La settimana che si è appena conclusa rappresenta, fino in
fondo, una svolta epocale nella storia dell'economia moderna. Dopo una
sofferta quaresima durata oltre un anno, la crisi dei mutui subprime,
scoppiata nel luglio 2007, è giunta alle sue conseguenze
più devastanti, mietendo a catena una serie di vittime
eccellenti. Sono saltate via via tutte le dighe che le autorità
monetarie hanno cercato di erigere sul percorso del tornado, che come
un fiume impazzito ha trascinato nel baratro alcune tra le più
blasonate case d'investimento del mondo, dalla storia secolare, ma
dalle basi fragilissime. Le pazzie deliranti di questo ultimo decennio
hanno prodotto una valanga di strumenti finanziari "innovativi" che
hanno finito per costruire un gigantesco castello di carta, sotto le
cui macerie sono finiti gli stessi autori ed architetti della colossale
macchinazione. Possiamo provare a ripercorrere brevemente quanto
è successo e prospettare qualche ipotesi per gli scenari che ci
attendono.
E' noto a tutti come la crisi dei mutui subprime sia stata originata da
un continuo processo di indebitamento della società americana,
in particolare delle famiglie e dei privati, basata sull'ipotesi che il
prezzo degli immobili fosse destinato a salire in modo inarrestabile,
senza mai invertire di segno. Questa errata convinzione si è
formata in un periodo di basso costo del denaro, mantenuto
artificialmente a quel livello per dare modo all'economia di uscire
dalla crisi che ha preceduto e seguito l'abbattimento delle Torri
Gemelle. Quando i tassi d'interesse hanno ripreso a salire, la gente
non ha più retto le rate dei mutui ed ha cominciato a diventare
insolvente. Le banche hanno preso a escutere le garanzie, vendendo sul
mercato le case pignorate, determinando un crollo dei prezzi, che in
alcune zone è arrivato al 25-30%. Intanto i crediti di bassa
qualità erano stati impacchettati in strutture finanziarie
"salsiccia", vendute in tutto il mondo, che come un virus letale hanno
infettato tutta la finanza mondiale, a partire dalle aree europee e
asiatiche. L'America ha così esportato i propri crediti marci ed
insieme ad essi una ingegneria finanziaria basata sul debito come
componente primaria, nello sforzo costante di trasferire in avanti nel
tempo il momento della resa dei conti. Conti apparentemente
brillanti, presentati trimestralmente, con utili stratosferici,
analisti e gestori soddisfatti, amministratori delegati zeppi di stock
option succulente e veicoli societari fuori bilancio il cui contenuto
non è noto a nessuno. Questa folle corsa verso il buio
comincia a mandare qualcuno fuori strada a partire dall'estate
2007.
A pagare sono per prime le società e le banche specializzate nei
mutui: la Countrywide in America, la Northern Rock in Gran Bretagna. Le
file davanti alla banca inglese, a settembre, di clienti panicati
decisi a ritirare i depositi fanno il giro del mondo: sembra
però un episodio di cattiva gestione locale, la Bank of England
interviene e nazionalizza la banca (in barba alla teoria ortodossa
neoliberista), la Fed e le altre banche centrali iniettano dosi da
cavallo di liquidità nel sistema per finanziare le banche e
sorreggere le borse.
Le banche cominciano a guardare dentro i propri bilanci, per capire
cosa hanno in pancia, e si rendono conto di possedere elementi
"alieni", asset finanziari sconosciuti cui nessuno sa più
attribuire un valore. Sono crediti illiquidi, cioè impossibili
da vendere, cose senza mercato, senza compratori, senza valore. Tutte
le principali banche cominciano a svalutare, ad ogni trimestre, una
quantità gigantesca di questa robaccia, per diluire nel tempo lo
sgonfiamento del proprio valore.
Le Borse continuano, in modo inarrestabile, la loro discesa, con
particolare velocità per il settore finanziario. Banche come
Citibank, Morgan Stanley e Ubs devono svalutare così tanto che
per sopravvivere sono costrette a continui aumenti di capitali, cercare
risorse fresche, andare a caccia di nuovi soci. Devono accettare
l'ingresso nella loro stanza dei bottoni di nuovi padroni, i fondi
sovrani imbottiti di soldi incassati con la rendita petrolifera e con
l'aumento di tutte le altre materie prime. Nonostante questo le loro
azioni crollano del 50% in pochi mesi, in alcuni casi anche del
60-70%. Ma queste sono quelle che vanno bene! Quelle che vanno
male arrivano a perdere il 90% del loro valore e arrivano alla resa dei
conti. La situazione è particolarmente grave per quelle banche
d'affari che non hanno una rete di sportelli per la raccolta diretta di
fondi: sono le mitiche Lehman Bros, Morgan Stanley, Goldman Sachs,
Merrill Lynch e la più piccola Bear Stearns, che crolla nel
marzo 2008. Viene salvata dalla JPMorgan, con un prestito garantito
dalla Fed. Sembra che un fallimento bancario importante sia ancora
intollerabile per il sistema. Ma la crisi peggiora, come una trivella
che scava sempre più nel profondo e porta alla luce guai sempre
più grandi. La sfiducia reciproca tra le banche blocca il
mercato interbancario dei fondi e fa impennare i tassi, cui sono
indicizzati i mutui delle famiglie e i prestiti alle imprese. Il costo
del denaro vola sempre più in alto, finanziarsi è sempre
più costoso, su molte banche circolano voci insistenti di un
fallimento imminente. All'inizio di settembre il governo interviene per
salvare Freddie Mac e Fannie Mae, le due agenzie governative che da 40
anni garantiscono il finanziamento dei mutui, con utili privati e
rischi pubblici. Ma anche questo non basta: alla fine le previsioni
finiscono per auto-avverarsi e domenica 14 settembre la Lehman Brothers
annuncia il fallimento, mentre si attende di ora in ora il crollo a
catena di tutte le sue "sorelle": la Merrill Lynch viene comprata per
pochi spiccioli dalla Bank of America, mentre Morgan Stanley e Goldman
Sachs cercheranno freneticamente, per tutta la settimana, un compratore
disponibile a salvarle. Intanto va in fallimento tecnico anche la Aig,
la più grande compagnia assicurativa del mondo, quella che
gestisce i mitici 401 (k), i fondi pensioni degli americani: il governo
la nazionalizza concedendo un prestito da 85 miliardi di dollari ed
azzerando i vertici. Il panico raggiunge il livello massimo, su
entrambe le sponde dell'Atlantico: in Europa si fanno i conti per
valutare quanto costa il fallimento Lehman e si scopre che pagheranno
salato soprattutto le banche francesi (Bnp Paribas, Società
Generale, Credit Agricole), ma anche la franco belga Dexia, in misura
minore tutte le banche ed assicurazioni europee (in misura peraltro
bipartisan, in Italia ad esempio avranno guai sia Mediolanum che
Unipol). Le obbligazioni Lehman in giro per il mondo ammontano a circa
160 miliardi di dollari, un fallimento dieci volte più grande di
quello Parmalat: e questo senza contare gli altri impegni che, come
controparte bancaria, non potrà più assolvere.
La situazione è così drammatica, giovedì 18
settembre, che si prezzano le obbligazioni Morgan e Goldman a livello
di fallimento, e si assiste ad una fuga precipitosa da tutte le
obbligazioni bancarie. Sembra una Cernobyl finanziaria e si approssima
la fusione del nocciolo. A questo punto il Tesoro Usa e la Fed
annunciano un piano gigantesco di salvataggio del sistema, ispirato ad
un intervento analogo a quello del New Deal, nel 1932, e al piano
per assorbire il fallimento delle casse di risparmio nel 1988/89. Si
tratta di fare comprare allo stato tutti i crediti inesigibili, i mutui
subprime, le attività illiquide, ancora presenti nella pancia
delle banche, in modo da eliminare le "tossine" dal sistema
finanziario. In questo modo le banche smetterebbero di pignorare le
case e buttarle sul mercato: la gente non perderebbe più la
casa, i prezzi degli immobili potrebbero stabilizzarsi e poi,
gradualmente, ricominciare a salire. Contemporaneamente, la Fed
vieta per 10 giorni la vendita allo scoperto dei titoli di 799
banche ed istituzioni finanziarie, per impedire la pratica illegale
diffusa di puntare al ribasso e insieme diffondere notizie false per
fare precipitare i prezzi. Questo ultimo provvedimento è il vero
responsabile del rialzo repentino e impetuoso delle borse, nella seduta
del 19 settembre.
Funzionerà il piano della Fed e del Tesoro, ammesso che venga
approvato in tempo, prima dello scioglimento del Congresso?
Bisognerà aspettare 20 anni prima di dare una risposta
definitiva. Non ci sono certezze neanche sui costi: si va da stime di
600 miliardi di dollari, a previsioni che si spingono fino a
cinque volte tanto. Certamente farà esplodere il deficit
pubblico Usa, che già nel 2008 era previsto in salita da 390 a
463 miliardi di dollari e soprattutto il debito pubblico americano, che
potrà salire, per legge, fino a 11.300 miliardi di dollari.
Siamo certamente ad una svolta epocale: crolla rovinosamente la teoria
liberista e la sua illusione nelle virtù del mercato, e questo
non nei discorsi di rivoluzionari con la testa dura, ma nella ideologia
dichiarata della classe dominante, che oggi si deve rassegnare ad un
ritorno dello stato per sanare i guasti prodotti dalla propria
incontrollata gestione dell'economia e della finanza. Non è
certamente la fine del capitalismo, ma di certo la fine di questo
capitalismo.
Ci sarà tempo e modo per ragionare sui processi profondi che
questa svolta innescherà, a cominciare dal fatto che ancora una
volta, e in una misura massiccia, senza precedenti, vengono
socializzate le perdite dopo 20/25 anni di giganteschi profitti
privati. Questo processo avviene con un silenzio assordante da parte di
quello che resta del movimento operaio, ma pone anche le premesse per
una ripresa di ragionamento e di conflitto sulle risorse pubbliche, sul
loro uso, sulla loro redistribuzione. Sulle rovine di un sistema
finanziario fallito, deve svilupparsi la critica teorica e pratica di
un corpo sociale chiamato a pagare, tramite tasse, il costo del
salvataggio. Non è pensabile che tutto continui come se nulla
fosse accaduto.
RENATO STRUMIA