A partire dagli anni '90, e con un'accelerazione vorticosa in questi
primi anni del XXI secolo, la ristrutturazione dei servizi alla persona
così come concepiti dallo "Stato Sociale" di novecentesca
memoria, ha comportato radicali trasformazioni degli
stessi.
Il carattere prevalentemente pubblico del servizio è andato
sempre più privatizzandosi trasformando così la figura
dell' "utente" in "cliente".
A ciò è seguita la nascita di una miriade di cooperative
cosiddette "sociali", associazioni cosiddette "onlus – no profit" che
vedono, al proprio interno, lavorare moltissime persone alle quali non
è più possibile accedere alle medesime attività
all'interno delle A.S.L., Servizi Sociali dei Comuni, ecc.
Alle lavoratrici e ai lavoratori impiegati in queste realtà
viene fatta subire una particolare contraddizione: le particolari
attenzioni di cura che vengono richieste e rivolte ai loro "clienti"
sistematicamente vengono invece disattese verso di loro da parte delle
rispettive dirigenze.
L'uso del precariato dato da assunzioni a contratto a tempo
determinato, a contratto a progetto, a ritenuta d'acconto, ecc.
è diventato ormai regola di rapporto di lavoro.
Ad esso si aggiunge, a peggioramento non solo delle condizioni
materiali date da retribuzioni al di sotto dei 1000€ mensili, una
mentalità e coscienza diffusa data da retaggi culturali,
particolarmente presenti nel settore, di derivazione cattolica ed
ecclesiastica ma anche nel volontarismo laico e d'ispirazione di
"sinistra".
È l'ideologismo "buonista", "familistico", di "una mano lava
l'altra", del "vulemosse bbene" che spesso viene richiesto dai vertici
aziendali (cooperativistici o associazionistici che si vogliano
definire…) verso le lavoratrici e lavoratori soprattutto in caso di
"presunte" crisi economiche interne dovute sempre da cause contingenti
ed esterne (ritardo dei pagamenti degli Enti Locali, ASL, aumento del
costo della vita…ecc.) mentre poi, quando sono le lavoratrici e i
lavoratori a richiedere diritti, forme contrattuali e retribuzioni
adeguate soprattutto alle proprie competenze e professionalità
espresse, allora si reitera modelli aziendali gerarchici con netta
separazione tra chi comanda e chi deve ubbidire…
Purtroppo però si sconta, a riguardo, una mancanza o una
adeguata "coscienza di classe" da parte della classe lavoratrice
genericamente definita del "sociale".
Come accennato sopra, molto dipende dalle singole culture ed esperienze
di provenienza (volontarismo cattolico o laico); alcuni si sono trovati
a svolgere la stessa mansione o ruolo lavorativo esattamente come
precedentemente impiegati nel ruolo di volontari e soprattutto non
è ancora ben definita, oltre che nell'immaginario sociale e
collettivo, il profilo professionale di queste nuove figure
lavorative.
Quindi sentirsi appartenere a un qualcosa che trascenda la propria
dimensione individuale e quotidiana (la classe), ad essere soggetto
agente anche dei propri diritti "sindacali" nel proprio posto di
lavoro, se per altre categorie lavorative è più facile
dovuto ad una "tradizione" – sempre più fievole – in tal
senso, nel settore socio-educativo-assistenziale è un percorso
in gran parte da costruire.
Ecco perché tutte le professionalità operanti nel
"sociale" devono iniziare ad incontrarsi, a comunicare tra loro, a
condividere non solo situazioni che ben sappiamo precarie e difficili,
ma soprattutto, se vi sono, esperienze di lotte, di rivendicazioni, di
percorsi di autorganizzazione e sindacalizzazione.
Spesso assistiamo a reali situazioni di abusi, di tracotanza e
incompetenza dirigenziale ad opera dei "vertici" delle realtà
lavorative presso le quali siamo impiegati e a fronte di ciò
scontiamo la mancanza di un reale strumento di "difesa" e "promozione"
dei nostri diritti: un'organizzazione di tipo sindacale!
Un'organizzazione di tipo sindacale radicata nel posto di lavoro, che
sia realmente alternativa – per modalità operative al suo
interno e nelle conduzione delle rivendicazioni portate avanti dalla
classe lavoratrice "sociale" – al collateralismo concertativo dei
sindacati di Stato CGIL-CISL-UIL o a residue "cinghie di
trasmissione" di alcuni sindacati di "base".
Un'organizzazione di tipo sindacale che non si chiuda nel suo
"settorialismo" ma che sappia raccordarsi alla migliore tradizione
confederale del movimento operaio e del lavoro in generale.
Un'organizzazione di tipo sindacale che sia di stimolo per i suoi
militanti, ma non solo, per un rilancio qualificato dell'idea di
"lavoro sociale" che rompa con l'attuale vulgata e concezione denotata
in senso "paternalistico", bieco assistenzialismo verso persone che, se
oggettivamente in condizioni di bisogno e aiuto, siano da considerarsi
anche cittadini portatori di diritti.
Un'organizzazione di tipo sindacale quindi che sappia rilanciare il
tema dell'unità tra "utenti" e "operatori" contro la
privatizzazione dei servizi pubblici e sociali operati da tutti i
governi succedutesi negli ultimi quindici anni.
Un'impresa politica, sociale e soprattutto sindacale quindi non certo
facile visto anche la frammentarietà di chi questo invito si
rivolge.
Siamo ad un punto ZERO di partenza?
Io penso di no!
Vi sono già diverse realtà che nel percorso
dell'autorganizzazione hanno iniziato a tessere reti di collegamento
("operai sociali", "formiche rosse") e alcuni, nel proprio posto di
lavoro, si sono impegnati nella costruzione di strutture sindacali di
tipo più "tradizionale".
Io penso però che se questi "embrioni" non colgono la
necessità di crescere, svilupparsi e coordinarsi anche con altre
realtà – ossia le parti migliori del sindacalismo di base
e di classe a prescindere dalle sigle organizzative – che storicamente
hanno acquisito forza e credibilità verso il mondo del lavoro
salariato, tali esperienze potrebbero risultare, se non fallaci,
sicuramente poco incisive nell'attuale scenario dei rapporti e
contraddizioni tra capitale e lavoro.
Concludendo quindi il mio auspicio è che – con tempi e
modalità tutte da decidere – si inizi a costruire, a partire dai
propri posti di lavoro, dal basso e nel rispetto delle proprie
identità e autonomie, rivendicazioni contrattuali e salariali il
più possibile in senso unitario.
E chi, all'interno di queste professioni, si riconosce o milita in
organizzazioni anarchiche e libertarie, sicuramente ha spazio e tempo
per giocare un ruolo importante.
Paolo Masala
F.A.I. - Milano