Gli uomini rossi sono i Guaranì del Brasile, poche decine di
migliaia di sopravvissuti all'arrivo degli europei in Sud America, del
milione e mezzo originario che popolava Paraguay, Brasile, Bolivia e
Argentina.
Il gruppo più numeroso è adesso quello dei Kaiowà
che vive nel Mato grosso del sur, quella che una volta era la ‘foresta
fitta', ormai ridotta ai minimi termini dal progresso illuminato
dell'uomo bianco, che ha fatto del Brasile uno dei più grandi
produttori di biocombustibili al mondo.
I Guaranì-Kaiowà hanno perduto quasi totalmente le loro
terre, e vivono oggi stipati in riserve concesse dal governo ai margini
delle città. Intorno si stagliano infinite le coltivazioni
transgeniche dei fazendeiros, latifondisti che offrono loro la
possibilità di ‘lavorare' come veri e propri schiavi nelle
piantagioni di canna da zucchero, o di scimmiottare scene di guerra per
turisti birdwatchers che tra un airone e un cormorano non disdegnano
qualche selvaggio verace da immortalare nei loro brutti filmini. Una
delle tante conseguenze di questa condizione di vita dei Guaranì
è l'altissimo tasso di suicidi, soprattutto tra i giovani
(Luciane Ortiz aveva solo nove anni).
Il bel film di Marco Bechis (autore dell'indimenticabile Garage Olimpo)
parla di un gruppo di Guaranì-Kaiowà che pretende di
vivere nella propria terra, che coraggiosamente sconfina nella
proprietà di un fazendeiro, sfidandone la violenta reazione.
Il proprietario prova anche a parlare civilmente col trascinatore della
rivolta, Nàdio, in una scena tra le migliori del film: la
sua famiglia quelle terre le ha comprate tre generazioni or sono!
Legalmente!
È da sessant'anni che lui coltiva quella terra, che produce
cibo, che sfama delle persone! Nàdio tace, solo s'inchina,
prende un pugno di terra, e lo mangia.
L'orecchio del contadino di Bertolucci-Novecento, l'azione che Camus
predilige sulla riflessione sul proprio io. Il regista, contrariamente
a Joffè nel suo Mission, ha scelto come protagonisti dei
veri indigeni, relegando gli attori professionisti (C.Caselli,
C.Santamaria, M.Nachtergaele, L.Medeiros) a ruoli secondari.
Una storia potente, che si arrotola lineare attorno a chi è
usurpato e chi è usurpatore, una sceneggiatura incurante delle
rigide convenzioni drammaturgiche, che invece s'insinua lenta tra i
fazendeiros, tra i Guaranì, (i Mapuche Cileni, i Boscimani del
Botswana...), suggerendo che le nuove generazioni potrebbero porre fine
a tutto questo scempio, che il giovane Osvaldo – apprendista sciamano
dei Guaranì – e la figlia del fazendeiro saprebbero stare vicini.
Alla fine la rete viene serrata, e tra le maglie resta Nàdio, e
suo figlio, e la rabbia impotente di Osvaldo, che aveva forse sperato
che i bianchi potessero cambiare, resta l'urlo di chi ha saputo
resistere alla tentazione del suicidio, il grido reiterato e bestiale
del selvaggio, forse lo stesso selvaggio a cui Huxley affida un'ultima
disperata alternativa al Mondo Nuovo.
Antonio Morabito