Umanità Nova, n.29 del 21 settembre 2008, anno 88

Letture. La terra degli uomini rossi


Gli uomini rossi sono i Guaranì del Brasile, poche decine di migliaia di sopravvissuti all'arrivo degli europei in Sud America, del milione e mezzo originario che popolava Paraguay, Brasile, Bolivia e Argentina.
Il gruppo più numeroso è adesso quello dei Kaiowà che vive nel Mato grosso del sur, quella che una volta era la ‘foresta fitta', ormai ridotta ai minimi termini dal progresso illuminato dell'uomo bianco, che ha fatto del Brasile uno dei più grandi produttori di biocombustibili al mondo.
I Guaranì-Kaiowà hanno perduto quasi totalmente le loro terre, e vivono oggi stipati in riserve concesse dal governo ai margini delle città. Intorno si stagliano infinite le coltivazioni transgeniche dei fazendeiros, latifondisti che offrono loro la possibilità di ‘lavorare' come veri e propri schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero, o di scimmiottare scene di guerra per turisti birdwatchers che tra un airone e un cormorano non disdegnano qualche selvaggio verace da immortalare nei loro brutti filmini. Una delle tante conseguenze di questa condizione di vita dei Guaranì è l'altissimo tasso di suicidi, soprattutto tra i giovani (Luciane Ortiz aveva solo nove anni).
Il bel film di Marco Bechis (autore dell'indimenticabile Garage Olimpo) parla di un gruppo di Guaranì-Kaiowà che pretende di vivere nella propria terra, che coraggiosamente sconfina nella proprietà di un fazendeiro, sfidandone la violenta reazione.
Il proprietario prova anche a parlare civilmente col trascinatore della rivolta, Nàdio,  in una scena tra le migliori del film: la sua famiglia quelle terre le ha comprate tre generazioni or sono! Legalmente!
È da sessant'anni che lui coltiva quella terra, che produce cibo, che sfama delle persone! Nàdio tace, solo s'inchina, prende un pugno di terra, e lo mangia.
L'orecchio del contadino di Bertolucci-Novecento, l'azione che Camus predilige sulla riflessione sul proprio io. Il regista, contrariamente a Joffè nel suo Mission,  ha scelto come protagonisti dei veri indigeni, relegando gli attori professionisti (C.Caselli, C.Santamaria, M.Nachtergaele, L.Medeiros) a ruoli secondari.
Una storia potente, che si arrotola lineare attorno a chi è usurpato e chi è usurpatore, una sceneggiatura incurante delle rigide convenzioni drammaturgiche, che invece s'insinua lenta tra i fazendeiros, tra i Guaranì, (i Mapuche Cileni, i Boscimani del Botswana...), suggerendo che le nuove generazioni potrebbero porre fine a tutto questo scempio, che il giovane Osvaldo – apprendista sciamano dei Guaranì – e la figlia del fazendeiro saprebbero stare vicini.
Alla fine la rete viene serrata, e tra le maglie resta Nàdio, e suo figlio, e la rabbia impotente di Osvaldo, che aveva forse sperato che i bianchi potessero cambiare, resta l'urlo di chi ha saputo resistere alla tentazione del suicidio, il grido reiterato e bestiale del selvaggio, forse lo stesso selvaggio a cui Huxley affida un'ultima disperata alternativa al Mondo Nuovo.

Antonio Morabito





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