Nella prima pagina del numero 32 di UN Toni ha descritto bene i
caratteri peculiari della deriva planetaria della finanza e dei suoi
effetti sull'economia reale, soprattutto sulla sopravvivenza dei
lavoratori, che, dalla metà degli anni Ottanta del secolo
scorso, vedono i loro redditi cristallizzarsi in un regime di prezzi
crescenti e di precarietà del lavoro.
In queste poche righe tenterò di sintetizzare alcuni aspetti
particolari della crisi e dei progetti messi in atto dai soloni
dell'economia mondiale (o almeno da quei soloni che trovano credito
immediato e operativo).
Intanto i piani di salvataggio del sistema bancario. Dopo il demenziale
progetto Paulson di addossare al Tesoro americano sic et simpliciter la
voragine di debiti del sistema bancario statunitense, è
prevalsa, anche per l'amministrazione Bush, la soluzione proposta dal
premier britannico Gordon Brown di investire i governi della
responsabilità di regolare direttamente l'operato sin qui
dissennato del sistema bancario. In Inghilterra si parla di
nazionalizzazioni, in America di prestiti privilegiati, dalla
remunerazione modesta, compensati dalla partecipazione diretta del
Tesoro alla gestione delle imprese finanziarie beneficiarie dei 250
miliardi di dollari prelevati dai 700 miliardi approvati recentemente
dal Congresso Americano.
Personalmente credo si tratti di una goccia nel mare. Si pensi soltanto
alla nazionalizzazione dei colossi dei mutui Fannie e Mac e ai molti
scheletri che diverse banche americane nascondono ancora negli armadi.
Il loro indebitamento rischia di scaricare sul debito pubblico quote di
rischio valutate intorno ai 4500 miliardi di dollari. La consapevolezza
dell'inadeguatezza della terapia adottata, del resto, è bene
sottolineata dallo scetticismo della borsa: dopo un'effimera ripresa,
tutte le borse del Vecchio e del Nuovo Continente hanno continuato a
navigare nel più profondo rosso.
Quale sia la strategia dell'Europa ancora non è chiaro. Il
piano inglese di stanziare 250 miliardi di sterline e quello tedesco di
400 miliardi di euro per immettere liquidità nei rispettivi
sistemi bancari, non hanno apportato fiducia negli investitori, i quali
sono adesso preoccupati della recessione in corso.
Come è già chiaro in questo scarno panorama, il dato
più significativo che emerge dalle strategie terapeutiche
adottate per arginare il collasso del sistema, è la
vanificazione delle norme che, in decenni di interminabili discussioni,
hanno sostenuto e attuato un'economia di mercato sempre più
deregolata. Il capitalismo, nelle sue forme di liberismo sempre
più alleggerito da paletti vincolanti, in poche settimane
è stato travolto dalle sue stesse dinamiche. La libera
concorrenza, la capacità del mercato di autoregolarsi, tutte le
normative che la Comunità Europea si sforzava, tra molte
difficoltà, di imporre ai paesi membri a salvaguardia della
libertà d'impresa e ad argine delle ingerenze delle istituzioni
governative, si sono dissolte, travolte anche loro dai fallimenti
colossali di quelle stesse strutture che erano le colonne portanti del
sistema capitalistico.
Credo però che, anche per chi, come noi anarchici, ha sempre
denunciato il perverso modello di sviluppo prevalente, ci sia poco di
che rallegrarsi. Il pesante debito pubblico che affligge quasi tutte le
economie dei paesi sviluppati e la riduzione drastica della produzione
di ricchezza (Pil) scaricherà sulla fiscalità generale (e
quindi, in prevalenza, sui contribuenti più poveri) il peso
degli ulteriori indebitamenti degli Stati per il salvataggio dei
sistemi bancari ed assicurativi, principali responsabili del disastro.
Ma un altro fantasma si aggira soprattutto in Europa, evocato dalla
crisi del sistema finanziario e delle Borse: il fantasma della
destinazione di quegli immensi capitali ad alto rischio che si stanno
ritirando dal mercato azionario, il cui collasso non consente
più operazioni speculative a basso rischio (o le consente molto
meno, anche perché le autorità monetarie in America e nel
vecchio continente hanno posto un freno alle operazioni a termine).
È notizia della scorsa settimana che Steve Cohen, dallo scanno
più alto della sua Sac Capital Advisors, ha ritirato dal
mercato azionario ben sette miliardi di dollari, la metà del suo
fondo, impegnando tale cifra sul mercato monetario e su titoli del
debito a breve termine. Ma non è il solo. Si calcola che almeno
400 miliardi di dollari dei così detti fondi locusta (gli hedge
fund) hanno abbandonato la Borsa per trasferirsi in allocazioni
facilmente tramutabili in denaro liquido. Quale sarà la
destinazione di questi immensi capitali, ai quali vanno aggiunti i
fondi sovrani (prevalentemente provenienti dalla produzione petrolifera
medio orientale)? La preoccupazione fondata è che essi tentino
di finanziarizzare quote importanti dell'economia reale, avviando
scalate ostili verso le grandi industrie europee, scorporandone i
settori più attivi e rivendendoli al maggiore offerente.
Un esempio per tutti: nello scorso settembre sotto tiro è la
grande industria tedesca Daimler, la casa di Stoccarda che produce la
Mercedes. La Daimler attraversa grosse difficoltà per
l'abbandono di molti suoi investitori, tra cui la stessa Deutche
Bank che ha ridotto al 7% la propria quota azionaria, ed ha un
disperato bisogno di trovare sul mercato nuove risorse. Su di essa ha
orientato la sua attenzione la Cervian Capital, un'azienda
d'investimento svedese che già detiene il 3% del capitale
azionario della Daimler. Il disegno è quello di moltiplicare in
fretta la propria partecipazione azionaria, anche con l'ausilio di
altri investitori disponibili e di procedere allo scorporo del settore
automezzi e camion della casa tedesca per offrirlo al migliore
offerente. La Cervian non è nuova a queste operazioni,
avendo proceduto analogamente con la casa di moda svedese Lindex e con
il settore automezzi pesanti della Volvo. Nella stessa Germania
pressioni analoghe vengono fatte persino nei riguardi della Borsa di
Francoforte. E segnali simili provengono da molte altre latitudini.
Ove attacchi di questo genere divenissero sistematici e investissero le
maggiori imprese industriali europee, le conseguenze sarebbero
catastrofiche, non soltanto perché milioni di lavoratori
sarebbero espulsi dal mondo della produzione, ma perché verrebbe
esposto alla speculazione più dissennata l'intero apparato di
produzione della ricchezza che ancora sopravvive nel vecchio continente.
A.Car.