Sulle modalità che hanno portato la finanza americana al
collasso dello scorso "settembre nero" c'è una sostanziale
convergenza di vedute, anche tra osservatori appartenenti a diverse
correnti di pensiero.
Le responsabilità vanno attribuite ai banchieri, la cui
ingordigia ha portato gli istituti di credito a concedere prestiti
anche a chi non aveva i requisiti per rimborsarli; alla follia degli
ingegneri finanziari, apprendisti stregoni che credevano di poter
governare il rischio con qualche formula algebrica; alle
autorità di controllo che, permettendo il fiorire di
cartolarizzazioni e veicoli fuori bilancio (conduit, siv, abs), per
anni hanno occultato i veri conti economici delle banche; alle agenzie
di rating, che hanno allegramente attribuito giudizi "tripla AAA" a
titoli "tossici" senza neanche guardare cosa contenevano.
La condanna coinvolge tutto il sistema economico degli Stati Uniti, che
ha scelto di basare la propria crescita sul debito. Debito con
l'estero, incrementatosi nel 2007 di 758 miliardi di dollari (il 5.7%
del Pil americano). Debito pubblico, il cui ammontare (9.400 miliardi
di dollari nel marzo 2008) è cresciuto di oltre il 50% negli
ultimi 6 anni, a causa delle spese per la guerra. Debito delle famiglie
che, tra mutui immobiliari e credito al consumo, è pari
all'incredibile cifra di 17 mila miliardi di dollari.
Adesso siamo tutti d'accordo ad affermare che così non va, anche
se molte voci che oggi disapprovano le scelte passate dicevano cose
diverse solo pochi mesi fa. Tuttavia le condanne che piovono sul mondo
della finanza non aiutano a capire cosa c'è dietro l'esplosione
del debito in tutti i paesi occidentali.
Certo, banche ed intermediari finanziari offrivano prestiti, ma
qualcuno li avrà pur dovuti sottoscrivere. Perché le
famiglie americane, inglesi e anche quelle italiane hanno accettato di
indebitarsi?
La crisi attuale non si spiega senza considerare il processo di
finanziarizzazione dell'economia. Infatti esso ha determinato un
profondo riassetto nella distribuzione del reddito prodotto dai sistemi
economici. A partire dagli anni '80 del XX secolo, la quota di prodotto
interno destinato alla remunerazione dei detentori di capitale
finanziario è cresciuta in maniera rilevante.
Utili delle imprese distribuiti sotto forma di dividendi, profitti di
banche ed imprese di assicurazione, plusvalenze realizzate da fondi di
private equity e da hedge funds, guadagni nelle compravendite
azionarie, rendimenti cedolari corrisposti su una massa di titoli
obbligazionari in forte crescita, boom immobiliare sono solo le
principali voci attraverso cui i grandi patrimoni hanno messo le mani
su una fetta sempre più ampia del reddito prodotto dalle
economie occidentali.
«L'aumento della quota di reddito nazionale attribuita al
capitale si riflette in un maggior rendimento medio degli assets
patrimoniali, nei quali il capitale è rappresentato, e il cui
valore, perciò, aumenta a un tasso sensibilmente superiore a
quello del reddito nazionale ... Un meccanismo siffatto non può
che aumentare le disuguaglianze nella distribuzione del reddito»
[1].
Lo si capisce bene se consideriamo le remunerazioni dei top manager
delle grandi imprese e la concentrazione dei patrimoni: «gli
amministratori delegati delle multinazionali 30 anni fa guadagnavano un
salario 35 volte superiore a quello di un impiegato medio: oggi la
proporzione è di 350 a 1… I 1100 individui più ricchi del
mondo hanno un patrimonio quasi due volte superiore a quello dei 2.5
miliardi più poveri» [2].
Se qualcuno guadagna di più, qualcun altro deve guadagnare meno.
Negli ultimi decenni, infatti, è diminuita la parte di reddito
destinata ai salariati. Assumiamo l'ammontare delle retribuzioni dei
lavoratori dipendenti come variabile rappresentativa della
remunerazione del fattore lavoro e rapportiamo tale valore al Pil.
Consideriamo l'andamento di questo indice negli Stati Uniti. Nel 1980
tale incidenza superava il 49%, valore replicato nel 2000, all'apice
della stagione della new economy. A partire dall'inizio del XXI secolo
la quota di reddito attribuita al lavoro dipendente ha preso a
diminuire, fino a toccare il 46% del prodotto interno lordo. Se, con
riferimento al 2007, si restituisse ai lavoratori la stessa quota di
Pil che avevano nel 2000, si dovrebbe aumentare la massa salariale di
circa 438 miliardi di dollari, ossia alzare le retribuzioni di oltre
270 dollari al mese per dipendente!
C'è però un problema nuovo che nasce da questo mutamento.
A partire dalla trasformazione fordista del sistema di produzione, i
consumi delle famiglie sono il principale motore delle economie dei
paesi avanzati. La crescita del prodotto interno è determinata
in misura rilevante proprio dall'andamento di queste spese.
Tutto ciò è talmente vero che le nostre società
non esitano a stimolare i consumi, soprattutto quelli voluttuari:
automobili da cambiare ogni 2–3 anni, abbigliamento giù di moda
dopo pochi mesi, prodotti tecnologici resi rapidamente obsoleti da
nuove generazioni.
Il sistema economico ha bisogno di voraci consumatori per sostenere la propria capacità produttiva.
Questa continua (e spesso inutile) sostituzione di merci è
sconcertante, anche alla luce dei danni provocati all'ambiente. Ma non
è questo ciò che ci interessa esaminare. Il punto
è che i consumi sono determinanti per sostenere la crescita del
reddito nazionale.
Quand'è così, però, nasce una evidente
contraddizione. Come è possibile incrementare i consumi delle
famiglie nel momento in cui si riduce il loro reddito reale? Cosa si
può fare per far aumentare la capacità di spesa di
lavoratori nel momento in cui si riduce il potere d'acquisto delle
retribuzioni? Questo fondamentale dilemma va sciolto, pena la
stagnazione dei sistemi produttivi.
Per certi aspetti, la soluzione trovata è stata geniale: la
capacità di spesa delle famiglie sarà garantita dal loro
indebitamento.
Si è quindi sviluppato un sistema perverso in base al quale il
consumo è stato sostenuto non dalla disponibilità di
reddito, bensì dalla concessione di credito.
Ai lavoratori è stata ridotta la retribuzione reale, accordandogli però il "diritto" di ottenere credito.
Ecco dove è nata la patologia di sistemi economici, in
particolare quello americano e inglese, in cui i privati hanno azzerato
la loro capacità di risparmio e hanno costruito il loro
benessere su una montagna di debiti.
Allora la crisi che stiamo vivendo oggi non è che il risultato
della sconfitta che il movimento dei lavoratori ha subito a partire
dagli anni '80 del secolo scorso.
A riprova che senza un maggiore egualitarismo non si ha una crescita
economica solida e sostenibile. In altri termini: la lotta di classe fa
bene all'economia!
Toni
1 Silvano Andrian, L'ascesa della finanza, Donzelli, 2006. Pag. 126
2 David Rothkopf, Se tremano le élites della finanza, "Il Sole 24 Ore", 18 maggio 2008