Umanità Nova, n.32 del 12 ottobre 2008, anno 88

Crisi, debito e consumi


Sulle modalità che hanno portato la finanza americana al collasso dello scorso "settembre nero" c'è una sostanziale convergenza di vedute, anche tra osservatori appartenenti a diverse correnti di pensiero.
Le responsabilità vanno attribuite ai banchieri, la cui ingordigia ha portato gli istituti di credito a concedere prestiti anche a chi non aveva i requisiti per rimborsarli; alla follia degli ingegneri finanziari, apprendisti stregoni che credevano di poter governare il rischio con qualche formula algebrica; alle autorità di controllo che, permettendo il fiorire di cartolarizzazioni e veicoli fuori bilancio (conduit, siv, abs), per anni hanno occultato i veri conti economici delle banche; alle agenzie di rating, che hanno allegramente attribuito giudizi "tripla AAA" a titoli "tossici" senza neanche guardare cosa contenevano.
La condanna coinvolge tutto il sistema economico degli Stati Uniti, che ha scelto di basare la propria crescita sul debito. Debito con l'estero, incrementatosi nel 2007 di 758 miliardi di dollari (il 5.7% del Pil americano). Debito pubblico, il cui ammontare (9.400 miliardi di dollari nel marzo 2008) è cresciuto di oltre il 50% negli ultimi 6 anni, a causa delle spese per la guerra. Debito delle famiglie che, tra mutui immobiliari e credito al consumo, è pari all'incredibile cifra di 17 mila miliardi di dollari.
Adesso siamo tutti d'accordo ad affermare che così non va, anche se molte voci che oggi disapprovano le scelte passate dicevano cose diverse solo pochi mesi fa. Tuttavia le condanne che piovono sul mondo della finanza non aiutano a capire cosa c'è dietro l'esplosione del debito in tutti i paesi occidentali.
Certo, banche ed intermediari finanziari offrivano prestiti, ma qualcuno li avrà pur dovuti sottoscrivere. Perché le famiglie americane, inglesi e anche quelle italiane hanno accettato di indebitarsi?
La crisi attuale non si spiega senza considerare il processo di finanziarizzazione dell'economia. Infatti esso ha determinato un profondo riassetto nella distribuzione del reddito prodotto dai sistemi economici. A partire dagli anni '80 del XX secolo, la quota di prodotto interno destinato alla remunerazione dei detentori di capitale finanziario è cresciuta in maniera rilevante.
Utili delle imprese distribuiti sotto forma di dividendi, profitti di banche ed imprese di assicurazione, plusvalenze realizzate da fondi di private equity e da hedge funds, guadagni nelle compravendite azionarie, rendimenti cedolari corrisposti su una massa di titoli obbligazionari in forte crescita, boom immobiliare sono solo le principali voci attraverso cui i grandi patrimoni hanno messo le mani su una fetta sempre più ampia del reddito prodotto dalle economie occidentali.
«L'aumento della quota di reddito nazionale attribuita al capitale si riflette in un maggior rendimento medio degli assets patrimoniali, nei quali il capitale è rappresentato, e il cui valore, perciò, aumenta a un tasso sensibilmente superiore a quello del reddito nazionale ... Un meccanismo siffatto non può che aumentare le disuguaglianze nella distribuzione del reddito» [1].
Lo si capisce bene se consideriamo le remunerazioni dei top manager delle grandi imprese e la concentrazione dei patrimoni: «gli amministratori delegati delle multinazionali 30 anni fa guadagnavano un salario 35 volte superiore a quello di un impiegato medio: oggi la proporzione è di 350 a 1… I 1100 individui più ricchi del mondo hanno un patrimonio quasi due volte superiore a quello dei 2.5 miliardi più poveri» [2].
Se qualcuno guadagna di più, qualcun altro deve guadagnare meno. Negli ultimi decenni, infatti, è diminuita la parte di reddito destinata ai salariati. Assumiamo l'ammontare delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti come variabile rappresentativa della remunerazione del fattore lavoro e rapportiamo tale valore al Pil. Consideriamo l'andamento di questo indice negli Stati Uniti. Nel 1980 tale incidenza superava il 49%, valore replicato nel 2000, all'apice della stagione della new economy. A partire dall'inizio del XXI secolo la quota di reddito attribuita al lavoro dipendente ha preso a diminuire, fino a toccare il 46% del prodotto interno lordo. Se, con riferimento al 2007, si restituisse ai lavoratori la stessa quota di Pil che avevano nel 2000, si dovrebbe aumentare la massa salariale di circa 438 miliardi di dollari, ossia alzare le retribuzioni di oltre 270 dollari al mese per dipendente!
C'è però un problema nuovo che nasce da questo mutamento. A partire dalla trasformazione fordista del sistema di produzione, i consumi delle famiglie sono il principale motore delle economie dei paesi avanzati. La crescita del prodotto interno è determinata in misura rilevante proprio dall'andamento di queste spese.
Tutto ciò è talmente vero che le nostre società non esitano a stimolare i consumi, soprattutto quelli voluttuari: automobili da cambiare ogni 2–3 anni, abbigliamento giù di moda dopo pochi mesi, prodotti tecnologici resi rapidamente obsoleti da nuove generazioni.
Il sistema economico ha bisogno di voraci consumatori per sostenere la propria capacità produttiva.
Questa continua (e spesso inutile) sostituzione di merci è sconcertante, anche alla luce dei danni provocati all'ambiente. Ma non è questo ciò che ci interessa esaminare. Il punto è che i consumi sono determinanti per sostenere la crescita del reddito nazionale.
Quand'è così, però, nasce una evidente contraddizione. Come è possibile incrementare i consumi delle famiglie nel momento in cui si riduce il loro reddito reale? Cosa si può fare per far aumentare la capacità di spesa di lavoratori nel momento in cui si riduce il potere d'acquisto delle retribuzioni? Questo fondamentale dilemma va sciolto, pena la stagnazione dei sistemi produttivi.
Per certi aspetti, la soluzione trovata è stata geniale: la capacità di spesa delle famiglie sarà garantita dal loro indebitamento.
Si è quindi sviluppato un sistema perverso in base al quale il consumo è stato sostenuto non dalla disponibilità di reddito, bensì dalla concessione di credito.
Ai lavoratori è stata ridotta la retribuzione reale, accordandogli però il "diritto" di ottenere credito.
Ecco dove è nata la patologia di sistemi economici, in particolare quello americano e inglese, in cui i privati hanno azzerato la loro capacità di risparmio e hanno costruito il loro benessere su una montagna di debiti.
Allora la crisi che stiamo vivendo oggi non è che il risultato della sconfitta che il movimento dei lavoratori ha subito a partire dagli anni '80 del secolo scorso.
A riprova che senza un maggiore egualitarismo non si ha una crescita economica solida e sostenibile. In altri termini: la lotta di classe fa bene all'economia!

Toni


1 Silvano Andrian, L'ascesa della finanza, Donzelli, 2006. Pag. 126
2 David Rothkopf, Se tremano le élites della finanza, "Il Sole 24 Ore", 18 maggio 2008




home | sommario | comunicati | archivio | link | contatti