolo di predicare
bene e di razzolare male in quanto anch'esso destinatario (tramite il
suo editore) di una più che sostanziosa parte dei tanto
famigerati finanziamenti pubblici.
Da tempo l'editoria su carta è un settore assistito; al pari di
altri comparti produttivi ha beneficiato negli anni delle vacche grasse
di contributi a pioggia in nome della libertà di informazione,
anche se poi è facile verificare come questa è stata
applicata nel settore dei media ufficiali, che sono spesso uno
fotocopia dell'altro. Anche se una parte di questi fondi sono finiti a
giornali che si proclamano "dalla parte del torto", la maggior parte
dei finanziamenti è stata comunque destinata ai grossi gruppi
editoriali e quindi, in cascata, ai loro azionisti.
Il provvedimento approvato non è che la logica conseguenza della
politica liberista di tagli alle spese, che questa volta ha colpito
l'industria editoriale, al centro degli interessi dei poteri forti.
In questo modo l'impatto propagandistico del provvedimento è
stato quindi amplificato proprio dal settore investito dai tagli, che
negli ultimi decenni ha già subito profonde modifiche:
precarizzazione del lavoro, esternalizzazioni selvagge, rafforzamento
delle posizioni di monopolio. Un ambito nel quale le già rare
voci dissidenti sono state progressivamente ridotte al silenzio,
strangolate dall'aumento dei costi e dalla concorrenza dei grandi
gruppi.
Difficilmente sentiremo la mancanza di testate omologate al sistema di
sfruttamento, che in tutta la loro storia non hanno fatto altro che da
portavoce all'ideologia dello stato e del capitale. Altrettanto
sicuramente, la chiusura di decine di giornali è piuttosto una
perdita che un guadagno per tutta la collettività, ma -
paradossalmente - potrebbe anche essere una spinta, per coloro che
hanno davvero a cuore la libertà di stampa, ad imboccare la
scomoda strada dell'informazione completamente al di fuori del sistema
dei media di Stato.
Pepsy