Umanità Nova, n.34 del 26 ottobre 2008, anno 88

Usa: crisi a tutto tondo


Et voilà! Nell'arco di appena 17 anni abbiamo assistito al crollo dello stalinismo sovietico e al tonfo del capitalismo liberista. Quest'ultimo, però, a differenza del "socialismo reale", ha un piano di riserva. Infatti, il capitalismo ha delle fasi cicliche in cui alterna il liberismo all'intervento statale: davanti al crollo dei mercati finanziari gli Stati, per evitare guai peggiori, si sono fatti carico delle insolvenze bancarie.
Al piano Paulson di 850 miliardi di dollari gli Stati europei hanno risposto mettendo in campo interventi per oltre duemila miliardi di euro. Insomma, il messaggio che è stato lanciato dalle autorità è chiaro: adesso basta, le grandi banche non possono più fallire!
Si è quindi imboccata la strada delle nazionalizzazioni (più o meno esplicite), in particolare in quei paesi che più di altri avevano fatto del non intervento pubblico la loro ideologia: Stati Uniti e Regno Unito.
L'intervento pubblico è la soluzione definitiva? Lo sforzo dei governi occidentali ha senza dubbio allontanato lo spettro del collasso del sistema finanziario internazionale. Tuttavia, anche prescindendo dal vero problema, ossia la trasmissione della crisi all'economia reale, occorre considerare con attenzione gli effetti di questi salvataggi.
Le risorse per ricapitalizzare gli istituti di credito in difficoltà andranno a gravare sui debiti pubblici degli Stati che sono intervenuti. Stiamo assistendo, in definitiva, a niente più che una trasformazione di passività private in oneri statali. Naturalmente, il fallimento di uno Stato è più difficile di quello di un'azienda. Ma, come l'esempio dell'Argentina dimostra, non è impossibile.
Questo problema introduce due aspetti che vanno esaminati. Il primo riguarda la copertura del debito e dei relativi interessi che gli Stati dovranno pagare. Vi sono pochi dubbi sul fatto che, almeno nel medio termine, si dovranno alzare le imposte per aumentare le entrate statali. Chi pagherà il conto? Più tasse per i poveri rischiano di compromettere i consumi, base fondamentale per la crescita del prodotto interno. Non bisogna poi trascurare il fatto che, specialmente negli Stati Uniti, vi è una diffusa irritazione contro banchieri e finanzieri. Aumenti dell'onere fiscale derivanti dal salvataggio delle banche si scontrerebbero con una diffusa rabbia popolare, che ha già creato problemi all'approvazione del pacchetto Paulson nelle scorse settimane. D'altra parte la necessità di trovare denaro da parte dei governi sarà una questione ineludibile. È ipotizzabile che una misura contingente possa essere la ripresa dell'inflazione che, abbattendo il valore della moneta, aiuta i debitori. Ma ciò non basterà. Sarà necessario trovare i soggetti da colpire con più tasse. Non occorrerebbe molta fantasia per vedere chi ha più denaro da "offrire" alla causa della sostenibilità dei conti pubblici. Sono i ceti che hanno beneficiato della finanziarizzazione dell'economia negli anni passati: finanzieri, top manager, immobiliaristi, star dello spettacolo, faccendieri, etc. In generale i detentori di capitale finanziario e mediatico.
Vi è però un secondo aspetto da esaminare. Infatti, gli Stati non sono tutti uguali. Qualcuno, come l'Italia, è già molto indebitato. Qualche altro, come gli Stati Uniti, ha visto crescere a dismisura l'incidenza del proprio debito sul Pil. Questo comporta una limitazione del raggio d'azione. È ovvio, se uso i soldi per salvare le banche ne avrò meno per fare altre cose. Quali? La spesa pubblica ha diverse componenti: retribuzioni dei dipendenti pubblici, pensioni, istruzione, sanità, esercito, polizia, etc. Quali saranno i capitoli di spesa su cui si abbatterà la scure dei tagli? Per esempio, la riduzione della spesa sociale graverebbe sulle famiglie meno abbienti. Gli elettori saranno disposti ad accettare, ancora una volta, un aumento delle imposte e una diminuzione e dequalificazione dei servizi pubblici?
La situazione è ancora più complicata negli Stati Uniti, dove la spesa sociale è, in proporzione, minore che altrove e dove il governo deve mantenere un formidabile sistema militare per garantirsi la supremazia geo-politica mondiale. Il dubbio che emerge da parte di numerosi osservatori è che gli Usa non abbiano più risorse economiche sufficienti per continuare a perseguire una politica mondiale di super-potenza. I primi sintomi di questa situazione si leggono nel sostanziale fallimento della guerra al terrorismo (Afganistan e Iraq), nella magra figura fatta dall'Occidente nel conflitto tra Russia e Georgia, nell'incapacità di fermare il piano iraniano di dotarsi di armi nucleari, nella scarsità di fondi per soccorrere la traballante Islanda, storico alleato dell'America sull'orlo del collasso finanziario.
Sembra ormai altamente probabile che la grande crisi dei mutui accelererà il ridimensionamento dell'egemonia americana nel mondo. Il futuro presidente degli Stati Uniti si troverà a gestire un paese indebitato e sofferente, con un debito pubblico nelle mani di Stati esteri (Cina, Giappone, Russia e petromonarchie arabe) potenziali concorrenti sul piano geo-politico. Non avrà un compito facile.
I precedenti equilibri strategici internazionali sono saltati, i giochi si sono riaperti e nuovi contendenti si stanno già facendo avanti.

Toni


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