Umanità Nova, n.30 del 28 settembre 2008, anno 88

come dopo il '29...


La settimana che si è appena conclusa rappresenta, fino in fondo, una svolta epocale nella storia dell'economia moderna. Dopo una sofferta quaresima durata oltre un anno, la crisi dei mutui subprime, scoppiata nel luglio 2007, è giunta alle sue conseguenze più devastanti, mietendo a catena una serie di vittime eccellenti. Sono saltate via via tutte le dighe che le autorità monetarie hanno cercato di erigere sul percorso del tornado, che come un fiume impazzito ha trascinato nel baratro alcune tra le più blasonate case d'investimento del mondo, dalla storia secolare, ma dalle basi fragilissime. Le pazzie deliranti di questo ultimo decennio hanno prodotto una valanga di strumenti finanziari "innovativi" che hanno finito per costruire un gigantesco castello di carta, sotto le cui macerie sono finiti gli stessi autori ed architetti della colossale macchinazione. Possiamo provare a ripercorrere brevemente quanto è successo e prospettare qualche ipotesi per gli scenari che ci attendono.
E' noto a tutti come la crisi dei mutui subprime sia stata originata da un continuo processo di indebitamento della società americana, in particolare delle famiglie e dei privati, basata sull'ipotesi che il prezzo degli immobili fosse destinato a salire in modo inarrestabile, senza mai invertire di segno. Questa errata convinzione si è formata in un periodo di basso costo del denaro, mantenuto artificialmente a quel livello per dare modo all'economia di uscire dalla crisi che ha preceduto e seguito l'abbattimento delle Torri Gemelle. Quando i tassi d'interesse hanno ripreso a salire, la gente non ha più retto le rate dei mutui ed ha cominciato a diventare insolvente. Le banche hanno preso a escutere le garanzie, vendendo sul mercato le case pignorate, determinando un crollo dei prezzi, che in alcune zone è arrivato al 25-30%. Intanto i crediti di bassa qualità erano stati impacchettati in strutture finanziarie "salsiccia", vendute in tutto il mondo, che come un virus letale hanno infettato tutta la finanza mondiale, a partire dalle aree europee e asiatiche. L'America ha così esportato i propri crediti marci ed insieme ad essi una ingegneria finanziaria basata sul debito come componente primaria, nello sforzo costante di trasferire in avanti nel tempo il momento della resa dei conti. Conti apparentemente brillanti,  presentati trimestralmente, con utili stratosferici, analisti e gestori soddisfatti, amministratori delegati zeppi di stock option succulente e veicoli societari fuori bilancio il cui contenuto non è noto a nessuno. Questa folle corsa verso il buio comincia  a mandare qualcuno fuori strada a partire dall'estate 2007.
A pagare sono per prime le società e le banche specializzate nei mutui: la Countrywide in America, la Northern Rock in Gran Bretagna. Le file davanti alla banca inglese, a settembre, di clienti panicati decisi a ritirare i depositi fanno il giro del mondo: sembra però un episodio di cattiva gestione locale, la Bank of England interviene e nazionalizza la banca (in barba alla teoria ortodossa neoliberista), la Fed e le altre banche centrali iniettano dosi da cavallo di liquidità nel sistema per finanziare le banche e sorreggere le borse.
Le banche cominciano a guardare dentro i propri bilanci, per capire cosa hanno in pancia, e si rendono conto di possedere elementi "alieni", asset finanziari sconosciuti cui nessuno sa più attribuire un valore. Sono crediti illiquidi, cioè impossibili da vendere, cose senza mercato, senza compratori, senza valore. Tutte le principali banche cominciano a svalutare, ad ogni trimestre, una quantità gigantesca di questa robaccia, per diluire nel tempo lo sgonfiamento del proprio valore.
Le Borse continuano, in modo inarrestabile, la loro discesa, con particolare velocità per il settore finanziario. Banche come Citibank, Morgan Stanley e Ubs devono svalutare così tanto che per sopravvivere sono costrette a continui aumenti di capitali, cercare risorse fresche, andare a caccia di nuovi soci. Devono accettare l'ingresso nella loro stanza dei bottoni di nuovi padroni, i fondi sovrani imbottiti di soldi incassati con la rendita petrolifera e con l'aumento di tutte le altre materie prime. Nonostante questo le loro azioni crollano del 50% in pochi mesi, in alcuni casi anche del 60-70%.  Ma queste sono quelle che vanno bene! Quelle che vanno male arrivano a perdere il 90% del loro valore e arrivano alla resa dei conti. La situazione è particolarmente grave per quelle banche d'affari che non hanno una rete di sportelli per la raccolta diretta di fondi: sono le mitiche Lehman Bros, Morgan Stanley, Goldman Sachs, Merrill Lynch e la più piccola Bear Stearns, che crolla nel marzo 2008. Viene salvata dalla JPMorgan, con un prestito garantito dalla Fed. Sembra che un fallimento bancario importante sia ancora intollerabile per il sistema. Ma la crisi peggiora, come una trivella che scava sempre più nel profondo e porta alla luce guai sempre più grandi. La sfiducia reciproca tra le banche blocca il mercato interbancario dei fondi e fa impennare i tassi, cui sono indicizzati i mutui delle famiglie e i prestiti alle imprese. Il costo del denaro vola sempre più in alto, finanziarsi è sempre più costoso, su molte banche circolano voci insistenti di un fallimento imminente. All'inizio di settembre il governo interviene per salvare Freddie Mac e Fannie Mae, le due agenzie governative che da 40 anni garantiscono il finanziamento dei mutui, con utili privati e rischi pubblici. Ma anche questo non basta: alla fine le previsioni finiscono per auto-avverarsi e domenica 14 settembre la Lehman Brothers annuncia il fallimento, mentre si attende di ora in ora il crollo a catena di tutte le sue "sorelle": la Merrill Lynch viene comprata per pochi spiccioli dalla Bank of America, mentre Morgan Stanley e Goldman Sachs cercheranno freneticamente, per tutta la settimana, un compratore disponibile a salvarle. Intanto va in fallimento tecnico anche la Aig, la più grande compagnia assicurativa del mondo, quella che gestisce i mitici 401 (k), i fondi pensioni degli americani: il governo la nazionalizza concedendo un prestito da 85 miliardi di dollari ed azzerando i vertici. Il panico raggiunge il livello massimo, su entrambe le sponde dell'Atlantico: in Europa si fanno i conti per valutare quanto costa il fallimento Lehman e si scopre che pagheranno salato soprattutto le banche francesi (Bnp Paribas, Società Generale, Credit Agricole), ma anche la franco belga Dexia, in misura minore tutte le banche ed assicurazioni europee (in misura peraltro bipartisan, in Italia ad esempio avranno guai sia Mediolanum che Unipol). Le obbligazioni Lehman in giro per il mondo ammontano a circa 160 miliardi di dollari, un fallimento dieci volte più grande di quello Parmalat: e questo senza contare gli altri impegni che, come controparte bancaria, non potrà più assolvere.
La situazione è così drammatica, giovedì 18 settembre, che si prezzano le obbligazioni Morgan e Goldman a livello di fallimento, e si assiste ad una fuga precipitosa da tutte le obbligazioni bancarie. Sembra una Cernobyl finanziaria e si approssima la fusione del nocciolo. A questo punto il Tesoro Usa e la Fed annunciano un piano gigantesco di salvataggio del sistema, ispirato ad un intervento analogo a quello del New Deal, nel  1932, e al piano per assorbire il fallimento delle casse di risparmio nel 1988/89. Si tratta di fare comprare allo stato tutti i crediti inesigibili, i mutui subprime, le attività illiquide, ancora presenti nella pancia delle banche, in modo da eliminare le "tossine" dal sistema finanziario. In questo modo le banche smetterebbero di pignorare le case e buttarle sul mercato: la gente non perderebbe più la casa, i prezzi degli immobili potrebbero stabilizzarsi e poi, gradualmente, ricominciare a salire. Contemporaneamente, la Fed  vieta per  10 giorni la vendita allo scoperto dei titoli di 799 banche ed istituzioni finanziarie, per impedire la pratica illegale diffusa di puntare al ribasso e insieme diffondere notizie false per fare precipitare i prezzi. Questo ultimo provvedimento è il vero responsabile del rialzo repentino e impetuoso delle borse, nella seduta del 19 settembre.
Funzionerà il piano della Fed e del Tesoro, ammesso che venga approvato in tempo, prima dello scioglimento del Congresso? Bisognerà aspettare 20 anni prima di dare una risposta definitiva. Non ci sono certezze neanche sui costi: si va da stime di 600 miliardi di dollari, a  previsioni che si spingono fino a cinque volte tanto. Certamente farà esplodere il deficit pubblico Usa, che già nel 2008 era previsto in salita da 390 a 463 miliardi di dollari e soprattutto il debito pubblico americano, che potrà salire, per legge, fino a 11.300 miliardi di dollari.
Siamo certamente ad una svolta epocale: crolla rovinosamente la teoria liberista e la sua illusione nelle virtù del mercato, e questo non nei discorsi di rivoluzionari con la testa dura, ma nella ideologia dichiarata della classe dominante, che oggi si deve rassegnare ad un ritorno dello stato per sanare i guasti prodotti dalla propria incontrollata gestione dell'economia e della finanza. Non è certamente la fine del capitalismo, ma di certo la fine di questo capitalismo.
Ci sarà tempo e modo per ragionare sui processi profondi che questa svolta innescherà, a cominciare dal fatto che ancora una volta, e in una misura massiccia, senza precedenti, vengono socializzate le perdite dopo 20/25 anni di giganteschi profitti privati. Questo processo avviene con un silenzio assordante da parte di quello che resta del movimento operaio, ma pone anche le premesse per una ripresa di ragionamento e di conflitto sulle risorse pubbliche, sul loro uso, sulla loro redistribuzione. Sulle rovine di un sistema finanziario fallito, deve svilupparsi la critica teorica e pratica di un corpo sociale chiamato a pagare, tramite tasse, il costo del salvataggio. Non è pensabile che tutto continui come se nulla fosse accaduto.

RENATO STRUMIA


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