Et voilà! Nell'arco
di appena 17 anni abbiamo assistito al crollo dello stalinismo
sovietico e al tonfo del capitalismo liberista. Quest'ultimo,
però, a differenza del "socialismo reale", ha un piano di
riserva. Infatti, il capitalismo ha delle fasi cicliche in cui alterna
il liberismo all'intervento statale: davanti al crollo dei mercati
finanziari gli Stati, per evitare guai peggiori, si sono fatti carico
delle insolvenze bancarie.
Al piano Paulson di 850 miliardi di dollari gli Stati europei hanno
risposto mettendo in campo interventi per oltre duemila miliardi di
euro. Insomma, il messaggio che è stato lanciato dalle
autorità è chiaro: adesso basta, le grandi banche non
possono più fallire!
Si è quindi imboccata la strada delle nazionalizzazioni
(più o meno esplicite), in particolare in quei paesi che
più di altri avevano fatto del non intervento pubblico la loro
ideologia: Stati Uniti e Regno Unito.
L'intervento pubblico è la soluzione definitiva? Lo sforzo dei
governi occidentali ha senza dubbio allontanato lo spettro del collasso
del sistema finanziario internazionale. Tuttavia, anche prescindendo
dal vero problema, ossia la trasmissione della crisi all'economia
reale, occorre considerare con attenzione gli effetti di questi
salvataggi.
Le risorse per ricapitalizzare gli istituti di credito in
difficoltà andranno a gravare sui debiti pubblici degli Stati
che sono intervenuti. Stiamo assistendo, in definitiva, a niente
più che una trasformazione di passività private in oneri
statali. Naturalmente, il fallimento di uno Stato è più
difficile di quello di un'azienda. Ma, come l'esempio dell'Argentina
dimostra, non è impossibile.
Questo problema introduce due aspetti che vanno esaminati. Il primo
riguarda la copertura del debito e dei relativi interessi che gli Stati
dovranno pagare. Vi sono pochi dubbi sul fatto che, almeno nel medio
termine, si dovranno alzare le imposte per aumentare le entrate
statali. Chi pagherà il conto? Più tasse per i poveri
rischiano di compromettere i consumi, base fondamentale per la crescita
del prodotto interno. Non bisogna poi trascurare il fatto che,
specialmente negli Stati Uniti, vi è una diffusa irritazione
contro banchieri e finanzieri. Aumenti dell'onere fiscale derivanti dal
salvataggio delle banche si scontrerebbero con una diffusa rabbia
popolare, che ha già creato problemi all'approvazione del
pacchetto Paulson nelle scorse settimane. D'altra parte la
necessità di trovare denaro da parte dei governi sarà una
questione ineludibile. È ipotizzabile che una misura contingente
possa essere la ripresa dell'inflazione che, abbattendo il valore della
moneta, aiuta i debitori. Ma ciò non basterà. Sarà
necessario trovare i soggetti da colpire con più tasse. Non
occorrerebbe molta fantasia per vedere chi ha più denaro da
"offrire" alla causa della sostenibilità dei conti pubblici.
Sono i ceti che hanno beneficiato della finanziarizzazione
dell'economia negli anni passati: finanzieri, top manager,
immobiliaristi, star dello spettacolo, faccendieri, etc. In generale i
detentori di capitale finanziario e mediatico.
Vi è però un secondo aspetto da esaminare. Infatti, gli
Stati non sono tutti uguali. Qualcuno, come l'Italia, è
già molto indebitato. Qualche altro, come gli Stati Uniti, ha
visto crescere a dismisura l'incidenza del proprio debito sul Pil.
Questo comporta una limitazione del raggio d'azione. È ovvio, se
uso i soldi per salvare le banche ne avrò meno per fare altre
cose. Quali? La spesa pubblica ha diverse componenti: retribuzioni dei
dipendenti pubblici, pensioni, istruzione, sanità, esercito,
polizia, etc. Quali saranno i capitoli di spesa su cui si
abbatterà la scure dei tagli? Per esempio, la riduzione della
spesa sociale graverebbe sulle famiglie meno abbienti. Gli elettori
saranno disposti ad accettare, ancora una volta, un aumento delle
imposte e una diminuzione e dequalificazione dei servizi pubblici?
La situazione è ancora più complicata negli Stati Uniti,
dove la spesa sociale è, in proporzione, minore che altrove e
dove il governo deve mantenere un formidabile sistema militare per
garantirsi la supremazia geo-politica mondiale. Il dubbio che emerge da
parte di numerosi osservatori è che gli Usa non abbiano
più risorse economiche sufficienti per continuare a perseguire
una politica mondiale di super-potenza. I primi sintomi di questa
situazione si leggono nel sostanziale fallimento della guerra al
terrorismo (Afganistan e Iraq), nella magra figura fatta dall'Occidente
nel conflitto tra Russia e Georgia, nell'incapacità di fermare
il piano iraniano di dotarsi di armi nucleari, nella scarsità di
fondi per soccorrere la traballante Islanda, storico alleato
dell'America sull'orlo del collasso finanziario.
Sembra ormai altamente probabile che la grande crisi dei mutui
accelererà il ridimensionamento dell'egemonia americana nel
mondo. Il futuro presidente degli Stati Uniti si troverà a
gestire un paese indebitato e sofferente, con un debito pubblico nelle
mani di Stati esteri (Cina, Giappone, Russia e petromonarchie arabe)
potenziali concorrenti sul piano geo-politico. Non avrà un
compito facile.
I precedenti equilibri strategici internazionali sono saltati, i giochi
si sono riaperti e nuovi contendenti si stanno già facendo
avanti.
Toni