Umanità Nova, n.29 del 21 settembre 2008, anno 88

Per un nuovo sindacalismo


A partire dagli anni '90, e con un'accelerazione vorticosa in questi primi anni del XXI secolo, la ristrutturazione dei servizi alla persona così come concepiti dallo "Stato Sociale" di novecentesca memoria, ha comportato radicali trasformazioni degli stessi.  
Il carattere prevalentemente pubblico del servizio è andato sempre più privatizzandosi trasformando così la figura dell' "utente" in "cliente".  
A ciò è seguita la nascita di una miriade di cooperative cosiddette "sociali", associazioni cosiddette "onlus – no profit" che vedono, al proprio interno, lavorare moltissime persone alle quali non è più possibile accedere alle medesime attività all'interno delle A.S.L., Servizi Sociali dei Comuni, ecc. 
Alle lavoratrici e ai lavoratori impiegati in queste realtà viene fatta subire una particolare contraddizione: le particolari attenzioni di cura che vengono richieste e rivolte ai loro "clienti" sistematicamente vengono invece disattese verso di loro da parte delle rispettive dirigenze.  
 L'uso del precariato dato da assunzioni a contratto a tempo determinato, a contratto a progetto, a ritenuta d'acconto, ecc. è diventato ormai regola di rapporto di lavoro. 
Ad esso si aggiunge, a peggioramento non solo delle condizioni materiali date da retribuzioni al di sotto dei 1000€ mensili, una mentalità e coscienza diffusa data da retaggi culturali, particolarmente presenti nel settore, di derivazione cattolica ed ecclesiastica ma anche nel volontarismo laico e d'ispirazione di "sinistra". 
È l'ideologismo "buonista", "familistico", di "una mano lava l'altra", del "vulemosse bbene" che spesso viene richiesto dai vertici aziendali (cooperativistici o associazionistici che si vogliano definire…) verso le lavoratrici e lavoratori soprattutto in caso di "presunte" crisi economiche interne dovute sempre da cause contingenti ed esterne (ritardo dei pagamenti degli Enti Locali, ASL, aumento del costo della vita…ecc.) mentre poi, quando sono le lavoratrici e i lavoratori a richiedere diritti, forme contrattuali e retribuzioni adeguate soprattutto alle proprie competenze e professionalità espresse, allora si reitera modelli aziendali gerarchici con netta separazione tra chi comanda e chi deve ubbidire… 
Purtroppo però si sconta, a riguardo, una mancanza o una adeguata "coscienza di classe" da parte della classe lavoratrice genericamente definita del "sociale". 
Come accennato sopra, molto dipende dalle singole culture ed esperienze di provenienza (volontarismo cattolico o laico); alcuni si sono trovati a svolgere la stessa mansione o ruolo lavorativo esattamente come precedentemente impiegati nel ruolo di volontari e soprattutto non è ancora ben definita, oltre che nell'immaginario sociale e collettivo, il profilo professionale di queste nuove figure lavorative. 
Quindi sentirsi appartenere a un qualcosa che trascenda la propria dimensione individuale e quotidiana (la classe), ad essere soggetto agente anche dei propri diritti "sindacali" nel proprio posto di lavoro, se per altre categorie lavorative è più facile dovuto ad una "tradizione" – sempre più fievole –  in tal senso, nel settore socio-educativo-assistenziale è un percorso in gran parte da costruire. 
Ecco perché tutte le professionalità operanti nel "sociale" devono iniziare ad incontrarsi, a comunicare tra loro, a condividere non solo situazioni che ben sappiamo precarie e difficili, ma soprattutto, se vi sono, esperienze di lotte, di rivendicazioni, di percorsi di autorganizzazione e sindacalizzazione. 
Spesso assistiamo a reali situazioni di abusi, di tracotanza e incompetenza dirigenziale ad opera dei "vertici" delle realtà lavorative presso le quali siamo impiegati e a fronte di ciò scontiamo la mancanza di un reale strumento di "difesa" e "promozione" dei nostri diritti: un'organizzazione di tipo sindacale! 
Un'organizzazione di tipo sindacale radicata nel posto di lavoro, che sia realmente alternativa – per modalità operative al suo interno e nelle conduzione delle rivendicazioni portate avanti dalla classe lavoratrice "sociale" – al collateralismo concertativo dei sindacati di Stato CGIL-CISL-UIL o  a residue "cinghie di trasmissione" di alcuni sindacati di "base". 
Un'organizzazione di tipo sindacale che non si chiuda nel suo "settorialismo" ma che sappia raccordarsi alla migliore tradizione confederale del movimento operaio e del lavoro in generale. 
Un'organizzazione di tipo sindacale che sia di stimolo per i suoi militanti, ma non solo, per un rilancio qualificato dell'idea di "lavoro sociale" che rompa con l'attuale vulgata e concezione denotata in senso "paternalistico", bieco assistenzialismo verso persone che, se oggettivamente in condizioni di bisogno e aiuto, siano da considerarsi anche cittadini portatori di diritti. 
Un'organizzazione di tipo sindacale quindi che sappia rilanciare il tema dell'unità tra "utenti" e "operatori" contro la privatizzazione dei servizi pubblici e sociali operati da tutti i governi succedutesi negli ultimi quindici anni. 
Un'impresa politica, sociale e soprattutto sindacale quindi non certo facile visto anche la frammentarietà di chi questo invito si rivolge. 
Siamo ad un punto ZERO di partenza? 
Io penso di no! 
Vi sono già diverse realtà che nel percorso dell'autorganizzazione hanno iniziato a tessere reti di collegamento ("operai sociali", "formiche rosse") e alcuni, nel proprio posto di lavoro, si sono impegnati nella costruzione di strutture sindacali di tipo più "tradizionale".
Io penso però che se questi "embrioni" non colgono la necessità di crescere, svilupparsi e coordinarsi anche con altre realtà – ossia le parti migliori del sindacalismo di base  e di classe a prescindere dalle sigle organizzative – che storicamente hanno acquisito forza e credibilità verso il mondo del lavoro salariato, tali esperienze potrebbero risultare, se non fallaci, sicuramente poco incisive nell'attuale scenario dei rapporti e contraddizioni tra capitale e lavoro.
Concludendo quindi il mio auspicio è che – con tempi e modalità tutte da decidere – si inizi a costruire, a partire dai propri posti di lavoro, dal basso e nel rispetto delle proprie identità e autonomie, rivendicazioni contrattuali e salariali il più possibile in senso unitario. 
E chi, all'interno di queste professioni, si riconosce o milita in organizzazioni anarchiche e libertarie, sicuramente ha spazio e tempo per giocare un ruolo importante.

Paolo Masala  
F.A.I. - Milano





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