Ed. Tropea, 2008
E' un romanzo di difficile collocazione e di non facile decifrazione. Vediamo il perché.
Innanzitutto la struttura del testo, costruita essenzialmente su
dialoghi e frasi secche, da un lato invoglia ad una lettura tutta di un
fiato, dall'altro forse preclude le necessarie pause di riflessione in
merito ai contenuti, espliciti e impliciti.
Di fatto la storia è apparentemente semplice: il protagonista
(l'io narrante), una sorta di Leopold Bloom minore, peregrina in quella
sorta di banlieue proletaria e nostrana che è Sestri Ponente,
senza scopo preciso, tale non è infatti la ricerca di Pietro, il
venditore di pianeti, al quale porre una domanda che non c'è.
Suggerisco allora una serie di possibili itinerari di lettura o di
chiavi interpretative: il primo è il "viaggio" in sé, la
ricerca che si snoda nell'incontro di una lunga serie di personaggi
vivi, ma di primo acchito assai improbabili. Improbabili però
non significa impossibili. Chiunque abbia vissuto per un po' di tempo
in quelle peculiari "comunità" che sono le osterie (o nei bar di
un tempo) sa benissimo che il nocciolo duro della clientela, gli
immancabili, le pietre miliari di queste aggregazioni particolari di
umanità, assomigliano in maniera impressionante ai vari Gommolo,
Barbera, Gino Pattume, Bestia, Antonio il Corto, Carlo Tomaszewski,
Vincio lo Zingaro, ecc. che popolano l'Osteria dei soprannomi del
romanzo di Sommariva. E qui (ma non solo qui, in qualsiasi tessuto
comunitario) i soprannomi giocano un ruolo fondamentale. Se i nomi -
come disse un filosofo di cui non ricordo il nome - sono cartellini da
appendere alle cose o le persone - sottintendendo l'arbitrarietà
della denominazione, i soprannomi sono le persone in senso stretto,
intimo e profondo. E lo sono perché prodotto di un processo
sociale di attribuzione di identità, che riassume nel soprannome
i caratteri tipici e fondanti la persona, nonché la
qualità dei suoi rapporti con gli altri.
Il secondo è l'itinerario tra i luoghi dell'azione (o
non-azione). Innanzitutto su Sestri bisogna spendere qualche parola.
Città a vocazione industriale (per scelta di fine ottocento
dell'establishment politico-economico genovese), già sede di una
storica e battagliera Camera del Lavoro sindacalista, viene aggregata
alla Grande Genova nel 1926. Rimangono però spiccati il senso
dell'autonomia, l'eredità delle vecchie tradizioni, le
specificità locali e culturali. Dunque, il suo carattere di
cittadina-paese è rimasto parzialmente inalterato e i luoghi
dell'azione del romanzo sono sia facilmente identificabili per un
sestrese, sia caratteristici della peculiarità di Sestri: la
stazione ferroviaria, transito del pendolarismo in entrata e in uscita;
le vecchie carceri affacciate sulla piazza del mercato (a ciassa di
Micoin dove una volta si cucinava all'aperto la mesciua - mi scuso ma
il mio genovese scritto, ma ho perso dimestichezza); viale Canepa, con
gli alberi che testimoniano un passato importante; via Chiaravagna,
stretta e tortuosa, antico accesso a Borzoli, ex-comune confinante
ormai integrato a Sestri; via Vigna, costeggiante le vecchie carceri e
la piazza dei Micone, dove c'è (o c'era) veramente l'Osteria dei
Soprannomi o meglio un vecchio bar popolare. Se posso muovere un
benevolo appunto a Marco, è quello di aver dimenticato (a
proposito di soprannomi) la vecchia friggitoria soprannominata Mussa de
fero (in onore di qualche sconosciuta virtù di una vecchia
proprietaria) poche decine di metri più avanti la sua Osteria.
Il terzo infine è l'itinerario nella memoria, implicitamente, ma
costantemente giocato tra il passato e il presente. C'è la
vecchia Sestri, i personaggi "pubblici" che la popolavano, il sentire
comune dei "paesani"; ma c'è anche quella nuova con le sue
contraddizioni di quartiere che quartiere non è, di paesone che
paese non è più, di periferia che periferia non vuole
essere.
Il futuro non è bello e l'incazzatura che trapela dai dialoghi
dell'io narrante e degli altri personaggi che popolano il romanzo
è contro un mondo che li vuole omologare, se non cancellare,
come è già avvenuto per tanti piccoli mondi-paese, come
quelli della nostra giovinezza. Speriamo che ciò accada il
più tardi possibile.
Guido Barroero