Umanità Nova, n.28 del 14 settembre 2008, anno 88

Le ultime sulla Torino-Lyon. La cura del ferro


Gli ultimi avvenimenti
Al tavolo politico sulla Torino – Lyon, tenutosi a Roma il 29 luglio sotto la presidenza del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, è stato sancito l'inizio della fase due del processo che deve portare alla costruzione della nuova linea.
Riprendendo da Il Sole 24 Ore del 30 luglio – tutti i giornali, compresi quelli locali della valle di Susa, hanno tuttavia riportato più o meno le stesse notizie – nella fase due si avrà una progettazione unitaria dell'intera tratta Torino – Lyon, secondo le linee guide concordate dall'Osservatorio Tecnico, insieme agli Enti Locali, nell'accordo di Pracatinat del 28 giugno. Entro settembre verranno definiti i progetti per potenziare il trasporto pubblico e per riequilibrare il traffico di merci a favore della ferrovia; entro ottobre si avrà l'aggiornamento del dossier per i fondi europei, nel senso che si cercherà di utilizzare i fondi non più per il cunicolo geognostico sotto il massiccio di Ambin, ma direttamente per i tratti della nuova linea tra Chivasso e Avigliana. Infine, il prossimo ottobre si avrà la gara per assegnare la progettazione del collegamento che dovrebbe fare il progetto preliminare entro il 2009.
Così dice Virano, presidente dell'Osservatorio Tecnico, e in un certo senso possiamo credergli. Perché Virano è un tipico soggetto politico di nuova generazione, un manipolatore di frasi vuote, un dispensatore di melassa – blatera di partecipazione democratica, di costruzione del consenso, di linee guida progettuali concordate con i tecnici della valle – ma ha guidato con mano ferma la recita verso la sua conclusione predefinita, quella di costruire la nuova linea. E i dati contenuti nei Quaderni dell'Osservatorio, letti con distacco, parlano a suo favore, poiché mostrano la necessità di intervenire subito con la costruzione della gronda merci a nord ovest di Torino e di una nuova tratta tra Torino (bivio Pronda) e Avigliana, onde evitare la congestione a breve, tra qualche anno, della linea storica. I numeri che giustificano questa visione del problema sono stati in parte ottenuti con un modello demenziale di previsione dell'incremento dei flussi di traffico – il modello prevede un raddoppio dei flussi ogni 25 anni circa, senza tener conto che oramai la crescita si scontra con i limiti puramente fisici del territorio – in parte su altri dati gettati sul tavolo dall'Agenzia Mobilità Metropolitana di Torino, senza uno straccio di analisi a sostegno – si vuole duplicare in quattro anni il numero dei treni passeggeri dal bivio Pronda ad Avigliana – oppure dall'Autostrada Ferroviaria Alpina che prevede di moltiplicare nello stesso periodo per 3,25 i treni che trasportano camion-cisterna. Poiché sia il trasporto metropolitano, sia l'autostrada ferroviaria vanno sovvenzionati con il denaro pubblico – l'autostrada ferroviaria è sovvenzionata per 2/3 – visti i chiari di luna, il tutto sembra una farneticazione. Ma è una farneticazione controfirmata da Debernardi e Tartaglia, tecnici della Comunità Montana di bassa valle, e sembra ovvio che su questo consenso democraticamente raggiunto sarà basata la decisione di partire a breve con la costruzione della linea di gronda attorno a Torino, il passaggio sotto corso Marche e il collegamento fino ad Avigliana. È del tutto evidente che le tratte in questione sono quelle iniziali di una nuova Torino – Lyon. La situazione di stallo è stata dunque superata, almeno sulla carta: si può partire. Se vi saranno problemi dovuti a gruppi di esagitati NO TAV, verranno trattati come problemi militari, secondo la più recente dottrina nazionale sull'uso dell'esercito.
Del resto, la possibilità che lo studio della situazione si concludesse con la decisione di non costruire la nuova linea – con l'opzione zero, come dicono gli specialisti -  era stata cancellata fin dall'inizio nel dibattito che si è svolto all'interno dell'Osservatorio, con una scelta implicita ma decisiva. Perché si giunga alla determinazione di non costruire qualcosa è necessario infatti che siano presenti nel dibattito almeno uno dei seguenti criteri:
- l'idea che un territorio non possa essere stravolto e asservito a esigenze esterne oltre un certo limite, in altre parole che si riconoscano al territorio e ai suoi abitanti dei diritti;
- l'idea che il saccheggio del denaro pubblico non possa essere portato fino a programmare spese colossali prive di ritorno economico.
Il primo dei due criteri implica la necessità di un'analisi dell'impatto dell'opera sul territorio; il secondo porta a una comparazione tra i costi e i benefici presunti dell'impresa. Né l'uno, né l'altro tema sono stati neppure sfiorati nei quaderni dell'Osservatorio. Nel dibattito dell'Osservatorio le esigenze del trasporto, immaginato in continua espansione secondo una legge esponenziale, sono state assunte come una priorità assoluta, rispetto a cui qualsiasi altro diritto o considerazione di opportunità viene cancellato. L'unica incertezza che rimane riguarda la determinazione dei tempi in cui sarà inevitabile costruire; e di questo si è in effetti discusso.
In realtà, il problema dell'impatto e quello dei costi erano stati affrontati nei confronti del decennio precedente, sia in quelli tenuti a più riprese all'interno di comitati regionali, sia nelle varie Commissioni della Conferenza Intergovernativa. L'averli cancellati costituisce il fondamentale carattere innovativo del metodo adottato dall'Osservatorio tecnico; non è sorprendente che sia stato facile trovare un accordo.

Il gioco delle parti
Sebbene l'incontro di Pracatinat, il documento eleborato per quell'occasione da Virano, e i risultati del tavolo politico siano stati presentati sui media come un trionfo di concertazione democratica, le cose non sono andate così bene come probabilmente speravano i direttori dell'orchestra. Tanto per iniziare, i sindaci convocati a Roma non hanno firmato il documento politico; i Consigli Comunali della valle di Susa hanno respinto il documento di Pracatinat e una parte sia pure minoritaria di essi ha respinto anche il documento F.A.R.E, che nella intenzione dei tecnici della Comunità Montana e del suo presidente Ferrentino, dovrebbe rappresentare la proposta di compromesso della valle per la soluzione delle esigenze del trasporto. Infine, un gruppo nutrito di amministratori, 87 ci sembra, aveva già firmato un documento di critica alla decisione di partecipare ai lavori dell'Osservatorio, che veniva giudicato uno strumento di propaganda dei promotori dell'opera, e non uno strumento di approfondimento tecnico.
Alla base di questa diffusa mancanza di consenso vi è, come fattore a mio parere determinante, la capacità di mobilitazione di forze politiche non istituzionali, i comitati NO TAV e i loro alleati dell'area antagonista, che hanno dimostrato con una serie di iniziative – la raccolta delle 32.000 firme portate a Strasburgo, la campagna per l'acquisto di massa dei terreni interessati alla costruzione dell'opera, le mobilitazioni pubbliche di portata crescente – di aver conservato un solido rapporto con la gente comune.
In termini di confronto pubblico, la vittoria dei Comitati rispetto ai partiti, anzi al Partito, il PD senza la L, è stata schiacciante; i tentativi dei soldatini ex d.s. di simulare in valle, con l'aiuto di qualche truppa trasportata, un movimento Sì TAV sono affogati nel ridicolo. Il 28 luglio, alla vigilia del Tavolo Politico del 29, una fiaccolata notturna a cui hanno partecipato tra le 3 e le 5 mila persone, è sfilata attorno al municipio di S. Antonino. Volevano ricordare al sindaco, nonché presidente della Comunità Montana, che a Roma avrebbe rappresentato se stesso e una parte del suo ceto, ma non gli abitanti della valle.

Il documento F.A.R.E.
Il fatto che i sindaci non firmino i documenti di Virano non significa che, nel loro insieme, siano contrari alla costruzione della nuova infrastruttura. Salvo qualche eccezione, quelli di loro legati ai Partiti cederebbero volentieri alle pressioni esterne e alle promesse di compensazione, se solo sapessero come far dimenticare ai loro concittadini di essersi fatti eleggere presentando piattaforme tutte rigorosamente contrarie alla nuova infrastruttura.
Così, i favorevoli alla giravolta si sono dedicati a una strategia della confusione, che ha la sua mente direttiva, almeno all'apparenza, nel poliedrico presidente della Comunità Montana della bassa valle di Susa, Antonio Ferrentino, fino all'altro ieri eroe della resistenza, secondo la vulgata.
Gli strumenti con cui si accompagna il giro di valzer sono quelli tradizionali della subcultura stalinista – la nuova fase, il cambiamento di rapporti di potere tra le forze politiche, il metodo innovativo di confronto instaurato nell'Osservatorio, come se la decisione di intraprendere un'opera di gravissimo impatto e di costo spropositato potesse dipendere da considerazioni di questo tipo – e il coro che accompagna l'operazione è esteso ben al di fuori della valle. Partecipano il partito delle Cooperative di costruzione, detto anche PD, Regione, Provincia, Comune di Torino, Legambiente, e i giornali tutti, com'era ovvio che accadesse.
Ma a dar parvenza di dignità intellettuale al tutto si è aggiunta ultimamente una proposta, presentata come allegato ai Quaderni da Debernardi e Tartaglia, che vorrebbe essere alternativa alle proposte dei promotori. Il documento si intitola F.A.R.E, acronimo di Ferrovia Alpina Razionale ed Efficiente, e già nel ridicolo gioco di parole con cui si presenta rivela l'ambizione di collocarsi nella nouvelle vague veltrusconiana, quella che prevede di costruire tutto e subito, ma con il nobile intento di preservare il pianeta. Il testo è costituito da una lunga introduzione di filosofia del trasporto e da una breve parte propositiva. Quest'ultima è poca cosa: propone di costruire la nuova linea per fasi, partendo dal nodo di Torino, via via che le tratte si andranno saturando. A parte la piccola furbizia di inserire come fase zero i lavori di ammodernamento della vecchia linea, già iniziati da anni e di prossima conclusione, così che l'inizio della costruzione della nuova appaia come un semplice passo di un processo continuo, la proposta non contiene alcun elemento di novità. L'articolazione per fasi è obbligata, ed era già stata presentata numerose volte dalla Rete Ferroviaria Italiana; i suggerimenti tecnici che dovrebbero rendere più facile mitigare l'impatto della nuova linea sono, nella situazione specifica, inapplicabili.

Viene lasciato nel vago che cosa accadrà se e quando le previsioni di saturazione si riveleranno false; a voce, nelle assemblee che si sono susseguite in valle di Susa, ad Almese e a Villar Focchiardo ad es., la triade Ferrentino, Debernardi, Tartaglia, pur facendo blocco in difesa del documento, non parla con una sola voce. I primi due evitano l'argomento; Tartaglia sostiene che il documento fissa una serie di scadenze con verifica; la mancata saturazione, o anche il mancato trasferimento modale del trasporto merci – dal camion al treno – dovrà portare secondo lui all'abbandono della costruzione del tratto di bassa valle e del tunnel di base, perché inutili. È improbabile che i fautori dell'opera si preoccupino delle intenzioni di Tartaglia. Il loro problema è quello di aprire i cantieri nel più breve tempo possibile; da quel momento in poi, l'arma del ricatto occupazionale e l'argomento della incompletezza della infrastruttura strategica giocherà a loro favore nella lotta per l'attribuzione delle risorse. Le varie tratte non hanno infatti autonomia funzionale, non ostante le cifre ostentate nel terzo quaderno; qualsiasi ipotesi di equilibrio nella gestione, ammesso che sia possibile ottenerlo, richiede che la linea sia costruita per intero.

Veniamo alla prima parte del documento, quella con ambizioni di discorso sistemico: è la parte più pericolosa per il movimento NO TAV, perché si tratta di un abile minestrone che mescola tutto, accenni fortemente critici al progetto generale dell'alta velocità, e prospettive di riscatto dall'inquinamento basate sull'oggetto treno come mezzo di trasporto. Il suo punto di forza è nel richiamare alcuni luoghi comuni della cultura del popolo di sinistra, al cui interno il mito salvifico del treno è articolo di fede: slogan come trasferimento modale o cura del ferro inducono reazioni di consenso e di autoriconoscimento di gruppo che avrebbero giustificato l'entusiasmo di Pavlov. In questo contesto, il problema sempre più urgente dell'impatto del trasporto sul territorio, e dei suoi costi, non viene affrontato nei termini di un passo indietro del just in time, della ricostituzione di distretti industriali quasi-autosufficienti con scala geometrica di un paio di centinaia di Km, oppure della dematerializzazione degli scambi, ma con la sacralizzazione del mezzo di trasporto più rigido, un mezzo non autonomo – occorrono due camion invece di uno per trasportare una merce in treno – adatto solo allo spostamento di merci pesanti su percorsi di migliaia di Km. È scontato che le valutazioni degli economisti del settore, quelle attuali di Marco Ponti, di Proud'homme, di Marletto – quest'ultimo, docente di Economia Applicata, unico esperto di trasporti presente il 10 luglio a Roma, alla presentazione del F.A.R.E organizzata da Legambiente, ha immediatamante stroncato il documento – o quelle di ieri di Zambrini, non concordino con questa visione miracolistica. Ma nelle religioni dei santini il fare di conto è visto con sospetto.
Anche perché, come spesso accade, il fumo dei dogmi nasconde un intreccio corposo di interessi che ruota attorno alle costruzioni ferroviarie. RFI è la più ricca stazione appaltante del settore delle costruzioni e rappresenta pertanto un centro di potere economico e politico di grandissima rilevanza. Nella moltitudine di persone che mangiano a questa greppia, un ruolo particolare è occupato dal gruppo dei critici a corrente alternata. Implacabili nel riconoscere le carenze di una proposta infrastrutturale che sta crollando per conto proprio, fulminei nel delineare condizioni astratte che permettano di portare avanti l'impresa senza cambiare alcunché. È a questi personaggi che si deve nella seconda metà degli anni 90, nel momento più acuto di crisi del progetto TAV dovuto a Necci, la straordinaria scemenza di come una linea passeggeri ad alta velocità potesse essere utilizzata per il trasporto di merci a bassa velocità, senza cambiare né i tracciati né una riga del progetto. Il loro ruolo è quello del gallo che canta sopra il mucchio del letame, e la loro impronta riecheggia nel documento F.A.R.E., probabilmente per mano di Debernardi che a questo gruppo appartiene, e ha già scritto pagine simili. Solo che i fatti si sono già incaricati di smentire che le nuove linee modifichino la percentuale del trasporto di merci a favore della ferrovia. Ed allora, preso atto con grande onestà intellettuale anche di questa situazione nuova, difficile da nascondere, si gioca al rilancio: il discorso viene reso più complesso, arricchito di complicazioni amministrative, di discriminazioni tariffarie a danno dell'autotrasporto, di garanzie giuridiche da ottenere per il futuro. Tutto da discutere, analizzare, verificare; intanto, si aprono i cantieri.

Claudio Cancelli



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