Umanità Nova, n.34 del 26 ottobre 2008, anno 88

Scalate verso la catastrofe


Nella prima pagina del numero 32 di UN Toni ha descritto bene i caratteri peculiari della deriva planetaria della finanza e dei suoi effetti sull'economia reale, soprattutto sulla sopravvivenza dei lavoratori, che, dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, vedono i loro redditi cristallizzarsi in un regime di prezzi crescenti e di precarietà del lavoro.
In queste poche righe tenterò di sintetizzare alcuni aspetti particolari della crisi e dei progetti messi in atto dai soloni dell'economia mondiale (o almeno da quei soloni che trovano credito immediato e operativo).
Intanto i piani di salvataggio del sistema bancario. Dopo il demenziale progetto Paulson di addossare al Tesoro americano sic et simpliciter la voragine di debiti del sistema bancario statunitense, è prevalsa, anche per l'amministrazione Bush, la soluzione proposta dal premier britannico Gordon Brown di investire i governi della responsabilità di regolare direttamente l'operato sin qui dissennato del sistema bancario. In Inghilterra si parla di nazionalizzazioni, in America di prestiti privilegiati, dalla remunerazione modesta, compensati dalla partecipazione diretta del Tesoro alla gestione delle imprese finanziarie beneficiarie dei 250 miliardi di dollari prelevati dai 700 miliardi approvati recentemente dal Congresso Americano.
Personalmente credo si tratti di una goccia nel mare. Si pensi soltanto alla nazionalizzazione dei colossi dei mutui Fannie e Mac e ai molti scheletri che diverse banche americane nascondono ancora negli armadi. Il loro indebitamento rischia di scaricare sul debito pubblico quote di rischio valutate intorno ai 4500 miliardi di dollari. La consapevolezza dell'inadeguatezza della terapia adottata, del resto, è bene sottolineata dallo scetticismo della borsa: dopo un'effimera ripresa, tutte le borse del Vecchio e del Nuovo Continente hanno continuato a navigare nel più profondo rosso.
 Quale sia la strategia dell'Europa ancora non è chiaro. Il piano inglese di stanziare 250 miliardi di sterline e quello tedesco di 400 miliardi di euro per immettere liquidità nei rispettivi sistemi bancari, non hanno apportato fiducia negli investitori, i quali sono adesso preoccupati  della recessione in corso.
Come è già chiaro in questo scarno panorama, il dato più significativo che emerge dalle strategie terapeutiche adottate per arginare il collasso del sistema, è la vanificazione delle norme che, in decenni di interminabili discussioni, hanno sostenuto e attuato un'economia di mercato sempre più deregolata. Il capitalismo, nelle sue forme di liberismo sempre più alleggerito da paletti vincolanti, in poche settimane è stato travolto dalle sue stesse dinamiche. La libera concorrenza, la capacità del mercato di autoregolarsi, tutte le normative che la Comunità Europea si sforzava, tra molte difficoltà, di imporre ai paesi membri a salvaguardia della libertà d'impresa e ad argine delle ingerenze delle istituzioni governative, si sono dissolte, travolte anche loro dai fallimenti colossali di quelle stesse strutture che erano le colonne portanti del sistema capitalistico.
Credo però che, anche per chi, come noi anarchici, ha sempre denunciato il perverso modello di sviluppo prevalente, ci sia poco di che rallegrarsi. Il pesante debito pubblico che affligge quasi tutte le economie dei paesi sviluppati e la riduzione drastica della produzione di ricchezza (Pil) scaricherà sulla fiscalità generale (e quindi, in prevalenza, sui contribuenti più poveri) il peso degli ulteriori  indebitamenti degli Stati per il salvataggio dei sistemi bancari ed assicurativi, principali responsabili del disastro.
Ma un altro fantasma si aggira soprattutto in Europa, evocato dalla crisi del sistema finanziario e delle Borse: il fantasma della destinazione di quegli immensi capitali ad alto rischio che si stanno ritirando dal mercato azionario, il cui collasso non consente più operazioni speculative a basso rischio (o le consente molto meno, anche perché le autorità monetarie in America e nel vecchio continente hanno posto un freno alle operazioni a termine).
È notizia della scorsa settimana che Steve Cohen, dallo scanno più alto della sua  Sac Capital Advisors, ha ritirato dal mercato azionario ben sette miliardi di dollari, la metà del suo fondo, impegnando tale cifra sul mercato monetario e su titoli del debito a breve termine. Ma non è il solo. Si calcola che almeno 400 miliardi di dollari dei così detti fondi locusta (gli hedge fund) hanno abbandonato la Borsa per trasferirsi in allocazioni facilmente tramutabili in denaro liquido. Quale sarà la destinazione di questi immensi capitali, ai quali vanno aggiunti i fondi sovrani (prevalentemente provenienti dalla produzione petrolifera medio orientale)? La preoccupazione fondata è che essi tentino di finanziarizzare quote importanti dell'economia reale, avviando scalate ostili verso le grandi industrie europee, scorporandone i settori più attivi e rivendendoli al maggiore offerente.
Un esempio per tutti: nello scorso settembre sotto tiro è la grande industria tedesca Daimler, la casa di Stoccarda che produce la Mercedes.  La Daimler attraversa grosse difficoltà per l'abbandono di molti suoi investitori, tra cui la  stessa Deutche Bank che ha ridotto al 7% la propria quota azionaria, ed ha un disperato bisogno di trovare sul mercato nuove risorse. Su di essa ha orientato la sua attenzione la Cervian Capital, un'azienda d'investimento svedese che già detiene il 3% del capitale azionario della Daimler. Il disegno è quello di moltiplicare in fretta la propria partecipazione azionaria, anche con l'ausilio di altri investitori disponibili e di procedere allo scorporo del settore automezzi e camion della casa tedesca per offrirlo al migliore offerente.  La Cervian non è nuova a queste operazioni, avendo proceduto analogamente con la casa di moda svedese Lindex e con il settore automezzi pesanti della Volvo. Nella stessa Germania pressioni analoghe vengono fatte persino nei riguardi della Borsa di Francoforte. E segnali simili provengono da molte altre latitudini.
Ove attacchi di questo genere divenissero sistematici e investissero le maggiori imprese industriali europee, le conseguenze sarebbero catastrofiche, non soltanto perché milioni di lavoratori sarebbero espulsi dal mondo della produzione, ma perché verrebbe esposto alla speculazione più dissennata l'intero apparato di produzione della ricchezza che ancora sopravvive nel vecchio continente.

A.Car.


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